Home > Il nuovo vento dell’Europa
La doppia sconfitta delle destre di Spagna e Francia (con cambio di governo nel primo caso) indicano che il vento in Europa sta cambiando. Dopo la svolta conservatrice, che aveva portato alla rielezione di Aznar nel 1999, alla vittoria di Berlusconi nel 2001 e a quella di Chirac nel 2002, oggi il dato elettorale mostra uno scenario diverso. Aumenta, seppur di poco, la partecipazione al voto e vengono sanzionate, molto nettamente, le politiche liberiste che hanno caratterizzato l’Europa della moneta unica. Un risultato importante che permette di valutare meglio l’onda lunga dei movimenti sociali ma anche il complicato rapporto tra sinistre moderate e sinistre radicali e anticapitalistiche: lo stallo di Izquierda unida in Spagna e il risultato francese dell’alleanza Lcr-Lo – che consolidano una tendenza di lungo periodo pur mantenendosi al di sotto delle attese – lo confermano.
Un voto contro i governi della globalizzazione
La positività di questi dati, però, non deve nascondere la realtà che sottende al voto stesso. A pesare nel doppio passaggio elettorale di Spagna e Francia non è tanto l’adesione ai programmi delle sinistre liberali quanto la volontà di cautelarsi dagli effetti delle politiche liberiste. Non a caso, mentre in Spagna e Francia sono stati sconfitti governi di destra, in Grecia a essere battuto è stato un governo a guida socialdemocratica e lo stesso è avvenuto in elezioni, sia pure parziali, tedesche. Al di là del colore del governo in carica, quindi, sono determinate politiche e precisi orientamenti a essere puniti elettoralmente. Da questo punto di vista si può parlare di un effetto concreto del movimento, antiliberista e pacifista, che ha attraversato l’Europa, e in particolare Italia e Spagna, negli ultimi tre anni. Al di là delle ricadute elettorali, i movimenti hanno inciso sull’ideologia nte, incrinando la forza del pensiero unico liberista e rilegittimando ipotesi alternative. Se si pensa a come il Forum sociale europeo sia stato un elemento centrale del dibattito e del discorso politico francese solo sei mesi fa, si comprende meglio lo stesso voto del 21 e del 28 marzo.
Ancora più evidente è il caso spagnolo, dove la svolta ha colpito il punto più alto delle politiche liberiste e imperialiste occidentali, la guerra. Sull’onda dell’attentato di Madrid, sull’onda dello sgomento popolare per la strage, la rivolta si è indirizzata verso la causa principale del problema, bocciandola sonoramente. La mossa di Zapatero – l’annnuncio del ritiro delle truppe entro il 30 giugno in caso di non intervento dell’Onu – non è che la registrazione a livello politico di un’acquisizione di massa maturata nello sviluppo dei movimenti e nell’espansione della loro forza e credibilità. Questo elemento diventa importantissimo per la comprensione degli sviluppi futuri e per definire il rapporto tra le socialdemocrazie e i movimenti stessi. Il fatto che siano i partiti socialisti a beneficiare dell’ondata popolare che ha scosso i paesi europei non significa, infatti, che si sia instaurato un rapporto privilegiato e destinato a durare. La distanza tra socialdemocrazie e movimenti è ancora molto evidente – si pensi alla composizione economica del governo Zapatero – in alcuni casi ci troviamo ancora di fronte a una sorta di incompatibilità tra i due soggetti. Il caso dei fischi a Fassino il 20 marzo scorso è esemplare: il leader diessino ha cercato di costruire un “caso politico” a uso interno dell’Ulivo (con toni e polemiche più che sgradevoli) ma in questa impresa non ha fatto altro che confermare la distanza che esiste tra le acquisizioni del movimento – la richiesta del ritiro delle truppe, l’autodeterminazione irachena, il non alla guerra “senza se e senza ma” – e i programmi politici del centrosinistra, e dei Ds in particolare. Una distanza che, complice Berlusconi, non impedirà probabilmente un successo elettorale dell’Ulivo, e della lista unica, ma che non sarà risolta automaticamente mediante il semplice recupero elettorale, o di apparato, delle forze della sinistra moderata.
Insomma, il quadro generale si presenta ancora piuttosto contraddittorio e articolato: la forza della contestazione antiliberista e pacifista mette in crisi i governi della globalizzazione, conferendo un vantaggio momentaneo alle forze che, più credibilmente, sembrano rappresentare un’alternativa: ma questa fiducia non autorizza a immaginare cambiamenti sostanziali né negli orientamenti delle socialdemocrazie (dopo il successo francese il candidato più probabile alla presidenza per i socialisti potrebbe essere Laurent Fabius, una sorta di Giuliano Amato transalpino) né nel rapporto tra queste e i movimenti.
I risultati della sinistra anticapitalistica
Il problema si riflette sulla consistenza e sugli stessi orientamenti della sinistra alternativa, più o meno anticapitalistica. Questa, infatti, non riesce ancora, o non riesce del tutto, a guadagnare la credibilità necessaria per divenire un interlocutore privilegiato di questa “nouvelle vague”. In Spagna, infatti, nonostante l’annuncio di un patto programmatico di governo con il Psoe, Izquierda unida non ha intercettato nulla del “voto utile” che ha cacciato José Maria Aznar: ben tre milioni di voti hanno premiato Zapatero, solo alcune decine di migliaia si sono indirizzate su Iu che ha mantenuto il suo 5%. In Francia, Lo-Lcr hanno chiuso il primo turno con oltre un milione di voti (il 4,58%), un dato, si badi bene, ottenuto da due forze politiche che si definiscono “comuniste e rivoluzionarie”, che insieme sommano circa 5000 militanti e su un programma di “urgenza sociale” particolarmente radicale, Un risultato, inoltre, ottenuto in un’elezione, le regionali, in cui la soglia di sbarramento per accedere al secondo turno (il 10%) e il meccanismo elettorale, sostanzialmente uninominale e maggioritario, scoraggiano il voto a liste minori. Lo conferma, indirettamente, la contestuale scelta del Pcf di presentarsi solo in 8 regioni su 22, rinunciando quindi a “contarsi” su scala onale “nascondendosi” dietro il risultato delle liste unitarie.
Eppure, la distanza tra quel voto e il 10% ottenuto alle presidenziali da Arlette Laguiller e Olivier Besancenot si è fatta notare e pone delle domande. Certamente, bisognerà attendere le elezioni europee – dove la competizione sarà più libera – per avere un quadro più certo, però alcune annotazioni che spieghino, almeno in parte, i risultati delle forze della sinistra alternativa, possono già essere fatte.
Una fase ancora contraddittoria
Innanzitutto il rapporto con il movimento. Nonostante un impegno incondizionato in quella direzione (in special modo per la Lcr francese), questo non si traduce immediatamente in consensi elettorali. Potrebbe bastare la considerazione che è sempre stato così (si guardi alla realtà italiana tra il ’68 e il ’76) ma in realtà c’è un elemento più sostanziale che attiene alla natura “costituente” del movimento, chiamato a ricostruire un tessuto connettivo, una realtà sociale, una lettura del mondo che possa cominciare a essere confrontata con la straordinaria potenza evocativa e sociale del movimento operaio novecentesco. In realtà siamo ancora a una fase di “ripartenza”, di ricostruzione dei rapporti di forza: il solo fatto di esistere è già un successo che permette di collegarsi alle nuove generazioni e alle nuove domande di una politica, e di una società, alternativa. Ma il processo sarà lungo, le ricette precostituite non esistono, la difficoltà a resistere in una fase in cui gli attacchi dell’avversario sono durissimi, enorme.
In secondo luogo, pesa il fatto che il movimento si mantenga ancora su un piano di opinione pubblica generale, ma non si “cristallizza” in addensati sociali, in agglomerati che permettano di ricostruire un radicalmento, una nuova forza d’urto. Contemporaneamente, gran parte del movimento oeraio tradizionale è ancora legato alle socialdemocrazie o ai residui dei partiti di tradizione comunista (e questo aiuta a comprendere il risultato del Pc francese, soprattutto in zone di più consolidato radicamento sociale e/o di apparato locale); questo rimette più velocemente in moto dei meccanismi di agglutinamento, anche elettorale, e di maggiore credibilità.
Terzo elemento, il peso del cosiddetto “voto utile”, quindi la relazione con l’alternativa di governo. Il voto spagnolo e quello francese dicono che una posizione pregiudiziale non viene compresa. Dire cioè “faremo l’accordo”, oppure “nessun accordo mai”, può essere percepito allo stesso modo, come una non essenzialità della proposta politica. In presenza di un voto “cautelativo” e di rigetto delle politiche della globalizzazione liberista, l’approccio elettorale deve probabilmente essere più concreto, indicando chiaramente quali condizioni sono possibili per un’intesa e quali invece la renderebbero irrealizzabile. E’ una lezione anche per l’Italia, dove l’orientamento di Rifondazione rischia di assomigliare a quello di Izquierda Unida (“faremo un accordo di governo”) e l’opposizione a questo rischia di ricalcare l’approccio pregiudiziale di Lo e in parte della Lcr (“nessun accordo e nessuna indicazione di voto”). Ovviamente, certe posizioni risentono di meccanismi elettorali antidemocratici, pensati proprio per eliminare le posizioni più scomode e indigeste (e non si capisce perché come Prc non poniamo con più forza il nodo del proporzionale).
Un programma di urgenza sociale
Ma la fase complessiva – ruolo e domande dei movimenti, crisi dei progetti neoliberisti< crisi del discorso di guerra , necessità di uno “sbocco politico” – autorizzano a un’offensiva a tutto campo delle forze anticapitalistie per un “Programma di urgenza sociale e per l’alternativa” come strumento di proposta ai movimenti, di costruzione della loro autorganizzazione, di impulso alle lotte e quindi un rapporto unitario con le forze socialdemocratiche. Un Programma che raccolga la radicalità dei movimenti e si proponga uno spirito unitario ma senza opportunismi né furbizie elettorali. E’ la maggiore o minore distanza da alcune proposte inderogabili che può far scaturire una scelta elettorale diversa – desistenza, accordo tecnico, accordo politico, accordo programmatico, per quanto la realtà della sinistra liberale non autorizza quest’ultimo scenario: chi se lo immagina un governo con Fassino e le sue proposte sulla guerra?
Un programma di urgenza sociale e per l’alternativa è la strada che le sinistre radicali e anticapitaliste hanno anche per realizzare la loro convergenza e il loro rapporto su scala europea. Ad oggi un programma di questo tipo, un vero e proprio “Manifesto” manca: la nascita del Partito della sinistra europea avviene infatti ancora su basi fragili e più come “manovra” politica (tra l’altro con evidenti risvolti moderati, si pensi alla Costituzione europea) che come progetto destinato a durare e irrobustirsi. Nel corso dei prossim mesi, nella stessa campagna elettorale per le europee, dovremo fare un passo avanti in questa direzione.