Home > DA BAGHDAD : Fermiamo l’escalation
Se non ci saranno, a breve, fatti nuovi, siamo probabilmente alla vigilia di una escalation dei
combattimenti tra l’esercito statunitense e una guerrriglia irachena che si sta estendendo e
coordinando tra diverse fazioni. Non c’è di che gioire. Ci sarà una durissima repressione e comunque,
nella migliore delle ipotesi, non è ragionevole pensare che la guerriglia possa vincere in tempi
brevi.
Questo comporterà un elevatissimo numero di vittime sia tra civili che tra i combattenti.
Inoltre una eventuale sconfitta «solo militare» dell’occupazione consegnerà il paese alle forze più
estremiste cancellandone del tutto la tradizione laica e forse innescando una successiva guerra
civile. Ciò era ampiamente prevedibile. La gestione della cosiddetta «transizione» basata non su
democrazia e restituzione di sovranità, ma sull’obiettivo di intronare un governo che garantisse gli
interessi strategici statunitensi non poteva avere altro esito. E forse c’è qualcosa di più: la
rivolta è stata probabilmente provocata. La scelta di mettere fuori legge un movimento politico come
quello di Al Sadr, minore e non sempre ben visto da parte della popolazione, ma con una sua
rappresentatività, non può essere stata fatta senza valutarne le conseguenze.
Né il governo Usa poteva
pensare che lanciare una punizione collettiva nel modo in cui è stato fatto a Falluja non avrebbe
innescato una reazione a catena. Le cose mi sembra stiano proprio così: gli Usa hanno cercato lo
scontro, con al Sadr e a Falluja, per uscire dall’impasse in cui la «transizione», come se la erano
immaginata, era finita. Anche il tanto invocato ritorno dell’Onu è, in realtà, stato boicottato
dagli Usa che sono disposti, al massimo, a concedere un ruolo «tecnico» nel processo elettorale. Poco
più che una foglia di fico. A queste condizioni, fra l’altro, un rientro dell’Onu non solo non
sarebbe utile, ma sarebbe addirittura dannoso. E’ il loro fallimento, l’ennesimo in questa
raffazzonata gestione del «dopoguerra».
Cade definitivamente in queste ore la terza giustificazione alla
guerra: essa non era per le armi di distruzione di massa (che non c’erano), non era contro il
terrorismo (che è stato alimentato) e non era nemmeno per la democrazia. Ma è anche il fallimento di
tutti coloro che, partecipando o meno all’occupazione, hanno dichiarato di volere un futuro di pace
per il popolo iracheno. L’Iraq è stato gettato nella inaccettabile alternativa tra l’occupazione e
la guerra. Condivide questa responsabilità fino in fondo l’Italia, e tutti i paesi che hanno
contribuito all’occupazione, ma anche coloro che, magari sotto sotto soddisfatti di vedere gli Usa
impantanarsi in Mesopotamia, non hanno fatto nulla per favorire un processo politico che proponesse una
alternativa. Forse perché avrebbero dovuto mettere da parte i propri interessi e porre al centro
quelli di 20 milioni di persone che vivono sulla terra del petrolio. Eppure gli iracheni non ne
possono più della guerra e vivono, in tanti, con sofferenza questa nuova che si affaccia nella loro
vita.
Sembra che la volontà di pace sia la sola speranza rimasta. E’ probabile che solo l’avvio di
un processo politico autonomo iracheno, protetto e sostenuto internazionalmente, possa permettere
di evitare l’inaccettabile alterativa tra l’occupazione e la guerra. Se l’Onu, cui spetterebbe
prendere una iniziativa come questa, è bloccata dai ricatti degli Usa allora deve essere compito di
qualcun altro. La convocazione, ad esempio, di una Conferenza Nazionale Irachena, protetta
internazionalmente ed autonoma dalle forze di occupazione, potrebbe avviare questo processo, per il quale
ci sono con tutta evidenza ancora spazi. Questa proposta è stata avanzata da più parti, trovando
la ferma opposizione degli Usa. Solo il ritiro delle truppe e la fine dell’occupazione, può aprire
la strada alla soluzione politica di cui c’è bisogno. Anche per il movimento per la pace e per la
società civile mondiale si pone oggi il compito, insieme, di reclamare la fine dell’occupazione e
di sostenere questo processo. Ancora una volta la politica è alternativa alla guerra.
da il Manifesto