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In morte del berlusconismo

Publie le mercoledì 30 giugno 2004 par Open-Publishing

di Ritanna Armeni

Il verdetto è pressoché unanime. Il "berlusconismo" è finito. Morto nel luogo in cui era nato, nella "Milano da bere" di craxiana memoria, nel suo feudo più forte, nella sua capitale. La capitolazione era attesa dopo il risultato delle elezioni europee e amministrative, ma non riduce l’importanza del fatto, né le sue conseguenze nella società e nella politica italiana. Perché quello che si è concluso a Milano, proprio là dove nel 94 era in iniziata la grande avventura di Silvio Berlusconi, è un ciclo politico, un sistema che solo qualche mese fa pareva fortissimo e destinato a durare.

Il berlusconismo è stato innanzitutto una rottura, una soluzione di continuità. La rottura con quell’Italia dominata dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista che Bettino Craxi aveva già destabilizzato. Berlusconi, imprenditore, proprietario di tre reti televisive, si presenta negli anni ‘90 come l’uomo nuovo, capace di dare al paese la svolta impedita da anni di mediazione e concertazione fra due grandi partiti, di rompere con l’assistenzialismo democristiano e di sconfiggere il grande pilastro dell’ideologia di sinistra ( il diavolo comunista). In poche parole con quell’equilibrio di potere e di poteri che è stata la Prima repubblica.

Lui propone un modello nuovo. Un liberismo senza remore, rampante e prepotente, fondato sulla libertà delle imprese, piccole e grandi, sulla liberazione da tutti quei lacci e laccioli che i protagonisti della Prima repubblica avevano stretto attorno al mercato. La sua visione della stato e del paese - non si stanca di ripetere - è quella di una azienda, la sua azienda. Efficiente, veloce, competitiva. Un’azienda che rende ricchi tutti coloro che ne fanno parte purché seguano gli ordini del capo. Il parlamento, il sindacato, le forze sociali, le corporazioni, i giornali e anche i gruppi di, potere sono in questa logica un intralcio, un rallentamento al progetto liberista e modernizzatore che creerà molte ricchezze. Agli altri, a coloro che da quelle ricchezze sono lontani o sono troppo deboli per accedervi il capo di Forza Italia offre una populistica compassione. Promette un milione di posti di lavoro ai disoccupati e un milione di lire al mese ai pensionati poveri. Oltreché un benessere diffuso che sarebbe nato dalla nuova efficienza dell’azienda Italia.

Con questa ricetta Berlusconi ha costruito e tenuto insieme un blocco sociale forte e compatto che comprendeva la grande industria del nord e la piccola impresa, desiderose di cancellare diritti e sindacati, un ceto medio che voleva la riduzione delle tasse, simbolo di uno stato accentratore e oppressore, e le classi meno abbienti colpite da una modernizzazione feroce e desiderose di adeguarsi ad un corso che non le escludesse da un nuovo sviluppo. Con questa ricetta ha tenuto insieme le forze politiche, Lega, Alleanza Nazionale, UDC, che oggi formano il centro destra. E che di quelle forze sociali erano in modo diverso e incrociato rappresentanti.

Il federalismo, la emarginazione del sindacato, in particolare nella sua componente di classe, attraverso la fine di ogni pratica concertativa o addirittura le spallate (vedi art.18), le leggi sul mercato del lavoro per renderlo flessibile e precario, la promessa di grandi opere per garantire lo sviluppo del sud, la riduzione delle tasse sono stati di volta in volta i tasselli della sua strategia. Una violenta ideologia anticomunista il collante che entrava in funzione nei momenti di crisi e lo ricongiungeva con l’uomo qualunque. Il dominio sui mezzi di comunicazione di massa il modo per entrare direttamente in contatto con il popolo, per rivolgersi a lui a di fuori delle organizzazioni della società civile e delle istituzioni.

Berlusconi, dicono oggi le urne, ha fallito. Ed ha fallito sui due piani della sua strategia: il populismo e il liberismo.

Il populismo non ha retto di fronte al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Non ha retto di fronte alla precarietà e all’insicurezza, alla riduzione di fatto del valore dei salari e delle pensioni. Di fronte al mantenimento di alti tassi di disoccupazione. Non ha retto di fronte ad un disagio sociale che in tre anni di governo lungi dall’essersi ridotto si è accresciuto.

Ma anche la ricetta liberista ha mostrato la corda. E su ben due fronti. Sul fronte di chi da essa non ha ricevuto alcun vantaggio anzi ne ha sperimentato la forza distruttrice e sul fronte di chi - il grande padronato, i grandi organi di informazione - non ritiene Berlusconi in grado di portarla avanti. La presa di posizione del nuovo presidente della Confindustria a favore della concertazione e del dialogo con i sindacati è un’esplicita rottura con la strategia berlusconiana. La posizione del Corriere della sera il giornale della borghesia italiana, che per primo ha dato voce al disagio del ceto medio e ha evidenziato la possibilità di una linea liberista non gestita dal centro destra e dal suo leader, è un segnale inequivocabile della sfiducia della grande borghesia nei confronti del capo del governo.

La crisi quindi è aperta. Tutte le domande che la società ha fatto a Berlusconi e al berlusconismo sono rimaste senza risposta. Si apre una stagione nuova. Per il centro destra naturalmente, ma soprattutto per le opposizioni. Esse hanno di fronte due strade. La prima prevede l’attesa lungo il fiume del cadavere del nemico. Di fronte al disfacimento della maggioranza la cosa migliore - pensano i fautori di questa ipotesi - è rimanere fermi e attendere che la crisi si compia. Quando questo sarà avvenuto il cambio di classe dirigente è inevitabile ed ovvio. E’ la logica dell’alternanza che lo esige e lo prevede. La stessa logica non prevede grandi cambiamenti una volta che si sia verificato il cambio della guardia. La ricetta rimane più o meno quella liberista, temperata dal dialogo con i sindacati, da qualche forma di assistenza e forse (forse) da una minore arroganza nella gestione dell’informazione.

La seconda strada prevede un’accelerazione. Se la crisi è - come è - la crisi di un modello sociale e di una conseguente proposta politica le opposizioni devono formulare subito una nuova proposta sociale e politica. Un’alternativa. Non devono aspettare che la crisi si approfondisca, ma devono intervenire immediatamente chiedendo la fine della legislatura, nuove elezioni e presentandosi ad esse con un programma che dia al paese ciò che il berlusconismo non ha saputo dare.

Da oggi il dibattito politico è anche su queste due ipotesi.

http://www.liberazione.it/giornale/040629/LB12D6C1.asp