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In guerra non è strano avere paura…

Publie le martedì 6 aprile 2004 par Open-Publishing

Dopo l’assassinio di Ahmed Yassin, leader spirituale di Hamas, in Occidente viviamo come sospesi in un’ansia da film: come sarà la vendetta? Potrebbero aprirsi le scommesse. Siamo al circo? Peggio.

La sinistra italiana, quella a grande tiratura, è rimasta scioccata dalle immagini del ragazzo quattordicenne che viene fermato ad un check-point nei pressi di Nablus. A noi occidentali per la prima volta veniva offerto di osservare una scena che in Palestina invece si ripete non poche volte. Ragazzi e ragazze o uomini e donne che nel momento del gesto estremo hanno paura, oppure guardano negli occhi coloro che moriranno insieme a loro e rinunciano a premere il bottone.
Alcuni avanzano l’ipotesi che quest’episodio, come quello del bambino di otto anni trovato con lo zainetto pieno di esplosivo, sia una costruzione israeliana. Non è inverosimile, visto che Israele vive sulla necessità di coprire tutto con la paura degli attentati. Non è inverosimile, perché le troupes delle TV internazionali erano sul posto due ore prima. Non è inverosimile perché la ricompensa di 100 Shekel (la moneta israeliana) è risibile. Ma anche fosse del tutto reale, non vediamo cosa ci sia di così strano ad avere paura in guerra. Una guerra sporca, che ha come obiettivo principale i giovani, i bambini uccisi come lepri per la strada da soldati armati con fucili ad alta precisione.

Lea Tsemel, un’avvocatessa israeliana che da trent’anni difende solo palestinesi, una scelta pagata con decenni di ostracismo politico e lavorativo, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera del 9 agosto 2003, ha raccontato un altro caso simile di una ragazza di Betlemme che rinunciò al suicidio:
E’ la sua integrità che ammiro, la sua forza. Ha saputo resistere a grandissime pressioni. Ho portato il ministro della difesa a incontrare questo miracolo. Se gli israeliani non fossero ciechi, l’avrebbero già liberata. Non dico che dovrebbero darle una medaglia, ma dovrebbero farne un simbolo
Ora Harin, la protagonista di questa storia emblematica, invece è in carcere. Sconta un ergastolo per il reato di disperazione.

Se l’episodio di Nablus non è una costruzione artificiale, allora quel ragazzo deve ringraziare le televisioni presenti, altrimenti poteva far la fine di quel giovane venticinquenne che a Gerusalemme fu fatto spogliare da due poliziotti israeliani e nonostante non portasse addosso né armi né esplosivo fu giustiziato sul posto, con un colpo alla nuca e le mani legate. Le immagini di quell’esecuzione fecero, anch’esse, il giro del mondo, ma non scatenarono alcun dibattito.
Diciamo tutto questo non per giustificare un atto in sé ingiustificabile, ma per comprendere.

Inoltre in Italia ora si dice che quell’episodio è all’origine di una presa di posizione di una sessantina di intellettuali palestinesi, che il 25 marzo, ossia tre giorni dopo l’assassinio di Ahmed Yassin a Gaza, hanno sottoscritto una petizione che chiede la fine degli assassinii extra giudiziali, la fine dell’occupazione e la fine del bagno di sangue.

Sulla stampa italiana, quasi unanimemente, questo appello è stato spacciato per una presa di posizione contro gli attacchi suicidi.
Il testo dell’appello semplicemente non menziona in nessuna sua parte gli attacchi suicidi, mentre nella parte centrale sostiene:

Rivendicando il diritto del nostro popolo, garantito da tutte le convenzioni internazionali, a difendersi con ogni mezzo disponibile ed anche essendo sommersi dal dolore per i morti che si accumulano e dalla sofferenza continua per l’occupazione, noi chiediamo al nostro popolo, nel nostro stesso interesse onale alfine di mettere fine all’occupazione, di contenere la rabbia e di sollevarsi in una nuova Intifada popolare, con obiettivi chiari e con una propaganda costruttiva, perché il destino del nostro popolo sia diretto dalle masse. (…)

Noi chiediamo la ripresa di una Intifada ben coordinata e disciplinata, con chiari obiettivi ed una visione politica. Confermiamo il nostro impegno per la realizzazione delle nostre richieste e dei nostri diritti legittimi e giusti. Noi chiamiamo il popolo a serrare i ranghi sulla base dell’unità onale e di una direzione unificata che possa resistere efficacemente all’occupazione.

Questo pensano ed hanno sottoscritto, tra gli altri, Hannan Ashrawi e Yasser Abd Rabbo.

Come spesso avviene la discussione a Ramallah, Nablus, Gerusalemme Est, Jenin e Gaza è ben più avanzata che nella culla europea.
Il dopo Yassin

A molti giorni di distanza poche, ancora, sono le analisi che cercano di capire le dinamiche aperte dalla scelta del governo israeliano di portare a termine una decisione pianificata ormai da anni, non solo da mesi. I tentativi falliti nell’estate scorsa di assassinare Abdelaziz Rantisi, attuale leader di Hamas, ed ora la realizzazione dell’assassinio dello sceicco Yassin, non sorprende, né ci sembra in stretta correlazione con il piano “di rimessa” del governo israeliano che prevede un parziale ed unilaterale smantellamento delle colonie da Gaza, se non in una direzione “obliqua”. L’assassinio di Yassin, una volta attuato il piano di evacuazione da Gaza, potrebbe aprire una dinamica all’interno della leadership della resistenza palestinese dagli esiti incerti.

Incertezza legata soprattutto a come le organizzazioni della resistenza palestinese gestiranno questa fase sicuramente più difficile di molte altre. In ogni caso, la partecipazione massiccia dei palestinesi non solo ai funerali di Yassin, ma anche alle manifestazioni che hanno seguito immediatamente la notizia della sua morte, dimostra che la rabbia per l’impunità con la quale Israele è libero di assassinare i leaders palestinesi, va ben al di là dell’essere seguaci o meno di Hamas.
Le stesse scene di masse enormi si videro nell’agosto del 2001 dopo l’assassinio di Abu Ali Mustafa, segretario del Fronte Popolare per la Palestina.

La reazione popolare che si è registrata nel mondo arabo, dall’Egitto all’Iraq occupato, è un ulteriore segnale che è impossibile sottovalutare. L’immobilismo cui sono condannati i governi arabi a causa del ricatto imperialista di fare ovunque ciò che è stato fatto in Iraq, dovrebbe far comprendere che l’intera regione mediorientale è attraversata da un fermento che è sbagliato ridurre all’islamizzazione generale di popoli interi, di cui molti non hanno tradizioni di particolare legame con l’Islàm.

In questo contesto l’appello degli intellettuali palestinesi si inserisce in una dinamica assai differente da quella delineata dagli “esperti” europei.
Il punto essenziale è nel comprendere che l’assenza di una “vendetta sanguinosa” in risposta all’assassinio di Yassin, sicuramente priva il governo israeliano e l’ethablishment militare del proprio humus: il vortice apparentemente senza fine e senza senso delle vendette e delle rappresaglie. In questo senso è evidente il tentativo dell’appello del 25 marzo di porre una domanda: cosa si fa, ora?
Questa domanda sorge dall’interno profondo di coloro che ogni giorno resistono all’occupazione. Dall’interno delle tre grandi fasce che resistono: gli scolari, i genitori degli scolari e i professori.

Non è un paradosso, né un tentativo di svuotare di significato politico le organizzazioni della resistenza, tutt’altro.
Fin ora la resistenza del popolo palestinese è stato l’elemento determinante dell’impossibilità per gli israeliani di vedere soddisfatte le proprie “aspettative”, di cui la principale resta l’espulsione in massa dei palestinesi. Certo la resistenza armata e politicamente organizzata è necessaria, ma, per i rapporti di forza diremmo inesistenti, ovviamente al di sotto delle necessità.

Molti interpretano il “cupo silenzio di Gaza” come una difficoltà di accordo tra le diverse organizzazioni della resistenza, noi siamo di un altro avviso. Pensiamo che questo stia ad indicare che ora i palestinesi sono ad un ennesimo bivio della loro tormentata storia. Un bivio importante, probabilmente vitale. Il fatto che in un momento tanto difficile la società palestinese trovi la forza ed il coraggio di porsi un interrogativo dirimente sul proprio futuro ci porta a pensare che nonostante il tentativo di distruggerla, fino alla resa definitiva, essa sarà ancora in grado di fare sorprese a molti. Non sarebbe la prima volta che i palestinesi vengono dati per spacciati, non sarebbe la prima volta che il popolo palestinese smentisce i profeti di sventura.