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Banda Aceh (Thalassa) : ritorno dall’ "inferno"
Publie le giovedì 20 gennaio 2005 par Open-Publishing
di Olivier
Buongiorno a tutti,
Da quasi una settimana sono di ritorno dall’ "inferno", si potrebbe dire. Non ho dato notizie prima perché sono stato molto occupato dal montaggio del film che abbiamo realizzato a Banda Aceh (Thalassa), ma anche perché non so veramente come raccontare l’orrore, o da dove cominciare. Non ho mai fatto un viaggio simile. Ora che sono tranquillamente a Parigi, a volte mi domando se quello che ho visto e sentito era reale e poi ci sono immagini che ritornano, si impongono alla memoria, accompagnate talvolta dall’odore pesante ed insopportabile della morte, e allora so che tutto é davvero reale.
Anzitutto credo che non ci si renda conto delle dimensioni della catastrofe, né dell’atmosfera che regna laggiù. Nessuna immagine puo’ esprimerlo, nessuna parola é abbastanza precisa e forte per descrivere cio’ che si sente davanti a quel caos. C’é il centro cittadino con i suoi grandi edifici semplicemente crepati o sventrati o anche polverizzati dal terremoto. Ci sono i giardini e le grandi vasche che si trovano presso la grande moschea. Oggi non resta che un’immensa cloaca di acqua putrida dove galleggiano carcasse di auto, tronchi d’albero, tavole, lamiere, qualche giocattolo...
Al nostro arrivo, i viali erano diventati semplici sentieri fangosi fiancheggiati da grovigli di detriti alti parecchi metri. Là dove gli edifici erano ancora in piedi non si trovava anima viva, come se avessimo percorso una città fantasma, completamente abbandonata dai suoi abitanti.
Più avanti una scena sorprendente: un grande pescherecchio é sulla strada davanti all’ingresso dell’hotel Medan, che é inabitabile ma ancora in piedi. L’onda lo ha deposto li’, in piena città, lontano dal suo porto. Potrebbe essere quasi buffo se non ci fosse accanto questo "mucchio" di corpi gonfi che si decompongono lentamente al sole e dai quali si sprigiona un odore che non dimentichero’ mai. Mi dispiace per le anime sensibili ma ancora qualche giorno fa questa era la realtà a Banda Aceh.
Prima della nostra partenza, il centro della città aveva ritrovato una parvenza di ordine e di vita. Qualche grande arteria era stata sgombrata. La grande moschea era pulita. Cosi’, i fedeli avevano un luogo dove cercare conforto e le autorità locali una bella vetrina per mostrare ai media internazionali la loro efficienza e rapidità nel superare la prova.
La sinistra passeggiata continua verso il porto e il mercato del pesce. In questo luogo il ponte che scavalca il fiume Krueng Aceh é ancora in piedi. Invece di passare sotto il ponte, un grande peschereccio ha cercato di passare sopra, ma ci é rimasto incastrato. Sullo scafo é appuntata una carta d’identità, senza che ne capisca il perché. All’ombra del battello un vecchio é seduto sulla sua bici, lo sguardo perduto nel vuoto e le lacrime che colano lungo le guance. Decine di battelli sono venuti a fracassarsi gli uni contro gli altri su un angolo del ponte. Sono tutti verticali, la prua girata verso il cielo come altrettanti, strani missili di legno.
Le rive del fiume dove venivano ad attraccare i pescherecci sono completamente sparite sotto un gigantesco mucchio di detriti da dove emerge talvolta il tetto di una bottega. Non é che un ammasso inestricabile di lamiere, battelli, piroghe, legname. Uno dei battelli, sicuramente un piccolo ferry-boat costiero, si trova al secondo piano di un edificio. Ci vorrebbero centinaia di gru e di pale meccaniche per venire a capo di questi detriti e ritrovare i corpi che vi sono sotterrati.
In mezzo a questo caos, il personale di una ONG malese imbarca viveri sulla sola tartana disponibile per approvvigionare villaggi costieri inaccessibili via terra. Arriva un uomo che li avverte: decine di corpi si sono ammonticchiati all’imboccatura e impediscono l’accesso al mare...
In quello che era il mercato del pesce un uomo comincia a parlare. Era un facchino e lavorava a cottimo nel porto. Ha perduto tutto: moglie, bambini, casa, lavoro. Mi spiega con sobrietà che deve dimenticare e ricominciare tutto; quel che vuole anzitutto é lasciare questa regione, ritrovare un lavoro qualsiasi, ovunque, giusto per mangiare e solo poi, se é possibile, ricominciare qualcos’altro, altrove...
Della fascia costiera molto popolata, larga 5 Km, che separa il centro dal mare (all’altezza del vecchio porto di Uleh-Leh) non resta quasi più niente. In lontananza, una casa é ancora in piedi per miracolo. Il resto del paesaggio solo rovine, macerie e acquitrini malsani. Sembra che ci sia caduta una bomba atomica. Lungo la strada, ogni 500 metri, soldati armati sorvegliano i dintorni: qui si tira a vista su eventuali saccheggiatori.
In questa desolazione, gruppi di giovanissimi venuti da tutto l’arcipelago (sponsorizzati da grandi imprese) fanno il lavoro peggiore: raccolgono i cadaveri accessibili, li avvolgono in teloni di plastica e li allineano lungo la strada in attesa del passaggio dei camion che li porteranno alle fosse comuni. Avranno un’assistenza psicologica? Sicuramente no, eppure molti ne avranno sicuramente bisogno, esattamente come gli stessi sopravvissuti.
Ci spostiamo più ad ovest, verso Lhok Nga, a 17 Km dalla città. Ci fermiamo all’uscita dalla città davanti ad una lottizzazione che sembra un’isola in mezzo a una palude di acqua nera. Decine di corpi vi galleggano ancora dopo 11 giorni. Sono inaccessibili. Qui i detriti trascinati dall’onda arrivano al livello dei tetti dei villini. Il responsabile del luogo ci guida in questa babele. Camminiamo su tavole instabili che poggiamo bene o male davanti a noi. Spostando le tavole, scopriamo un piede anonimo, più lontano la gambetta di un bambino. Ecco la realtà.
Prima dello tsunami il mare era a 5 km, adesso é solo a 3 km. L’uomo, anche se é un funzionario, impreca contro le autorità: solo i fucilieri di marina li aiutano a raccogliere le spoglie. Per il resto si devono arrangiare da soli, senza stivali, maschere, guanti, vaccini. Raccontano che i viveri dell’aiuto internazionale sono distribuiti esclusivamente nei campi di rifugiati e che non hanno ancora avuto diritto a nulla. Ha cercato di avere del riso presso il camat locale, ma non ha potuto ottenere niente per i sopravvissuti della lottizzazione. Le priorità sarebbero altrove. Non dare soprattutto niente alle autorità e alle grandi ONG che vogliono riunire i sopravvissuti in campi immensi, lontano da casa loro - dice - meglio portare l’aiuto direttamente sul terreno nei punti di soccorso o nelle moschee. L’aiuto arriverà, finalmente, qualche giorno più tardi.
Lhok Nga, zona un tempo abitata con numerosi alberghetti (di dubbia reputazione!), ristoranti in riva al mare, ma anche caserme, scuole. Oggi non resta niente. Niente ha resistito. A perdita d’occhio, nemmeno un muro. Solo le piastrelle dei pavimenti degli edifici provano che la zona é stata abitata. Ci si crederebbe in un immenso terreno archeologico. Qui non c’é acqua stagnante, odore infetto, ci sono pochi detriti. Tutto sembra essere stato pulito dall’onda gigante che qui ha raggiunto un’altezza di 25 metri.
In lontananza, le montagne coperte dalla foresta e il mare, tranquillo. Elicotteri americani passano brontolando. Sembrerebbe un film sulla guerra del Vietnam, tipo Apocalypse Now. Titolo più adatto a questo posto che al film.
La strada si ferma davanti a un ponte di cui non restano che i piloni di cemento. E’ li’ che attraccano i pochi battelli che trasportano i feriti venuti da Meulaboh o da Lhung. I più validi arrivano spesso a piedi, dopo aver camminato due o tre giorni nella foresta. Sono stravolti, inebetiti, perduti. Pensano che la città sarà il loro rifugio e non immaginano che anche la città é stata rasa al suolo.
E’ vicino a questo ponte distrutto che ho vissuto il momento peggiore di questo viaggio. Dopo un’intervista, tre uomini vengono verso di me, con in mano la foto dei loro bambini. Hanno il viso distrutto dal dolore e dalla tristezza. Mi chiedono se non ho visto i loro bambini, dove trovare informazioni delle loro famiglie, dove cercare... E io sono là, incapace di dire loro una cosa qualunque. Non posso che indicare i punti di soccorso più vicini. Non ho mai avuto una tale sensazione di impotenza. La distruzione e la morte che aleggiano dappertutto non sono nulla rispetto all’avvilimento dei sopravvissuti. La cosa più dura da sopportare in tutto questo é essere confrontati al dolore e alla pena di quelli che sono sopravvissuti.
Dall’altra parte del fiume, che si traversa ormai su una zattera di fortuna, un’immensa chiatta di ferraglia lunga 100 metri é stata proiettata a 200 metri dal mare, sbarrando cosi’ la strada di Meulaboh. Davanti al cimitero locale c’é un cargo a pancia all’aria. Qui i militari portano caschi e gilé a prova di pallottole. Sono nervosissimi. Dopo il nostro passaggio, ci sarà uno scontro. Secondo le voci che circolano, 14 indipendentisti sarebbero stati uccisi quel giorno. Gli uni dicono che gli uomini del GAM cercavano di impadronirsi di una riserva di TNT del cementificio, altri che cercavano armi in quel che rimane di una caserma.
Ecco dunque alcune impressioni su questo viaggio allucinante. Eppure, in tutta questa miseria e distruzione, c’é qualche piccola cosa da notare che risolleva il morale. Una é la solidarietà di tutti gli abitanti dell’arcipelago. Numerose ONG di Giava, Sulawesi e tanti altri luoghi dell’arcipelago erano presenti, facendo un lavoro da formiche ancora prima che le grandi ONG internazionali fossero operative. C’é anche il sorriso di questi militari australiani che distribuiscono acqua tutto il giorno e sono contenti del loro lavoro e delle strette di mano che sinistrati di grande dignità danno loro come ringraziamento. C’é questa dottoressa di Giakarta che ha un sorriso e parole gentili e rassicuranti per tutti quelli che vengono da lei. Le ferite sono piuttosto interne che esterne, ci dirà. C’é chi non trova più il sonno, chi é in preda al panico al minimo imprevisto, chi non sopporta più il contatto dell’acqua.
Per il momento non ho ancora sufficiente distanza per analizzare veramente quello che ho vissuto, per immaginare da dove si dovrebbe cominciare per essere utile laggiù.
La mia prima idea é che ci vorrebbero al più presto gru e pompe a centinaia per bonificare le zone sinistrate ed evitare epidemie. Ci vorrebbero materiali da costruzione per ridare al più presto una casa degna di questo nome a quanti dormono ormai sotto dei teloni di plastica (non tutti hanno la fortuna di essere sotto le tende). Ci vorrebbero vaccini per tutti,ci vorrebbero attrezzi perché i contadini recuperino i loro campi ove possibile, ci vorrebbero battelli per i pescatori, ci correbbe aiuto per quelli che hanno raccolto membri della loro famiglia, ci vorrebbe....
Olivier
Il sito del collettivo Solidarité Indonésie :
http://sebulba.privatedns.com/solidarite-indonesie.org/
Con altri amici, abbiamo fondato un collettivo per aiutare i sinistrati dell’Indonesia, particolarmente i bambini.
Se volete fare un dono, lo potete inviare:
– con un assegno, a
SOLINDO - SOLIDARITE ENFANCE SUMATRA 132, bd Vincent Auriol. 75013 Paris
– con rimessa bancaria, al conto numero: 00037265986 38
numero della banca: 30003 Société générale Agence Campo-Formio. 75013 Paris
Tradotto dal francese da Karl&Rosa di Bellaciao