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Il comizio a Montecitorio

Publie le giovedì 1 aprile 2004 par Open-Publishing

I leghisti occupano la Camera dei deputati e inveiscono contro Roma ladrona. Tumulti, espulsioni,
tafferugli, onorevoli indignati e onorevoli e magari ministri come Giulio Tremonti che sorridono
agli eversori, onorevoli sospesi che si imbavagliano, onorevoli della Lega che danno del fascista
al vicepresidente della Camera Fiori, onorevoli varesotti o bergamaschi che alzano cartelli su cui
sta scritto "Mai molè. Tegn dur". Come la definiamo questa gazzarra? "Squadrismo fascista
antiparlamentare", dice il capogruppo della Margherita Pierluigi Castagnetti o "una deprecabile
intemperanza verbale" come corregge il vicepremier in doppiopetto Gianfranco Fini. Diciamo più semplicemente
un esempio di una campagna elettorale di bassissimo livello dove tutti cercano di apparire anche a
costo di contraddirsi in modo plateale, demagogico, scombinato.

Materia del contendere? La vendita di edifici pubblici o cartolarizzazione come la chiamano che fa
parte dell’assalto allo Stato e ai suoi beni perseguito con metodo e tenacia dall’attuale governo.
Dicono bene i leghisti quando definiscono questo un provvedimento pessimo, ma fanno della
demagogia nordista quando ne parlano come di "un regalo a Roma ladrona e sprecona, un regalo alle lobby
romane".

Il sottogoverno che si pratica a Roma è, come tutti sanno un sottogoverno nazionale a cui
partecipano i palazzinari e gli affaristi di tutte le Regioni. Sono milanesi quelli che nel giro di due
anni hanno messo assieme un gigantesco "real estate" immobiliare, emiliani gli altri che fanno
fortuna sulle grandi opere, o i genovesi che commerciano l’acciaio, tutti dentro i marchingegni
adoperati nel fallimento Parmalat o in quello Cirio, la complicità fra affaristi e politici nel comune
scacco dello Stato.

La Lega che era nata come reazione dura e pura alla corruzione dei partiti, alle loro burocrazie
avide, nel giro di pochi anni ha creato i suoi feudi, le sue zone di interesse come l’aeroporto
della Malpensa dove le assunzioni, le carriere, gli appalti dipendono in gran parte dai suoi grandi
elettori. Il motto lombardo "Mai molè. Tegn dur" può esser così tradotto: non ci faremo mettere
fuori dal grande banchetto, grideremo, ricatteremo, faremo confusione, fingeremo di essere eversivi
perché sappiamo che i nostri avversari hanno lunghissime code di paglia.

La storia politica della Lega sta tutta nella finta eversione bertoldesca, nel suo finto e
impossibile separatismo, nei continui attentati all’unità del Paese e all’esercizio della democrazia,
velleitari e inconcludenti: la costituzione di una guardia padana che però non arriva mai allo
squadrismo, la creazione di istituzioni nordiste come il parlamento di Mantova, la scuola, lo sport e
persino le miss che oscillano fra il velleitarismo e il folklore. Un localismo ambiguo che si
dichiara nemico del parlamentarismo nazionale e ci campa sopra, che grida Roma ladrona e partecipa ai
privilegi e agli appalti, una ripetizione anomala pittoresca di quello che fu nel periodo
democristiano il ruolo dei piccoli partiti laici che raccoglievano le briciole del potere e quanto bastava
per sopravvivere.

C’è una melanconica comicità nello spettacolo degli onorevoli democratici indignati se il dentista
bresciano Cè, il Farinacci del Carroccio, insulta la città di Roma e si ribella alla disciplina
parlamentare. Come se questa non fosse una sceneggiata che si è ripetuta negli anni: dagli insulti
ai giudici che si permettevano di perseguire le violenze leghiste, all’appoggio ai "serenissimi"
scalatori del campanile di San Marco, alla continua apologia di reato di sindaci come quello di
Treviso. Questa Lega dura e pura è diventata negli anni una compagna di strada della partitocrazia che
voleva distruggere.

Quanto alle ragioni tattiche che spingono i dirigenti leghisti a questo attivismo fragoroso si può
supporre che la malattia del loro leader Bossi li abbia gettati in uno smarrimento, in una
angoscia di sopravvivenza che pensano di coprire, con l’oltranzismo verbale. Ma è un rimedio di
cortissimo respiro, la Lega non ha progetti credibili, è fuori dai grandi giochi della politica, da quelli
europei come da quelli atlantici, dalla rivoluzione tecnologica, come dalla lotta al terrorismo,
dal rilancio dell’economia come dalla crisi dello Stato sociale.

In questo gioco contorsionista si è arrivati al colmo del ribelle Cè che dichiara alla stampa:
"Non siamo dissennati, votiamo la fiducia al governo. Condividiamo alcune cose fatte dalla Casa delle
Libertà. C’è ancora in ballo il federalismo". Povera Italia!