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IRAQ : Italia stile somalo

Publie le mercoledì 14 aprile 2004 par Open-Publishing

TOMMASO DI FRANCESCO
MANLIO DINUCCI

Due «partiti» sembrano fronteggiarsi: quello favorevole e quello
contrario alla permanenza dei nostri soldati in Iraq. Sembrano. Perché
il «Triciclo» nemmeno stavolta chiede il ritiro delle truppe italiane.
Entrambi però si sbracciano nella solidarietà ai nostri soldati. Per
l’uccisione di 15 iracheni da parte delle forze armate italiane -
criminale quanto esplicita violazione dell’articolo 11 della Costituzi
one - solo, e all’ultimo momento, qualche subordinata, tardiva
solidarietà «anche» alle famiglie dei caduti iracheni. Emblematico poi è
il modo con cui Il Corriere della Sera online ha dato ieri la notizia:
«Nassiriya: scontri con sciiti, 11 bersaglieri feriti in modo non grave
. Quindici miliziani di Sadr uccisi». Nello stesso articolo, a margine,
si riportava però che, tra i «miliziani» uccisi ci sono anche «due
bambini e una donna». Niente di nuovo sul fronte occidentale. Nel 1993
così Il Corriere della Sera riportava le notizie di uccisioni di somali
da parte dei soldati italiani: «Mogadiscio, gli italiani sparano: uomini
del San Marco e carabinieri della Folgore hanno intercettato un gruppo
di rapinatori» (3-1-93); «Gli italiani sparano, uccisi 4 somali: i
nostri incursori attaccati» (28-2-93). Caddero, in verità, al famoso
ceck-point Pasta, decine e decine di civili che protestavano lanciando
sassi contro i soldati italiani, donne e bambini falciati dal tiro
incrociato dei «nostri» mitragliatori. Fu il battesimo del «Nuovo
modello di difesa». Ora l’Iraq, come la Somalia.

La mutazione genetica delle forze armate italiane era appena iniziata:
nell’ottobre 1991 - subito dopo la prima guerra del Golfo, la prima a
cui aveva partecipato la Repubblica italiana. Il governo Andreotti aveva
varato, sulla scia del riorientamento strategico Usa, il rapporto
Modello di difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni `90 :
vi si stabiliva che compito delle forze armate italiane non è più solo
la difesa della patria (art. 52 della Costituzione), ma la «tutela degli
interessi nazionali ovunque sia necessario». Faceva la comparsa per la
prima volta il criterio degli «interventi militari per la gestione delle
crisi» ovunque siano toccati gli «interessi vitali» del paese. Una volta
varato, il Nuovo modello di difesa è passato di mano in mano, da un
governo all’altro, dalla prima alla seconda repubblica, con un
sostanziale, profondo, appoggio «bipartisan».

Nel 1995, durante il governo Dini, lo stato maggiore della difesa
affermava che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto
ambito militare per assurgere anche a misura dello status e del ruolo
del paese nel contesto internazionale». Nel 1996, durante il governo
Prodi, nella 47a sessione del Centro alti studi della difesa il generale
Angioni affermava: «La politica della difesa diventa uno strumento della
politica della sicurezza e, quindi, della politica estera». Nel 1999 -
dopo che il governo D’Alema aveva fatto partecipare l’Italia, sotto il
comando Usa, alla guerra Nato contro la mini-Jugoslavia - la marina
militare annunciava che l’Italia era riuscita ad «affermare il suo ruolo
di media potenza regionale» nel «Mediterraneo allargato: spazio
geopolitico comprendente [...] il Golfo Persico che, attraverso lo
Stretto di Hormuz, è intimamente collegato al sistema mediterraneo di
rifornimenti energetici».

Così è stata rilanciata, contro la nostra Costituzione, una politica di
stampo coloniale che porta oggi le nostre forze armate, sotto comando
Usa, a occupare un paese e a reprimere nel sangue la ribellione dei suoi
abitanti.

Il manifesto