Home > Baghdad, si sfalda l’armata di Bush
de Stefano Chiarini
Una potente autobomba ha semidistrutto ieri mattina la caserma di polizia e i locali del comune nella cittadina di Haditha a nord ovest di Baghdad, lungo l’Eufrate, verso il confine con la Siria, provocando oltre dieci morti, mentre una serie di attentati nel nord del paese hanno colpito l’oleodotto che da Kirkuk porta il greggio iracheno verso il porto turco di Cheyan sul mediterraneo bloccando di nuovo il flusso dell’oro nero. E mentre l’ostaggio filippino Angelo de la Cruz annunciava dagli schermi televisivi di «al Jazeera» un suo prossimo ritorno a casa, fonti della polizia irachena hanno fatto sapere di aver ricuperato sulle rive del Tigri, a nord di Baghdad, all’altezza del centro di Beji, il corpo di un uomo senza vita e senza testa vestito con una casacca arancione.
Secondo voci non confermate potrebbe essere il corpo dell’ostaggio bulgaro la cui uccisione era stata annunciata l’altra sera in un comunicato dei rapitori dopo il rifiuto del governo di Sofia di rimettere in discussione la presenza dei suoi 400 soldati nella città di Kerbala. Si teme ora che nelle prossime ore il gruppo iracheno che aveva rapito i due camionisti nei pressi di Mosul potrebbe mettere in atto la sua minaccia di uccidere anche l’altro ostaggio. E alla lunga lista dei soldati americani e di quelli dei paesi satelliti sacrificati dai rispettivi governi sull’altare della fedeltà all’impero (1012), i comandi Usa hanno ieri aggiunto i nomi di altri due militari uccisi nella provincia di Hilla. A preoccupare l’amministrazione Bush - in corsa contro il tempo per «irachizzare» l’occupazione e la repressione della resistenza irachena affidando sempre più i «lavori sporchi» al nuovo premier iracheno Iyad Allawi - è il lento ma inesorabile sfaldarsi della presenza multinazionale in Iraq emerso di nuovo in queste ore con la decisione del governo filippino di accettare le richieste dei rapitori del camionista Angelo de la Cruz e di ritirare con un mese di anticipo il piccolo contingente di 51 uomini.
L’ostaggio filippino, un camionista che riforniva le basi americane con altri suoi 40 colleghi, è apparso ieri in un video sulla rete araba «al Jazeera» per la prima volta vestito senza la sinistra tuta color arancio - come quella dei detenuti di Guantanamo e dei due ostaggi già uccisi - rassicurando la sua famiglia e annunciando un suo prossimo ritorno in patria. Angelo de la Cruz ha poi ringraziato la presidente Arroyo per la decisione di ritirare anticipatamente le truppe da Baghdad e ha aggiunto felice: «aspettatemi sto tornando a casa». Purtroppo l’odissea dell’ostaggio filippino non è però ancora finita. I suoi rapitori, temendo un qualche trucco del governo di Manila pressato dagli Usa, hanno annunciato ieri che Angelo de la Cruz sarà rilasciato vivo solamente se e quando l’ultimo soldato filippino avrà lasciato l’Iraq.
La scelta del governo filippino è stata duramente criticata dall’amministrazione Bush: «E’ una decisione che manda un segnale sbagliato... non si può negoziare con i terroristi» ha sostenuto il portavoce della Casa bianca, Scott McClellan, aggiungendo poi che vi sarebbero stati «importanti successi» nell’allargamento della presenza multinazionale in Iraq. Una presenza di circa 22.000 uomini la cui importanza, con l’eccezione del contingente britannico, è più politica che militare. In realtà, compreso il clamoroso caso della Spagna, sono già quattro i paesi che hanno lasciato l’Iraq, altri quattro si ritireranno a settembre e molte altre capitali hanno già fatto sapere la loro intenzione di ritirarsi entro il prossimo anno.
La Norvegia, senza dare nell’occhio, ha ritirato nelle scorse settimane i suoi 155 genieri lasciando solamente un distaccamento di 15 addestratori per la polizia irachena. La Nuova Zelanda ha intenzione di far rientrare entro settembre i suoi 60 genieri e lo stesso farà il governo tailandese con i suoi 450 soldati. L’Olanda da parte sua ha deciso di ritirare il suo contingente la prossima primavera dopo le prime elezioni politiche, se mai avranno luogo, e la Polonia avrebbe comunicato al Pentagono di non poter restare oltre i primi sei mesi del 2005.
In realtà la pretesa di una forza di 28 nazioni nasconde la realtà di un esercito occupante americano sostenuto in realtà solamente dal contingente del fedelissimo Tony Blair e, simbolicamente, da quello dell’ascaro Berlusconi. La maggior parte dei contingenti non supera i 100 uomini e molti governi, come ha rivelato ieri il «Washington Post», stanno man mano «sfilando» via uomini e mezzi: la Moldavia ha ora solamente 12 uomini rispetto ai 42 iniziali e Singapore ha ridotto, senza dare nell’occhio, la sua presenza da 191 a 33 soldati. E ieri il governo ceco ha annunciato il ritiro alla fine dell’anno dei suoi 100 agenti della polizia militare. Su questo sfondo di forti difficoltà incombono poi le elezioni australiane con l’opposizione laburista pronta a ritirare le truppe se dovesse vincere le elezioni del prossimo dicembre e il cambiamento dell’opposizione ungherese che ha chiesto anch’essa, come quella italiana, il ritiro del contingente di occupazione dall’Iraq.
il manifesto