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Intervista al direttore dell’«Unità» Furio Colombo

Publie le lunedì 12 aprile 2004 par Open-Publishing

La libertà del giornale, la prudenza del partito
Il dovere di un’opposizione nitida nell’Italia «tragica» di Berlusconi.
Il riformismo e il radicalismo. Il giustizialismo e il qualunquismo. Gli
incidenti con i vertici Ds. La sinistra italiana e le elezioni americane.

Pochi giorni fa l’Unità ultima versione, quella che sotto la direzione di
Furio Colombo ha superato la crisi che nel 2000 l’aveva tenuta fuori dalle
edicole per otto mesi, ha compiuto tre anni. Un compleanno felice, stando
ai dati delle vendite - circa 70.000 copie al giono -; ma non del tutto
sereno, stando alle punzecchiature e alle polemiche che hanno accompagnato
la vita della testata. Per ultimo, lo scontro con i vertici diessini dopo
l’attacco a Fassino nel corteo pacifista del 20 marzo, quando il giornale
fu accusato di aver minimizzato l’episodio e dimostrato troppo poco calore
verso il segretario. Per penultima, l’accusa di essere troppo tiepido verso
la lista unica. E prima, di essere un giornale troppo urlato, troppo girotondista,
troppo cofferatiano, troppo innamorato del radicalismo, troppo sicuro che
il berlusconismo sia un regime. Linee di conflitto che riguardano l’Unità
e più in generale, anche fuori dall’Unità, il rapporto fra politica e media,
sinistra e comunicazione. Furio Colombo ci dice che ne pensa.

Si pensa spesso al pubblico come a un’entità astratta, ma chi ama questo
lavoro sa che ogni giornale «costruisce» il suo pubblico. Tu che lettore
avevi in mente quando hai preso la direzione dell’Unità?

Ero alla fine del mio mandato parlamentare nella XIII legislatura, e avevo
in mente la mia esperienza di candidato prima e poi di deputato del collegio
n.6 di Torino, un territorio ibrido, metà centro operaio col Lingotto metà
collina borghese, e in più una parrocchia cattolica, una chiesa valdese,
una moschea e una sinagoga, un microlaboratorio dei conflitti sociali che
ora si stanno dispiegando sotto i nostri occhi. La campagna elettorale mi
aveva messo a contatto con la solitudine e il bisogno di discutere dei meno
e dei più abbienti. Da parlamentare avevo verificato che quella solitudine
aveva a che fare con la fine della vita di partito,che ha lasciato un vuoto
di sedi di socializzazione: convinto che fosse mio dovere fare il deputato
«all’americana», mantenendo rapporti stretti col territorio, non trovavo
mai dove e come render conto ai miei elettori - una volta misi un’inserzione
a pagamento sulla Stampa e su Repubblica, «deputato del collegio n. 6 cerca
elettori cui rendere conto», e da lì partirono una serie di riunioni autoorganizzate.
Ecco, ho accettato di fare l’Unità con in testa questo universo scheggiato
e solitario che si aggrega e si disaggrega, e che mi pareva potesse trovare
voce e riferimento in un giornale. Non volevo fare solo un giornale di sinistra
 per questo c’eravate già voi e Repubblica - , volevo fare un giornale
che rompesse la solitudine di molta gente della sinistra, che parlasse chiaro
con un linguaggio diverso dal politichese, che usasse toni non omologhi
a quelli di un giornalismo geneticamente reticente com’è in gran parte il
giornalismo italiano.

Il Lingotto e la collina, Cipputi e la borghesia torinese illuminata. Non
somiglia un po’ al doppio profilo del lettorato dell’Unità, mezzo radical
mezzo zoccolo duro ex-Pci?

Non saprei. Noto che fra i lettori dell’Unità c’è una parte nostalgica,
e un’altra che viceversa si sente attratta dall’impronta nuova del giornale.
Nelle intenzioni mie e del condirettore Antonio Padellaro, poi, il tutto
doveva essere condito da un po’ di umorismo, ma i fatti non ce lo hanno
consentito. Abbiamo vissuto, e viviamo, in un’Italia venata di tragicità,
e non credo di usare una parola eccessiva. E’ tragica una figura come Bossi,
è tragico il cinismo di Berlusconi, e sono tragici anche il silenzio e le
voci sussurrate che dalla sinistra non arrivano alla periferia.

Quali voci sussurrate? Un’opposizione fatta di mezzi toni, vuoi dire?

Voglio dire che a me risulta incomprensibile che una sinistra che è stata
al governo debba comportarsi come se stesse al governo anche adesso che
invece sta all’opposizione. Mi ricordo quando Bob Kennedy si dimise da ministro
della giustizia: due giorni dopo era in California, alla testa di una marcia
di clandestini messicani raccoglitori di uva che lottavano per un contratto
inascoltati dai sindacati. Non aveva addosso la polvere dell’uomo di governo,
né del senatore garantito di New York, né della famiglia Kennedy. Con quel
gesto comunicò ai media che da lì in avanti non avrebbe fatto «l’ex ministro»:
un cambio netto di politica e di immagine, che oltretutto gli giovò. I media
si nutrono di questi dislivelli di immagine.

C’è questa felice continuità fra la tua esperienza americana e quella di
oggi? O piuttosto anche Furio Colombo ha curato un suo salto di immagine,
dal direttore dell’istituto italiano di cultura di New York che raccontava
con toni soft l’America degli anni 80 al direttore dell’Unità che fa opposizione
con toni forti al «regime» berlusconiano?

Beh, di salti d’immagine ne avevo già conosciuti, da deputato ero scomparso
dalla scena rispetto a quando scrivevo su Repubblica... Certo, c’è di mezzo
anche una questione di ruolo. Oggi Sergio Romano scrive in modo diverso,
più libero, rispetto a quando faceva l’ambasciatore: i ruoli contano, nella
vita. Adesso faccio un giornale politico, che deve comunicare e per comunicare
deve parlare chiaro. Non credo ai sottintesi né ai piccoli club. La lotta
politica ha le sue durezze, tanto più nei sistemi bipolari, dove se sei
a non sei b. Da Kerry non sentiremo mai dire, durante la campagna elettorale:
questa cosa potremmo farla insieme con Bush. E in Gran Bretagna, quando
il Guardian attacca Blair, nessuno l’accuserà di fare giornalismo omicida...

...come con l’Unità ha fatto il Foglio, d’accordo. Antonio Padellaro, il
tuo condirettore, ha scritto di recente degli «avvelenatori di professione»
che ce l’hanno con voi. C’è un tiro incrociato del Foglio e del Riformista,
o sbaglio?

Il Foglio ne ha facoltà, è il suo ruolo naturale. Quanto al Riformista non
so che dirti, dovrei prima capire perché esiste e io non lo so. Se dovessi
spiegare che cos’è a un amico straniero, dovrei prima dire che è un giornale
di sinistra, poi che non lo è, poi che però crede di esserlo. Non so perché
ci attacchi, non credo che li abbiamo aggrediti noi per primi, ma non garantisco
di essere imparziale.

Prendiamola più alta. Al fondo della ruggine, non c’è il problema del rapporto
fra riformismo e radicalismo? Emanuele Macaluso ha scritto di recente che
il punto è sempre lì, in quelle due anime che il vecchio ci riusciva a
tenere insieme mentre i Ds non ci riescono.

Posto così il problema è già più accettabile che come contrapposizione fra
politica da una parte e massimalismo dall’altra. L’accusa di massimalismo
si può agitare in un partito-stagno, non fra persone libere. Quanto al riformismo,
è una coperta che ognuno tira dalla parte sua. Nel mondo di oggi non c’è
sinistra che non sia riformista. Ma come? Se essere riformisti significa
tentare di fare delle riforme anche radicali restando all’interno delle
regole democratiche, mi sta bene. Il fatto è però che alla parola
«riformista» è stata data una coloritura moderata. E perché? Per quale ragione
il riformismo dovrebbe essere solo mite? Tanto più in un periodo tragico
 insisto - come quello in cui viviamo, sotto Berlusconi come sotto Bush,
il riformismo dovrebbe farsi drammaticamente netto e nitidamente alternativo.

Giuliano Amato ti darebbe ragione, dice spesso che il riformismo deve sapersi
nutrire anche di radicalità.

Sì, lo dice, ma poi questo riformismo non lo ritrovo sulla scena politica.
O lo ritrovo frenato, attutito, con gli angoli smussati.

Caso Fassino, dopo la manifestazione del 20 marzo per la pace. L’incidente
con i Ds è chiuso?

Mi pare di sì. Domenica scorsa ho sentito dire per radio a Fassino cose
molto amichevoli sull’Unità, lui stesso rivendicava sentimenti di profonda
amicizia al di là dei dissensi. E naturalmente i sentimenti di amicizia
altrettanto profonda ci sono anche da parte mia.

E’ vero? Nessuna traccia residua?

Sul piano personale è vero certamente. Siamo amici da sempre, Torino ci
lega da ben prima della mia candidatura al parlamento. Se c’è una cosa su
cui non ho dubbi è la sua passione politica, e se c’è una cosa di cui lui
non dubita è la mia mancanza di doppiezza. Dopodiché, i veri amici sanno
anche fare tesoro delle tracce dei loro conflitti.

Nel botta e risposta fra te e Anna Serafini, che dopo l’attacco a Fassino
nel corteo vi rimproverava di non essere stati abbastanza solidali con lui,
colpiva che lei difendesse la funzione dirigente in quanto tale, come se
la solidarietà degli intellettuali al Principe fosse in un certo senso scontata,
mentre tu rispondevi rivendicando l’autonomia del giornale e sostenendo
che alla fine l’Unità, con tutta la sua disomogeneità al partito, «porta
voti». Detto in altri termini: chi ha più in mano il gioco oggi, un gruppo
dirigente o un giornale, il linguaggio politico classico o quello mediatico?

Buona domanda. Perfino il Foglio dimostra che fra un partito e un giornale
è il giornale che è più libero di muoversi e può permettersi gesti audaci
quando un partito dev’essere più prudente. Ben prima del Foglio, del resto,
questo l’ha detto a tutta la stampa e a tutti i partiti il manifesto, dimostrando
che va avanti solo chi sa comunicare, e che un giornale è una forma della
politica più agile di un partito. Immaginare ancora oggi che la voce di
un partito e la voce di un giornale possano andare a coincidenza, significherebbe
eliminare voci, canali, ritualità, gestualità diverse, che tutte insieme
fanno «la sinistra», e che è non solo inevitabile ma utile che restino diverse.

Fra i Ds si dice anche che siete troppo tiepidi con la lista unica. Vero
o falso?

Le accuse sulle posizioni politiche vanno e vengono. Nel corso di questi
anni siamo stati: troppo attenti al correntone, troppo attenti a Cofferati,
troppo girotondini, e ora troppo tiepidi con la lista unica. Faccio presente
che tutte queste ragioni di divisione sono durate poco, nel tempo i fatti
ci hanno dato sempre ragione: ovvero, dopo molti scossoni, ci siamo ritrovati
vicini. Noi diamo voce a una folla eterogenea che vuole liberarsi di Berlusconi.E
il ventaglio di quelli che si vergognano di essere governati da Berlusconi
è molto vasto, va dagli ex militanti del Pci a una certa borghesia che lavora
nelle professioni e nelle imprese. L’Unità cerca di stare in sintonia con
questo sentimento di indignazione e vergogna, più che con i perimetri dell’opposizione.

Ma è proprio questo il punto, l’Unità non fa troppo leva su questa indignazione?
Non è effettivamente un giornale troppo urlato?

No, e lo rivendico. «Giornale urlato» è una definizione - comprensibile
 della destra, fatta propria - non so perché - da una parte della sinistra.

Però c’è anche una parte della sinistra, anche non moderata, che non digerisce
qualche vostra inclinatura giustizialista. E che - penso alle finezze di
Marco Travaglio sul governo D’Alema - trova che talvolta dal giustizialismo
al qualunquismo il passo è breve.

Ogni cosa va situata nel contesto in cui accade. Finché in Italia resta
al governo la posizione di illegalità di Berlusconi e Previti, non è neanche
possibile spostare il discorso sulla magistratura e contro la magistratura.
Quanto a Travaglio, fuori dall’Unità ha fatto e scritto cose che non condividiamo
e gliel’abbiamo detto, dentro l’Unità difendiamo la sua e l’altrui libertà
di espressione. Ce n’è così poca oggi in Italia, basta vedere ogni singola
puntata di Porta a porta, trasmissione che giustamente il Financial Times
ha definito «un continuo spot elettorale per il suo principale Berlusconi».
Una trasmissione peronista, libera per finta e seriamente di regime.

Pochi giorni fa hai scritto un pezzo molto duro contro The Passion, definendolo
addirittura pornografico e auspicando che venisse vietato ai ragazzi. Non
hai esagerato?

No. Anche David Denby, sul New Yorker, l’ha definito pornografico. Prima
di Giuliani, a New York sulla 42°c’era un mercato del porno dove la merce
più ricercata non erano i film di sesso, ma quelli che mostravano una violenza
estrema, se possibile con morte finale. Come nel film in questione. Il fatto
che il corpo torturato sia quello di Gesù ne sta facendo un grande successo
commerciale. E senza alcuna presa di posizione da parte della Chiesa.

Tu l’hai accusato però anche di antisemitismo.

Lo Stato di Israele l’ha proibito, tanto gli è parso patentemente antisemita.
Amos Luzzatto l’ha recensito per noi con desolata costernazione. E il film
sta avendo nei paesi arabi un preoccupante successo, che sembra premiare
le flagellazioni dell’islamismo fondamentalista.

Lasciamo perdere The Passion e, a proposito di Israele, torniamo all’Unità.
Io sono fra quelli che pensano che in Terra santa si scontrano due ragioni
e due torti. Però l’Unità ogni tanto non rischia di sporgersi troppo sulle
ragioni di Israele?

No. Ho orientato il giornale sul modello dell’iniziativa per la pace di
Ginevra. La quale dimostra che la pace è possibile, ma solo nella convivenza
fra due stati, per cui bisogna passare dallo slogan «liberare la Palestina»
a quello «fare lo Stato di Palestina». Dopo l’11 settembre c’è stato un
salto, non si può più guardare al conflitto mediorientale con gli stessi
occhi di prima. E bisogna sapere che nella lotta al terrorismo che usa le
bombe umane, i cittadini di Israele che vedono i loro bambini morire sugli
autobus stanno dalla stessa parte dei cittadini palestinesi che li vedono
morire nelle operazioni di rappresaglia.

Invece, con quali occhi consigli di guardare alle elezioni americane, dall’Europa
e dall’Italia?

Tenendo presente che la misura del cambiamento, negli Stati uniti, non è
il valore di Kerry come eventuale presidente, ma il valore della cacciata
eventuale di Bush. Se Kerry verrà eletto, passerà alla storia non per quello
che farà, ma per avere rimosso George W. Bush e i neoconservatori, «dei
veri rivoluzionari che agiscono al di fuori della legalità repubblicana»,
secondo la definizione di Paul Krugman. Quell’asse di illegalità arriva
all’Europa e all’Italia. Spezzarlo riguarda gli americani quanto riguarda
noi.