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Gli ordini folli del generale Martino

Publie le giovedì 8 aprile 2004 par Open-Publishing

Insieme ai tanti morti e ai feriti, quello che si ricorderà del martedì nero di Nassiriya è la
spaventosa solitudine del contingente italiano, costretto a sparare e a uccidere, per difendersi, per
non essere annientato. Solitudine militare, perché a parte le poche e nervose parole del generale
Chiarini raccolte dai tg nulla di preciso ancora sappiamo dello scontro con le milizie sciite. Già
da lunedì si era capito che i soldati italiani erano sotto tiro e asserragliati. Come, infatti,
ieri ha titolato l’«Unità» in base alle notizie raccolte sul campo e non fidandosi delle
rassicuranti veline. Tutte infiorate di trattative con i ribelli «andate a buon fine», di bravi ragazzi in
uniforme «amati dalla gente», ma costretti chissà perché a un «basso profilo».

È la stessa
insopportabile, zuccherosa, nociva retorica dalla quale la mattina del 12 novembre 2003 ci siamo
risvegliati con 19 italiani dilaniati da un’esplosione, e nessuno sapeva come era potuto accadere. La verità
è che malgrado l’umanità dei soldati italiani, e il prodigarsi del governatore dell’area Barbara
Contini per convincere sceicchi e imam delle nostre buone intenzioni, la missione Antica Babilonia
si trova in una situazione psicologica e strategica di totale accerchiamento. Sappiamo che i
militari italiani si sono ritirati dal centro della città e hanno dovuto anche rinunciare alle normali
azioni di pattugliamento.

Ma quando da bravi soldati le nostre truppe hanno interrotto la tattica difensiva dei «controlli
discreti» per liberare i ponti sull’Eufrate dalle bande armate e decise a tutto, è stata la guerra.
Sì, guerra: parola sempre negata, vietata, censurata e che mai una volta ricorre nel decreto legge
che alcune settimane fa ha rifinanziato, tra le polemiche dell’opposizione, la missione italiana
in Iraq. Se proviamo a rileggere il testo approvato dalla maggioranza, viene lo sconforto: siamo
andati lì per la «stabilizzazione e ricostruzione dell’Iraq», «per il ripristino delle
infrastrutture socioeconomiche di base», «nonché per la realizzazione degli interventi umanitari in condizioni
di sicurezza».

Di quale stabilizzazione, di quale ricostruzione, di quali condizioni di sicurezza
si va parlando? Certo che all’inizio ci hanno creduto gli uomini della Brigata Ariete o i
fucilieri del San Marco, che si partiva per Nassiriya, in missione umanitaria, ad aiutare i bambini, a
costruire le strade, a rimettere in sesto gli ospedali. Salvo poi rendersi conto che di assistenza
alla popolazione civile se ne poteva offrire poca visto che la maggior parte del tempo, e delle
energie, era occupata a stare con il dito sul grilletto e a guardarsi le spalle.

Ma c’è una solitudine peggiore di quella che ti costringe all’assedio e alla guerra quando eri
stato mandato, con l’inganno, in missione di pace. È la solitudine politica. Per una volta bisogna
dare atto a Berlusconi di non avere mentito su ciò che pensa realmente dei soldati di Nassiriya; di
non avere mai finto sentimenti di riconoscenza e solidarietà che non ha mai provato. Lo ha
dichiarato: chi si è arruolato per andare in Iraq lo ha fatto per puro interesse, per denaro, per
ottenere un compenso più alto. Linguaggio coerente con lo spirito imprenditoriale, di chi giudica ogni
gesto in moneta sonante. Ovvero: ogni uomo ha un prezzo e i militari non fanno eccezione. E quando
qualcuno ha fatto notare che Berlusconi resta l’unico premier della coalizione filo-Bush a non aver
fatto visita alle proprie truppe schierate, ha risposto piccato: non faccio passerelle io... Con
la stessa gelida, manageriale indifferenza sprofondato nel comodo salotto di Vespa ha liquidato la
questione tra una battuta sul fisco e il celebre sorrisetto: in Iraq si resta finché sarà
necessario. Punto e basta.

Poi c’è il ministro della Difesa Antonio Martino che annuncia: «Né ritiro né aumento delle
truppe». Qui c’è qualcosa di più pericoloso del cinismo pornografico del presidente del Consiglio. Quella
è solare indifferenza. Questa è solare incompetenza: non sapere proprio di cosa si sta parlando.
Da un ministro falco di Forza Italia uno si aspetta una posizione dura, chiara, netta.
Guerrafondaia? Guerrafondaia. Se non vuole ritirare le truppe, un serio ministro della guerra prende atto che
il contingente italiano in Iraq sarà impegnato in aspri combattimenti, «finché necessario»; che i
soldati italiani si batteranno contro sciiti e sunniti per mesi o per anni, perché questo è quello
che chiede a Berlusconi l’amministrazione Bush. Se non vuole passare per uomo di pace (e di buon
senso), un vero ministro degli eserciti va in Parlamento a farsi votare un rafforzamento della
missione: più uomini, più mezzi, più soldi per chi rischia la pelle.

Un ministro belligerante non si
trincerà dietro il duplice e indecoroso né-né, degno di un Badoglio qualsiasi. Un ministro che
difende i suoi uomini non li lascia isolati e disorientati nel deserto dello spietato sceicco Al Sadr
e dei suoi miliziani votati al martirio. Non li abbandona nel pantano di un 8 settembre morale da
cui non ci libereremo mai. Senza più uno scopo. Senza più una missione.

A questo punto è inutile rinvangare gli errori di una guerra sbagliata che ha ficcato gli
americani, e gli altri volenterosi in un budello apparentemente senza uscita. A questo punto è anche
difficile invocare l’Onu. Ci si domanda cosa potrà fare un organismo a lungo inascoltato e troppo
fiaccato nella sua capacità d’intervento proprio da chi ha scatenato la guerra fingendo di volere la
pace. Ma oggi chiedere l’intervento delle Nazioni Unite, come ha fatto il presidente Ciampi e come
vuole la stragrande maggioranza del popolo italiano , significa soprattutto professare un atto di
fede. Per ora, in questo macello, può bastare chiedere alla politica di imboccare la strada giusta.
Contro la follia. Contro la stupidità.

L’Unita