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Almeno dite la verità: dite che è guerra

Publie le lunedì 12 aprile 2004 par Open-Publishing

I politici a volte devono mentire. Arnold Toynbee, lo storico inglese, poneva questi limiti, per il mondo libero: «Ciò che non si può permettere è che una menzogna ripetuta e prolungata impedisca il formarsi della decisione democratica». ("Uno Studio sulla Storia", 1934)

In ogni caso, avvertiva lo studioso, il prolungarsi della negazione della verità, in condizioni democratiche, è destinata a screditare l’intero sistema politico di un Paese».

Prendiamo il caso di ciò che sta accadendo in Iraq. Bush e Blair hanno mentito, affermando che la guerra era necessaria e che doveva anche essere immediata a causa di armi letali di distruzione di massa che avrebbero potuto entrare in azione con il preavviso di soli 45 minuti.

L’affermazione è risultata falsa, e c’è da immaginare che un tale accertamento creerà un danno ai due leader nelle prossime elezioni. Il fatto è che - nella vita democratica di quei due Paesi - tutti i cittadini sono informati del fatto che i rispettivi leader hanno mentito e sono in grado di tenerne conto nelle loro decisioni, nel formarsi e nell’evolversi dell’opinione pubblica, e nel voto.
In Italia ci sono due strati di menzogne come dimostra il viaggio lampo del presidente del Consiglio Berlusconi a Nassiriya. Il primo strato, da parte del governo e dei mezzi di comunicazione di massa a disposizione del governo (praticamente tutti) è la affermazione ripetuta della bugia di Bush e di Blair: la necessità di una guerra immediata, pena il rischio di distruzione del mondo civile.
Tale affermazione non è mai stata ritrattata o smentita o riconosciuta come un errore dal governo italiano, in nessuna occasione, anche dopo che il mondo intero ha verificato quella bugia.

Non è mai stata discussa in Parlamento - se non dalle voci osteggiate e zittite dell’opposizione - non è mai stata oggetto di commissioni di indagine e non ha mai motivato inchieste o programmi di approfondimento delle sette reti Tv controllate direttamente dal presidente del Consiglio e dai ministri chiave degli Esteri e della Difesa.

Il secondo strato di menzogne si è formato intorno alla definizione e natura della missione militare italiana in Iraq.

Nessuno di noi è in grado di dire come si possa definire, in termini diplomatici, l’invio di soldati italiani in una guerra che l’Italia non ha dichiarato (e non poteva dichiarare, considerato che la nostra Costituzione non lo consente), alla cui conduzione, concezione, strategia, l’Italia non partecipa, in cui non ha, né politicamente né militarmente, alcuna voce in capitolo.
Nella tradizione diplomatica del dopoguerra tutte le missioni militari italiane nel mondo hanno avuto una cornice diplomatica (ciò che è stabilito, previsto e dunque anche limitato da un trattato) oppure sono avvenute o avvengono nell’ambito di una organizzazione (Nato, Nazioni Unite). Ma anche nei casi Nato e Onu la missione è preceduta da specifiche definizioni di competenza, catena di comando e con la certezza che ciascun partecipante è presente in due punti della catena: quello in cui gli impegni assunti si eseguono. Ma anche quello in cui gli impegni da eseguire si decidono.

Può accadere che, nell’ambito Nato o delle nazioni Unite, il Paese A debba cedere i suoi soldati al comando del Paese B. Si tratta dei livelli di comando in cui si eseguono le singole parti delle singole missioni. Ma entrambi i Paesi sono presenti nel punto alto e strategico in cui, complessivamente, la missione è decisa e poi diretta.

Niente di tutto ciò è vero per i soldati italiani inviati a partecipare alla guerra irachena e assegnati alla regione dell’Iraq del Sud detta di Nassiriya.
Quella missione non è in ambito Nato o in ambito Nazioni Unite, come viene detto e ripetuto senza fondamento dal ministro Martino, non è stata pattuita con un trattato. Non esistono, e non sono state discusse in alcuna sede, regole di alcun tipo. È la prima volta, dopo il 1945, che una missione militare italiana all’estero avviene sotto comando d’altri e sotto altre bandiere, nell’ambito di piani che l’Italia non conosce, di una strategia a cui l’Italia non partecipa, e secondo ragioni e finalità che non vengono discusse o concordate con nessuno.

Il problema, nella sua gravità, è semplice: una volta entrati in una catena di comandi militari e una volta dislocati ad un livello sottoposto a due strati diversi e sovrapposti di comando non italiano (gli italiani ricevono ordini da ufficiali inglesi che a loro volta ricevono l’input sul che fare da ufficiali americani) entra in funzione il comandamento militare: gli ordini sono ordini. Ciò che ai soldati italiani viene ordinato di fare non è concordato o discusso con nessuno né in sede diplomatica, né in sede politica e non rinvia alle clausole (e dunque anche alla protezione) di alcun trattato. Gli ordini sono ordini, e i soldati italiani sono a disposizione di comandi che in nessun caso devono rispondere all’opinione pubblica o all’opinione politica italiana. Credete davvero che ufficiali e soldati italiani avrebbero, di propria iniziativa, ordinato l’attacco a ponti occupati dai miliziani ma anche gremiti di folla, ponti scoperti e indifendibili, dunque evidente luogo di una temporanea dimostrazione? Quanto può durare l’occupazione di una folla su un ponte scoperto?

Due giorni? Due notti?

Intorno a questo stato di cose, ovviamente insolito e ovviamente allarmante (anche perché coinvolge l’Italia dal punto di vista del rischio, ma la esclude dal punto di vista del dibattito e della decisione politica) si è creato un doppio anello di negazione della verità. Nel primo giro di pista si sostiene che tutte queste osservazioni e preoccupazioni sono infondate perché si tratta di una missione di pace.

Si tratta, ti dicono, di assistere la popolazione e di costruire infrastrutture. Quest’ultima definizione della missione è visibilmente infondata perché reparti militari senza attrezzatura e specializzazione ingegneristica non possono, benché bravi e volenterosi, costruire alcunché. Quanto ad assistere la popolazione, i reparti italiani hanno spesso dimostrato di saperlo fare bene e con umanità e intelligenza.
Ma è evidente che un contingente isolato di tremila uomini non può stabilire da solo l’atmosfera e le condizioni umane del rapporto con una popolazione. Infatti quei tremila soldati, con i loro ufficiali e comandanti, devono accettare la visione del mondo, della realtà della situazione contingente e anche locale stabiliti da altri, senza alcuna partecipazione italiana. Quei tremila soldati esposti a estremo rischio sono stati posti fuori dal processo decisionale democratico italiano e a disposizione di un comandante supremo - George Bush - che si è autodefinito, appena un mese fa, "Presidente di guerra". Gli iracheni lo sanno. Si può immaginare un solitario e diverso ruolo italiano? Si può, dopo la mattanza di questi giorni?

* * *

Dunque si tratta, nell’insieme, di una missione impossibile. Nonostante ciò i media del governo hanno lavorato a fare apparire come una offesa ai soldati italiani l’obiezione secondo cui non si può condurre da soli una missione di pace, mentre intorno tutti gli altri combattono, tanto che i soldati italiani hanno subito un attentato gravissimo e diciannove morti.

In un Paese privo di fonti autonome di informazione e dove, come nei regimi autoritari, tutte le notizie vengono dal governo e sono per il governo, la consegna è stata: chi fa obiezioni al governo tradisce i soldati. Il trucco è tipico delle dittature, che vogliono, con una mano, fare dei soldati quello che vogliono, e con l’altra celebrarli quando muoiono come i loro eroi personali.

La realtà si può leggere solo a rovescio. Chi ha a cuore, sia umanamente che dal punto di vista dell’orgoglio italiano, i propri militari, si domanda perché debbano operare sotto ordini di altri, rinunciando a due delle qualità migliori di cui spesso hanno saputo dar prova: umanità e buon senso. Rinunciando, ho detto, perché devono ubbidire, devono funzionare secondo i comandi di gente lontana che risponde in modo diverso ad altre opinioni pubbliche, ad altri parlamenti, con altre ragioni.

Poi c’è la pretesa, confermata di nuovo da ondate successive di informazione di stato: quale guerra? non c’è nessuna guerra.
Sentite che cosa dice il ministro italiano della Difesa mentre tornano i primi feriti di un combattimento durato molte ore e che ha provocato decine di morti fra i civili nella città di Nassiriya: «È irresponsabile demagogia parlare di guerra. L’Iraq è un Paese tranquillamente avviato alla democrazia» (nel programma Tv "Batti e ribatti" di Pierluigi Battista, sera del 7 aprile). Sono le stesse ore in cui il senatore Edward Kennedy ha detto: «È il nuovo Vietnam». È lo stesso giorno in cui l’ex ministro di Blair Robin Cook scrive: «Bombardare quartieri poveri e sovraffollati con i cannoni dei carri armati Apache non fa che spingere la stragrande maggioranza della popolazione a considerare gli nemici occupanti e a unirsi alla rivolta». (The Independent, 7 aprile). E il New York Times dello stesso giorno apre con il titolo: «Durissimi combattimenti in Iraq», e offre questo quadro della situazione: «Le truppe della coalizione sono coinvolte negli scontri più feroci dalla caduta di Saddam Hussein, costretti a combattere su due fronti, contro gli insorti sunniti di Baghdad e contro la rivolta sempre più rapida, efficace ed estesa degli sciiti. È stata bombardata una moschea, provocando decine di morti. È difficile dire il numero di caduti tra i soldati americani, anche perché si combatte in quasi tutte le città irachene» (Kirk Semple, pag.1).

Agli occhi del mondo, che siano occhi favorevoli a Bush o che siano ostili a ciò che sta accadendo, la terribile vicenda è chiara: in Iraq c’è la guerra. In Italia, come in una terribile e sanguinosa versione di Alice nel Paese delle meraviglie, tutto è visto a rovescio. Sei patriota se dici: in Iraq non c’è nessuna guerra. I nostri soldati stanno costruendo ponti. Vivono tranquillamente, circondati da buone maniere, nella città di Nassiriya. Ci devono restare perché tutti li vogliono. Sei un nemico dei soldati e della patria se affermi (con tutta la stampa e tutti i leader politici del mondo): c’è la guerra, ed è di estrema violenza, i soldati sono esposti a un pericolo grave e continuo. «Gli ordini vengono dall’alto, vengono dagli americani e dal generale inglese Andrew Stuart, che è il comandante militare dell’Iraq sud orientale» (La Stampa, 8 aprile). Lo precisa lo stesso Martino il giorno prima in Parlamento: «Gli ordini (dunque le azioni sui ponti e l’uso di armi pesanti) sono stati dati in base alla catena di comando prevista dall’organizzazione militare».

Noi non dobbiamo dirlo. Noi dobbiamo celebrare i soldati e nello stesso tempo negare che siano in pericolo. Dobbiamo fingere che tutto sia pace come bizzarra forma di sostegno a quei giovani italiani precipitati in una guerra infernale. Dobbiamo celebrare una missione di pace mentre i morti, in pochi giorni, in Iraq, sono oltre seicento. Dobbiamo essere fieri dei nostri soldati che vengono spinti a esporsi e a rischiare sulla base di ciò che sta accadendo intorno, e rispondendo invece alla strategia "stupida" (dice Robin Cook) di quel Paul Bremer che - ormai è chiaro - sarà presto mandato a casa, dopo gli immensi errori commessi.

La situazione è troppo assurda perché si possa continuare a restare prigionieri di questo inganno. La testimonianza di coloro che si oppongono, in Parlamento, è la sola voce libera segnata da coscienza dei fatti, sostegno vero per i soldati, e da una solidarietà anche umana che li vuole strappare da una logica mortale in cui non hanno alcuna voce in capitolo. Possono solo eseguire ordini alla cieca, in uno scontro che si sta facendo tremendo e ha perso ogni traccia di senso.

Il problema non è guerra sì, guerra no, non è più neppure il dibattito intorno a ciò che Bush ha voluto decidere e che probabilmente il suo successore cercherà di smontare (una macchina spaventosa e sbagliata che produce morti ma nessun altro risultato). Il problema è unirsi alla grandissima maggioranza democratica del mondo (e presto, speriamo, d’America) per uscire da questo gioco folle e inutile. E farne uscire per primi, al più presto, i nostri soldati. Un compito così grave, così urgente, è, in questo momento, l’impegno principale dei Ds, della Lista Prodi, e di tutta l’opposizione. È venuto il momento di unire le forze, nella sinistra, nella opposizione, nel Paese, per far finire una situazione umiliante perché subordinata, e dove il rischio è immenso ma senza la possibilità di contare, se non per le ditte che sperano di ricevere appalti in cambio dei caduti.

Quando ci saranno le Nazioni Unite, nessuno, come in passato, si tirerà indietro. E allora, forse, sarà pace.

da l’unità