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Assago

Publie le martedì 1 giugno 2004 par Open-Publishing

ROSSANA ROSSANDA

Non è la prima volta che il presidente del Consiglio si rammarica che Forza Italia non abbia da sola il 51 per cento dei voti, perché se così fosse non dovrebbe affrontare la perdita di tempo del passaggio parlamentare e realizzerebbe di colpo il proprio programma.

Senonché questa volta le sue doglianze non sono rivolte all’opposizione, che considera da tempo malevola, in malafede, eversiva e in ogni caso da non ascoltare, ma alla propria coalizione. E si può capire: per quel che valgono, i sondaggi prevedono che Forza Italia sia la sola componente della Casa delle Libertà che perderebbe parecchi punti - Fini e Bossi sarebbero stabili, e l’Udc in crescita.

Sicché da Assago Berlusconi ha rampognato gli alleati che gli hanno fatto mancare quella che considerava la sua carta vincente, la riduzione delle tasse a due sole aliquote, che scaricherebbe sui redditi deboli le entrate fiscali e taglierebbe perentoriamente ogni spesa pubblica. Questo gli è apparso intollerabile. E’ una mossa elettorale, cosa probabilmente vera, ha avvertito: ma ha aggiunto «se è vero che senza di voi io non ce la faccio, neanche voi ce la fate senza di me» quindi si diano una regolata.

Nel frattempo egli manderà a 15 milioni di italiani una lettera per avvertirli di non votare i partiti minori che sarebbero inaffidabili e dispersivi. Se lo tengano per detto.

Può darsi che questo tono finisca per non giovare al premier, come la campagna superpersonalizzata dei manifesti. Ma non ne viene necessariamente che la Casa delle Libertà si sfasci, come spera qualcuno: è vero che Berlusconi, Fini, Bossi e Follini non possono fare a meno l’uno dell’altro. In forma più decente, un patto di necessità non dissimile lega per ora anche le forze dell’opposizione.

Quel che è più grave è che l’idea berlusconiana secondo la quale un sistema parlamentare consiste nel votare ogni cinque anni una maggioranza, la quale può prendersi tutto, ha «il diritto e il dovere» di far quel che vuole, opponendo alla minoranza alle camere il pacchetto disciplinato dei suoi voti, e agli eventuali mormorii al proprio interno il ricorso al voto di fiducia, è tutt’altro che una trovata personale e caratteriale d’un uomo piuttosto ignorante che sta andando fuori di testa.

Quest’idea del governo e della democrazia scandalizza ormai ben pochi. Follini osserva con pertinenza che a De Gasperi non sarebbe venuto in mente di definire il Parlamento una perdita di tempo, e non solo perché «l’aula sorda e grigia» di Mussolini era troppo vicino; ma l’Udc resta con Berlusconi. E D’Alema e Fassino si affrettano a raccomandarci di non esagerare, non si tratta di un regime. Nulla di irreparabile sta succedendo.

Noi pensiamo di sì. E’ avvenuta in Italia una involuzione culturale profonda. Il paese non ne uscirà identico a prima, simile a un corpo giovane che si rimette dall’influenza. E’ come se all’implosione dei comunismi e delle socialdemocrazie fosse seguito anche un indebolimento fatale del pensiero politico moderno. La critica della sinistra radicale agli aspetti formali della democrazia, il libertarismo del 1968 hanno incontrato una reazione che ha finito con il disgregare gli uni e l’altro. La protesta e il progetto, il momento alto del fare politico di cui parlava anche Hannah Arendt, resta ai movimenti. E poco spazio è dato alla sua presenza istituzionale, anche in Europa coraggiosa ma limitata.

Che altro è l’astensionismo crescente, lo scontento malmostoso di molti fra i nuovi soggetti che rifiutano o rimandano a non si sa quando la ricostruzione di un segmento di rappresentanza che possa incidere sui poteri? Il rischio dell’americanismo, nella sua accezione più torpida e indifendibile sta in questo. Bisognerà ripartire da qui se dall’era di Berlusconi ci vorremo liberare sul serio.

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