Home > Giulietto Chiesa sull’Irak
A un anno quasi esatto l’insurrezione di popolo, sunniti e sciiti, centro
e sud dell’Irak, la carneficina che ne promana, l’entrata in guerra plateale,
esplicita, delle truppe italiane, che ha reso definitivamente insostenibile
la tesi della "missione di pace", gli sviluppi che vanno assumendo un andamento
tumultuoso e convulso, indicano non solo che gli occupanti stanno perdendo
anche quel poco di controllo del paese che avevano, ma stanno radicalmente
modificando tutte le prospettive che erano state delineate a tavolino nelle
capitali occidentali.
E’ ormai assolutamente evidente una serie di cose che sarà utile annotare
sia da parte delle forze politiche di governo che di quelle di opposizione.
La prima di esse è questa: la prospettiva di una "via d’uscita attraverso
la copertura giuridica delle Nazioni Unite" (che lasci cioè identica, o
quasi, la situazione sul campo, con i comandi militari in mani americane,
la prosecuzione dell’occupazione ecc) è definitivamente chiusa. Lo è sul
piano pratico, prima e a prescindere da ogni altra considerazione. I rapporti
di forza sul terreno dicono senza equivoci che la mattanza di iracheni e
di stranieri continuerebbe senza un solo giorno di sosta. I nuovi stranieri
che giungessero in Irak, sotto qualsiasi bandiera, Onu inclusa in primo
luogo, saranno bersagli sempre più esposti.
Per l’Italia i rischi sarebbero identici, cioè altissimi, per le truppe
dislocate sul terreno come per il paese nel suo complesso. Inutile nascondersi
questa prospettiva. Anche l’uomo della strada se ne rende conto, ormai.
Gli unici che fanno finta di nulla sono il ministro Martino e il presidente
Berlusconi. Dio ci assista.
La seconda considerazione è questa. La scadenza del 30 giugno non ha più
alcun senso. Quello che, scherzando con scarso umorismo, qualcuno ha definito
il "lodo Zapatero" è ormai caduto fuori dal novero delle possibilità. Fin
dall’inizio avrebbe dovuto essere chiaro che quella data non significava
nient’altro che il desiderio di George Bush di farsi togliere la castagna
dal fuoco senza bruciarsi le dita e senza fare nessuna concessione sostanziale.
Il popolo iracheno si è incaricato, pagando un altissimo prezzo di sangue,
di spiegarci che la sorte dell’Irak non la si decide a Washington, ma nemmeno
a New York, o in altre capitali congiunte in sforzi bizantini di mediazione
e in inconfessabili mercati delle vacche petrolifere.
In ogni caso da qui al 30 giugno molte cose accadranno e non sarà possibile
restare fermi a contemplare il calendario. Meglio prepararsi a numerosi
scenari alternativi, tutti più probabili della finzione del cosiddetto "trasferimento
dei poteri" agli iracheni. Il cosiddetto "Consiglio" messo in piedi dagli
Stati Uniti, in realtà al comando di Bremer, non solo non è stato in grado
di fare nulla, ma la sua ignavia e paura è stata tale che perfino il New
York Times ha dovuto scrivere un editoriale non firmato dal titolo "Unfriendly
Irak" (Un Irak non amico).
Visto che il governo italiano non è capace che di ripetere le ignobili menzogne
che ha detto fin dall’inizio di questa sporchissima avventura, si suggerisce
all’opposizione "riformista" di seguire almeno i consigli di Peppino Caldarola,
che pare aver compreso la necessità di girare il timone da un’altra parte.
La terza considerazione è questa: l’Imperatore facente funzione non è in
condizione di ritirarsi comunque, se non sconfitto clamorosamente. Per ragioni
politiche interne prima che per ogni altra considerazione. Autonominatosi
"presidente di guerra" non può finire il mandato con una ritirata, nemmeno
se onorevole. E poi ci sono gl’interessi petroliferi e geopolitici da tenere
alti. Quindi non c’è da attendersi un cambio di rotta a Washington. Da laggiù
ci si può realisticamente aspettare una tremenda pressione su tutti i giocatori
recalcitranti (Russia, Francia, Germania, Cina, Spagna) e su tutti i possibili
alleati secondari, perché appoggino una risoluzione Onu adeguata alle necessità
americane. E un invio massiccio di rinforzi sul teatro di guerra. Da non
sottovalutare l’eventualità di qualche coup dé teatre, qualche provocazione,
qualche azione militare diversiva su altri fronti, primo tra tutti quello
palestinese. Da un "presidente di guerra" è legittimo aspettarsi questo
ed altro.
C’è un solo modo per fermarlo: alzare a tal punto il prezzo della sua permanenza
sul terreno iracheno da rendere l’operazione non più conveniente, né sul
piano militare, né su quello politico-elettorale.
Sul piano militare sono solo gl’iracheni a poter influire. Su quello politico
diplomatico contiamo tutti. Bisogna dire agli Usa, subito, che devono dirci
quanto tempo realisticamente occorre loro per andarsene, cioè per portare
via dall’Irak il loro corpo d’occupazione. Siamo realisti: tutti sappiamo
che non si può portare fuori dai confini iracheni 130 mila uomini in un
giorno. Ma si può calcolare quanto tempo occorre. Una dichiarazione in tal
senso provocherebbe un enorme entusiasmo in Irak e in tutto il mondo. Sarebbe
possibile far negoziare una tregua immediata. Si potrebbero indire rapidamente
elezioni, che verrebbero preparate dagli iracheni, con una supervisione
Onu, mentre le truppe di occupazione se ne vanno. E le elezioni si farebbero
quando l’ultimo soldato americano avesse lasciato il suolo iracheno, a scanso
di equivoci. La maggioranza sciita ’ e non solo quella ’ probabilmente appoggerebbe
e un focolaio di guerra sarebbe subito spento.
Bisogna dirlo adesso, a gran voce. Anche se si è all’opposizione e non si
può decidere perché non si ha il governo nelle mani. Queste voci si sentono
anche molto da lontano. Solo così si può aprire un negoziato: non con gli
iracheni ma con gli Stati Uniti, unica fonte di guerra.
L’eventualità di un intervento dell’Onu dovrebbe essere discussa con i veri
rappresentanti dell’Irak, che tutti sanno chi sono e dove si trovano, non
certo con quelli chiusi nei bunker americani di Baghdad. E il contingente
di soccorso, umanitario e di ausilio di polizia delle Nazioni Unite dovrebbe
essere composto di truppe inviate da paesi che hanno il gradimento di un
nuovo Consiglio provvisorio iracheno.
Così si aprirebbe sul serio la strada a un intervento dell’Onu. Strada difficile,
ma unica realistica. Per la quale occorre anche il consenso di Washington.
Se esso non vi sarà, prepariamoci tutti al peggio, non a un "trasferimento
di niente a nessuno" il 30 giugno.
Per quanto riguarda l’Italia, ritirare il contingente non richiederebbe
più di quindici giorni. Sarebbe saggio deciderlo, anche se alla follia non
si comanda con la saggezza. Basterebbe comunque dichiararlo da subito, perché
ridurrebbe i rischi di inutili e dolorosissime perdite dell’ultim’ora.
E si dovrebbe, da subito, impartire l’ordine di cessare ogni operazione
di guerra e di ritirarsi negli accampamenti protetti. I soldati sono sotto
un comando straniero. Questa non è nemmeno un’operazione sotto bandiera
Nato. E’ situazione comunque illegale. Si faccia cessare questa vergogna.
Sarà il primo passo verso una tregua. Chi non può decidere, come i milioni
di voci contro la guerra che hanno creato il più forte movimento popolare
del pianeta, faccia sentire la sua voce sempre più forte. Non sarebbe la
prima volta che le loro grida disarmate possono cambiare il corso della
storia. Zapatero non sarebbe al governo se, prima dell’11 marzo, in Spagna
la grande maggioranza dei cittadini non avesse detto che era contraria alla
guerra.
da "Avvenimenti"