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Furor di patria

Publie le martedì 20 aprile 2004 par Open-Publishing

Temo che ci siano ben poche ragioni, in questi giorni, di sentirsi fieri di essere italiani, come
molto volonterosamente ci viene raccomandato da tutte le parti - talvolta per legittimo dovere
istituzionale dalle alte cariche dello stato, talvolta per improvvisi attacchi di nazionalismo eroico
(Riotta sul Corriere della sera). No, ci sentiamo anzi singolarmente estranei all’orgia di
retorica militar-patriottarda in cui sguazzano soprattutto fascisti e affini; e, con loro, la maggior
parte dei giornali che mai come oggi appaiono tutti rigorosamente «di regime». La Repubblica del 16
aprile, salvo errori da parte nostra, non aveva neanche un minimo cenno alle posizioni della
sinistra non triciclica sui sequestri iracheni. Fortunatamente ne abbiamo letto qualcosa sul Corriere
della sera e sulla Stampa. In compenso, una lunga intervista a Rutelli, che non ha perso l’occasione
di paragonare il «gruppo di assassini» che hanno rapito i nostri connazionali alle Brigate Rosse
degli anni di piombo italiani. Come là non abbiamo ceduto al ricatto accettando le trattative, così
non lo faremo qui. Non su Repubblica, ma sul Corriere sempre del 16, Rutelli avrebbe potuto
leggere del sondaggio condotto da una emittente araba, secondo cui, su 83.839 persone interpellate in
Iraq, il 79% ha dichiarato di approvare, come utile, la «cattura di ostaggi stranieri da parte della
resistenza irachena». Non sarà questa una differenza rilevante tra le BR e la resistenza irachena?
Ma anche chiamarla resistenza - senza per questo approvare gli assassini - è qualcosa che il
regime non tollera, se è vero che anche Lilli Gruber ha dovuto rinunciare a questa espressione parlando
alla Tv italo-berlusconiana.

Come sempre per noi è tutto questione di parole. Che altro sono, anche a sinistra, se non parole
consapevolmente (salvo imbecillità conclamata) ipocrite le chiacchiere sul 30 giugno? Nel migliore
dei casi, si tratterebbe semplicemente di un cambio di etichette, con i soldati americani, inglesi
e anche i nostri, che cambierebbero la targa dei loro veicoli e magari il colore dei loro caschi.
Ma neanche questo gioco di etichette molto probabilmente si verificherà, il governo non passerà in
mani irachene perché non saranno nemmeno state avviate le pratiche, complicatissime, che il povero
inviato dell’Onu sta faticosamente immaginando. E il Triciclo, da parte sua, ci dice che sarebbe
irresponsabile lasciare l’Iraq subito; anche qui, fingendo di ignorare che solo annunciando subito
il ritiro lo si potrebbe organizzare in tempi ragionevoli, per giunta contribuendo anche solo con
questo annuncio a un allentamento della tensione, e magari a salvare qualche vita.

Infine: non si tratta con i terroristi. Ma con chi, se no? Liquidare l’offerta di tregua di Bin
Laden come un «ricatto» a cui non si deve cedere è davvero la posizione più saggia? Visto che non
c’è un governo legittimo con cui trattare una qualche limitazione del conflitto, perché continuiamo
a rifiutare ogni trattativa, con la falsa idea che il nemico sia solo un vile e abominevole
bandito? Tutti i governi lo sono sempre stati, e solo in considerazione del loro potere sono passati
molto spesso dal ruolo di banditi al ruolo di interlocutori credibili. Se, come del resto pensano gli
americani, Bin Laden ha davvero l’autorità di ordinare stragi e eventualmente di farle cessare,
non vediamo in che cosa differisca da Bush (e non ci si citino le sue patenti «democratiche»).
Prenderne atto sarebbe infine un atto di realismo, per uscire dalle chiacchiere e dalle «nette prese di
posizione» astensioniste.

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