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Il Prodotto Interno Lordo della Guerra

Publie le martedì 6 aprile 2004 par Open-Publishing

La discussione italiana sulla violenza non ha tenuto conto della doppia natura del militarismo. Per ricordare Paul M. Sweezy, che vi ha dedicato nel 1966 un celebre capitolo di Monopoly Capital, proviamo a tracciarne un percorso di lettura. Indispensabile sostegno del capitalismo - negli Usa ha per base un complesso militare/industriale con 85.000 aziende, vero motore dell’economia - il militarismo svolge in realtà due funzioni essenziali. La prima è più propriamente militare, esibita, repressiva all’interno ed aggressiva all’esterno, come la guerra di rapina e la conservazione e il controllo dell’impero. La seconda funzione è economica, inconfessabile e celata, di sostegno alla produzione con la spesa pubblica militare per fronteggiare le ricorrenti crisi di sovrapproduzione ed evitare il crollo di reddito ed occupazione: riguarda quindi la sopravvivenza stessa del capitalismo. Con il neoliberismo poi questa seconda funzione si rafforza perché, nonostante il rifiuto delle teorie keynesiane e l’abbandono della spesa pubblica civile da parte della maggioranza dei governi europei e di quello statunitense, la gestione della domanda globale è rimasta in realtà saldamente in mano alle amministrazioni Usa con il forte aumento della spesa pubblica militare. Fino a Bush che si definisce «presidente della guerra». Le due funzioni del militarismo non necessariamente si sommano. Se la funzione aggressiva tende alla vittoria e all’annientamento del nemico, la funzione economica invece tende a prolungare lo scontro, evoca il nemico, lo sceglie, lo enfatizza, lo produce se non c’è, per giustificare le spese militari. I Talebani, Saddam Hussein, bin Laden sono stati a lungo finanziati e addestrati dagli Usa. E’ singolare che la sinistra non colga questo slittamento di piani: la funzione militare in questo caso è solo mimata, inessenziale, ha la sua verità nell’altra, e si rivelerà l’opposto di ciò che sembrava. Si presenta come militare ma è militarmente priva di senso. Troverà infine la sintesi nella ossessiva esibizione di morte, nella guerra infinita, non nella vittoria.

Il movimento che manifesterà il 20 marzo ha al suo interno anche questi temi: per questo il rifiuto della guerra è rifiuto politico, un’indignazione morale fondata materialisticamente.

La prima formulazione teoricamente compiuta della funzione economica del militarismo si deve a Rosa Luxemburg che già nel 1898 la descriveva come una forza «impulsiva, propria, meccanica» destinata a rapida crescita; la sinistra «luxemburghiana» curiosamente trascura questo tema, ma la Luxemburg in polemica con Bernstein riteneva le spese militari indispensabili al capitalismo perché costituivano un mercato addizionale per assicurare alla produzione una nuova domanda più regolare, con un ritmo di sviluppo costante. Spese che erano promosse dagli stessi capitalisti tramite l’apparato parlamentare e la manipolazione operata dalla stampa. Un tema ripreso da Gramsci, che nel 17 denunciava «le trame dei seminatori di panico stipendiati dall'industria bellica che dalla guerra ci guadagna». E non era dietrologia, ma l'analisi del militarismo che ha dominato il900, keynesismo militare prima che lord Keynes concedesse questo nome. Tocca alle neocolonie fornire quella che è ormai un’importante risorsa per la politica economica Usa: nemici e scenari di guerra a giustificazione delle spese militari.

«Qualcuno deve pur fare il nemico» aveva avvertito Kissinger alla fine della guerra fredda rivelandone l’essenza e preannunciando il passaggio dall’anticomunismo all’antislamismo. La storia della politica estera degli Stati uniti nell’ultimo mezzo secolo - la lunga serie di insuccessi, le guerre non vinte, la guerra fredda conclusasi solo per l’implosione dell’Urss e la sua continuazione con l’antislamismo - conferma la continua ricerca da parte delle amministrazioni Usa di giustificazioni per una illimitata espansione dell’apparato militare, e dunque conferma il prevalere della funzione economica.

Gli Stati uniti hanno invaso per due volte, con un volume di fuoco senza precedenti, lo stesso territorio già controllato da un loro ex alleato che tutte e due le volte si è ritirato senza difendersi. Il petrolio viene ignorato la prima volta e sembra anche la seconda, il prezzo è raddoppiato, non c’è stata oil bonanza. Un gruppo di terroristi, seguaci di un ex socio in affari del presidente statunitense, abbatte il World trade center. Invece di affidare il caso alla polizia, l’amministrazione Bush spende 200 miliardi di dollari per costruire un supercaccia invisibile a decollo verticale e stanzia 700 miliardi di dollari all’anno per spese militari tra Pentagono, sicurezza e occupazione dell’Iraq, dove la guerra si sta trascinando con la morte di due soldati in media al giorno.

Il premio Nobel dell’economia Paul Samuelson ha avvertito però che «neanche con 10 morti al giorno sarebbe possibile aumentarle ancora» (New York Times , 20-10-03). Ma sono davvero così importanti le spese militari per l’economia Usa? Argomentando ex suppositione, secondo un punto di vista abbastanza diffuso, si direbbe di sì. In ogni caso, è anche quanto affermano autori che si rifanno alla critica dell’economia politica - Paul Sweezy, Paul Baran, Harry Magdoff, Samir Amin - , che hanno affrontato nel corso di molti anni i molti aspetti di questo argomento. Anche gli studi sulle cause delle guerre hanno spostato l’attenzione dagli aspetti politico-militari alle implicazioni economiche del militarismo e costituiscono una «neopolemologia» che va dalle ricerche sulla produzione e la vendita delle armi - tra le più recenti Dinucci, Finardi e Tombolo, Baracca, Lorentz, Burrows, Pagliani, Amnesty International - a quelle sulla rilevanza economica delle spese militari - Giacchè, Pivetti, Sbancor, Ginatempo, Vasapollo, Gattei, Catone, Piccin e la rivista Giano - e a quelle in particolare che misurano l’aumento del prodotto interno lordo dovuto alle spese militari negli Stati uniti.

Julio Rotemberg e Michael Woodford ritengono, in un saggio apparso sul Journal of Political Economy dedicato agli anni che vanno dal 1947 al 1989, che un aumento delle spese per la difesa fa aumentare la produzione più di quanto riuscirebbe a fare un aumento dei salari reali. Dello stesso tenore la tesi sviluppata dagli economisti Edelberg, Eichenbaum e Fischer della Northwestern University in un saggio apparso sulla rivista universitaria: per ogni dollaro dato al Pentagono, il Prodotto interno lordo cresce di di 3,5 dollari dopo quattro trimenstri. In un saggio scritto a quattro mani, altri due economisti, Valerie Ramey e Mattew Shapiro (Working Paper, Nber 6283), ritengono che nei periodi di maggiore incremento delle spese per la difesa le scelte del governo possono influenzare fino al 50% la formazione del Prodotto interno lordo. Per Roberto Perotti e Olivier Blanchard (Working Paper, Nber 7269) ogni dollaro al Pentagono fa aumentare il Prodotto interno lordo di 2,43 dollari entro un anno e con effetto duraturo.

Studi insomma che confermano l’efficacia del più devastante rimedio per fronteggiare le crisi economiche che l’amministrazione Bush ha adottato ancora una volta. Il prevalere negli Stati uniti della funzione economica del militarismo comincia infatti nel 1941, quando la grande depressione fu superata subito dopo l’entrata in guerra. Le spese militari avevano fatto il miracolo della piena occupazione e del rilancio della produzione.

Da quel momento la funzione economica del militarismo diventa la «formula magica» per la sopravvivenza del capitalismo made in Usa, e la guerra fredda il suo paradigma: un sorprendente quarantennale processo di progressiva separazione tra spesa militare e guerra, una tendenza della funzione economica ad autonomizzarsi, a svincolarsi dalla dialettica che la lega a quella militare: anche se è proprio in quest’ultima che fonda la sua efficacia.

Una tendenza alla separazione tra spese militari e guerre che è diventata possibile grazie alla continua produzione del «nemico» attraverso i mezzi di comunicazione di massa ogni volta che ce n’è bisogno, per non subire lunghe e devastanti depressioni come quella degli anni `30, quando l’economia americana si logorò in attesa che i giapponesi si decidessero ad attaccare. Ciò che lamenta Alberto Asor Rosa, il massimo di comunicazione corrisponde al massimo di disinformazione, in realtà ha consentito al militarismo di accorciare i tempi: ma finché si continuerà a credere alle minacce costruite da quel «ministero della paura» che è il Pentagono, si continuerà a barattare qualche punto del Pil con la distruzione di interi paesi.