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Iraq, un anno di rapina e paura

Publie le martedì 20 aprile 2004 par Open-Publishing

di Fabio Alberti, "Un Ponte Per"

Tredici anni di embargo hanno distrutto un paese, l’hanno messo in ginocchio, hanno ammazzato un milione e mezzo di persone. Oggi coloro che hanno fatto ciò si sono presentati in quel paese come i salvatori, come i liberatori. Di costoro l’Italia fa parte. In anteprima per Nuovi Mondi Media un articolo dal mensile "Guerre&Pace" di aprile.

Nel corso di quest’ultimo anno le condizioni di vita in Iraq sono ulteriormente peggiorate rispetto alle già tristi condizioni cui tredici anni di embargo - al quale il nostro paese ha partecipato - avevano portato a quel paese. Ciò va ribadito perché con troppa facilità si sta dimenticando che non è la guerra che ha portato questa situazione in Iraq, ma l’embargo.

Tredici anni di embargo hanno distrutto un paese, l’hanno messo in ginocchio, hanno ammazzato un milione e mezzo di persone. Oggi coloro che hanno fatto ciò si sono presentati in quel paese come i salvatori, come i liberatori. I danni che la guerra ha fatto sono risibili rispetto a quelli che i 13 anni precedenti hanno realizzato; però, se è possibile, oggi si sta ancora peggio, perché c’è un ulteriore aggravarsi della situazione umanitaria, perché a questa si è aggiunta una situazione di insicurezza insostenibile e perché si è ormai aperta la possibilità di altri anni di violenza e il rischio della guerra civile. Non è la guerra - e dico questo perché noi ci mobilitiamo solo quando cadono le bombe - che ha costruito l’insicurezza di questi 12 mesi, che ha determinato la condizione umanitaria: queste cose sono il frutto di un anno di occupazione.

A FAVORE DELLE MULTINAZIONALI USA

Innanzitutto sono frutto della politica economica che il governatore Bremer e l’amministrazione provvisoria dell’Iraq hanno svolto nel corso di quest’anno. Una politica economica a cui il nostro paese ha partecipato, perché dobbiamo sempre ricordare che l’Italia non è in Iraq con 3.000 militari, su 130.000 soldati di occupazione, principalmente per il controllo di una piccola provincia; certo, facciamo risparmiare a Bush qualcosa come 50 milioni di euro al mese, ma l’Italia è in Iraq come parte integrante del governo di occupazione, è parte dell’amministrazione provvisoria (con il ministro della Cultura che è italiano e con funzionari); condivide quindi tutte le scelte di politica economica che la Cpa (Autorità provvisoria di coalizione) ha fatto in questo anno. Una politica di sistematica spoliazione che ha determinato l’impossibilità per l’Iraq di avviarsi su una strada di ripresa economica.

L’Iraq ha tuttora una disoccupazione superiore al 60/70%, lo sviluppo economico non è ripreso e ciò è strano perché non c’è paese che al termine di una guerra non benefici di un periodo di boom economico determinato dall’avvio della fase di ricostruzione. Lo stesso Iraq nel 1991, subito dopo la prima guerra del Golfo, fino a che c’era stato da ricostruire strade, ponti, scuole, ospedali, aveva goduto di una breve fase di piena occupazione. Ora l’Iraq è l’unico paese che dopo la guerra ha una continua stagnazione e addirittura, se possibile, un regresso.
La prima scelta è stata quella di affidare la ricostruzione del paese all’estero, alle multinazionali Usa legate direttamente all’amministrazione Bush; e oggi - perché l’Italia fa parte del giro - anche alle aziende italiane, in corsa per i 18,5 miliardi di dollari di appalti che vengono assegnati in questo periodo dal Pentagono. Dopo un anno queste multinazionali, con miliardi di dollari di appalto, non hanno ancora cominciato a ricostruire il paese.

Nel nostro piccolo, come "Un ponte per…" nella città di Bassora abbiamo ricostruito più centrali di potabilizzazione delle acque noi che la Bechtel con 648 milioni di dollari di appalti. Il ritardo nella ripresa dello sviluppo economico è stato determinato da questa scelta, perché è evidente che non è possibile pensare di riprendere immediatamente a ricostruire il paese da parte di chi non lo conosce, di chi ha paura ad andarci, di chi ha delle spese stratosferiche di sicurezza e non si fida della gente. Gli iracheni hanno aziende, capacità di ricostruire; hanno già ricostruito il paese una volta, dopo la guerra del 1991, e sarebbero assolutamente in grado di ricostruirlo immediatamente. Se fosse stata fatta la scelta di appaltare a ditte e ingegneri iracheni la ricostruzione, la situazione sarebbe totalmente diversa.
La politica economica di appaltare all’estero significa una scelta precisa: quella di favorire gli interessi delle aziende che hanno permesso l’elezione di Bush (non mi meraviglierei se tra le aziende italiane appaltate ci fossero quelle amiche del ministro Lunardi o dello stesso Berlusconi).

UNA POLITICA DI SPOGLIAZIONE

Nello stesso tempo l’amministrazione Bremer ha violato tutte le leggi internazionali, in particolare la Convenzione di Ginevra e i Regolamenti dell’Aja; ha deciso di riformare completamente il sistema economico iracheno, nonostante il parere contrario dello stesso Governing Council, che ha mostrato in quel momento di essere sostanzialmente senza potere; ha varato una legge di riforma fiscale che ha abolito tutte le norme precedenti e ha stabilito una tassazione massima non progressiva del 15% e ha esentato dal pagamento delle tasse tutti coloro che lavorano con appalti della Cpa: praticamente in questo momento gli unici a pagare in Iraq sono gli iracheni.

Contemporaneamente è stata liberalizzata la possibilità di investimento estero all’interno del paese, autorizzata l’esportazione del 100% dei profitti, autorizzata la proprietà del 100% delle aziende irachene, messo in vendita oltre 100 grandi aziende di proprietà pubblica irachena (praticamente l’insieme del sistema produttivo, che è in ogni caso di proprietà pubblica, e ciò senza avere il diritto di farlo, un paese occupante non può vendersi ciò che non è suo), abolito i dazi. L’abolizione dei dazi sembra una sciocchezza, ma già alcuni settori economici iracheni hanno subito i danni di questa politica. Ad esempio, la produzione di vestiti, non più protetta da barriere all’importazione delle merci a bassissimo costo provenienti dalla Cina, è in crisi. Il settore dell’allevamento del pollame è messo in crisi dall’importazione di grandi quantità di pollame a basso costo da parte degli Stati uniti.

È evidente che se da una parte tutti i fondi disponibili vengono esportati all’estero attraverso gli appalti e se dall’altra parte si impedisce la ripresa economica interna del paese, il risultato è che la disoccupazione non decresce ma aumenta. E l’altro risultato, se questo disegno si chiuderà con la legalizzazione attraverso il trasferimento di poteri a un governo iracheno, sarà che l’Iraq verrà privato delle proprie risorse, delle proprie ricchezze, del controllo sulla sua economia - dopo di che non si capisce che cosa resterebbe da governare a questo governo.

LA FRAMMENTAZIONE DELLA SOCIETÀ

Ma anche la situazione interna è stata determinata dalle modalità di gestione del processo politico. Un solo esempio: fin dal primo momento tutte le strutture rappresentative nominate dall’alto, dagli Usa, sono state decise sulla base di rappresentanze religiose ed etniche. Il Governing Council è composto da sciiti, sunniti, cristiani e kurdi, differenze che in quel paese già esistevano; ma si è introdotto e forzato un sistema che sta inducendo l’insieme della società irachena ad autorappresentarsi attraverso questo tipo di divisione. Ad esempio, il rappresentante del Partito comunista iracheno che è nel Governing Council non vi è come comunista ma come sciita.

È evidente che se uno per essere rappresentato deve classificarsi dentro questo tipo di divisione si ha come effetto un rafforzamento dei poteri, in particolare dei poteri religiosi, e si ha una radicalizzazione del senso di appartenenza e una spinta alla frammentazione della società.

Noi che lavoriamo da molti anni in Iraq, fino allo scorso anno non sapevamo se il personale con cui lavoravamo era sciita o sunnita, nel senso che nessuno lo diceva, né lo si chiedeva. Oggi io conosco l’appartenenza religiosa di tutto il personale che lavora per "Un ponte per…" a Bassora, nel senso che oggi te lo dicono se glielo chiedi, mentre fino a un anno fa nessuno ti rispondeva su questo.
Finora lo scontro interreligioso è stato tenuto a freno e impedito dal comportamento responsabile delle maggiori autorità religiose del paese, ma c’è un continuo tentativo, evidente ad esempio negli attentati alle moschee che abbiamo avuto anche di recente, di aprire una situazione di conflitto: dopo gli attentati alle moschee sono partiti gli assalti alle moschee sunnite e le risposte nei confronti delle altre moschee. La cosa è stata bloccata, è stata frenata, ma non sappiamo per quanto tempo questo continuerà a succedere.

Anche la scelta di nominare un governo dall’alto escludendo una parte della società determina con ogni evidenza una crescente divisione interna all’Iraq. Il timore è che il prossimo passaggio di poteri sarà, o possa essere, il punto di svolta per l’apertura di una nuova fase che non sarà di transizione alla democrazia, ma di estensione della violenza e dell’insicurezza all’interno del paese.
Fino a che queste politiche di depredamento economico e di divisione politica all’interno della società irachena continueranno - e queste politiche continueranno fino a che permane l’occupazione militare - non c’è speranza di pace per quel popolo.

Al di là di qualsiasi altro ragionamento, è questo il motivo principale per cui l’Italia deve ritirare le truppe. Basterebbe dire che è una presenza illegale, e che quindi in quanto occupanti devono ritirarsi, ma devono ritirarsi anche per dare una chance e una speranza che in questa terra possa esserci un futuro di pace.

Testo della conferenza "Verso la giornata internazionale del 20 marzo - Un movimento mondiale contro l’occupazione dell’Iraq e contro la guerra globale", Milano, 12 marzo 2004

Approfondimento: L’altro esercito
I 4 italiani rapiti appartengono a un altro esercito di occupazione: quello dei mercenari

Una delle conseguenze meno evidenti del difficile dopo guerra in Iraq è costituita della crescita esponenziale di contratti affidati alle compagnie di sicurezza private (Private Security Companies - PSCs). Si tratta di aziende strutturate come società per azioni, con sede soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Conosciute anche come Private Military Companies (PMCs), stanno vedendo un notevole aumento dei propri affari proprio grazie alla caotica situazione irakena.

Ai continui attentati ai membri delle Forze Armate della Coalizione fanno da sfondo anche quelli ai civili stranieri, soprattutto inglesi e americani, che si occupano della ricostruzione del paese. La sicurezza dei propri rappresentanti è uno dei temi più cari alle agenzie che lavorano in Iraq, anche perché, stando a quanto afferma una bozza preparata dal Infrastructure Security Planning Group dell’Autorità provvisoria (CPA - Coalition Provisional Authority), "si ritiene che la minaccia alle forze della coalizione e alle agenzie che si occupano della ricostruzione possano rimanere al livello odierno per il prossimo anno", e che tali agenzie si possano trovare vulnerabili agli attacchi sia di elementi contrari all’occupazione sia della comune criminalità. Allo stesso tempo, tuttavia, le forze militari americane e della Coalizione non possono garantire la sicurezza di tutti i civili che, per motivi di lavoro, sono costretti a muoversi nel territorio irakeno.

Per questo, le grandi agenzie appaltatrici assumono compagnie private di sicurezza, in grado di offrire loro servizi di scorta e di protezione. Questa necessità, però, fa aumentare i costi dei contratti che sono cresciuti dal 7 al 10% del valore delle commesse e ciò, come spiega al Washington Post Darrell Crawford, capo dell’ufficio che si occupa dei progetti di ricostruzione, può, a sua volta, causare il ritardo o addirittura la cancellazione di alcuni progetti. Proprio la necessità crescente di protezione ha dato, quindi, impulso a quello che appare essere il vero business del dopo guerra in Iraq: quello della sicurezza. La maggior parte delle agenzie di sicurezza privata impegnate nel paese arabo sono britanniche, tra queste Erynis, Olive Security Limited, ArmorGroup e Control Risks Group, o americane, come la DynCorp, anche se ne rimane sconosciuto l’ammontare complessivo, anche alla stessa CPA.

In totale, comunque, si stima che il giro d’affari delle PMCs possa consistere in circa 800 milioni di sterline. Non sono comunque soltanto le compagnie private interessate a conquistare fette del mercato irakeno a cercare la protezione delle PMCs: la società britannica Global Risk si occupa sia della sicurezza dei membri della CPA, sia di quella di alcuni ministri irakeni, così come si parla di circa 100$ milioni che la CPA starebbe per spendere per un contratto con una forza di sicurezza privata per proteggere la Green Zone - area di 4 miglia quadrate dove sono concentrate le residenze di dipendenti americani, nonché la stessa CPA e dove dovrebbe essere aperta in luglio l’Ambasciata americana.

La Green Zone è attualmente protetta da militari americani, ma la CPA vorrebbe utilizzare quelle forze per contrastare le violenze e gli atti di terrorismo, liberando quindi i militari dal controllo dell’area. I compiti affidati alle PMCs sono, quindi, di varia natura e vanno dalla protezione di pozzi petroliferi, come nel caso della Erynis, compagnia britannica che già si era occupata della protezione di impianti simili in Colombia e Nigeria, all’addestramento della polizia irakena, affidato, dal Dipartimento di Stato Americano, alla DynCorp. L’ArmorGroup ha firmato un contratto del valore di 876.000£ per fornire una scorta di venti uomini al Foreign Office e la sudafricana Meteoric Tactical Solutions riceverà 270.000£ per la fornitura di guardie del corpo e autisti al Dipartimento per lo sviluppo internazionale - DFID. Così come nessuno conosce l’ammontare delle PMCs presenti nel teatro irakeno, sconosciuto è anche il numero dei loro addetti. Si calcola che sia superiore a qualunque altro contingente presente in Iraq, quello americano escluso. Si tratta di professionisti provenienti sia da eserciti occidentali, americani e britannici soprattutto, sia sudafricani, sia, ancora, da cileni o da gurkha nepalesi (ex militari del British Army). È richiesto un curriculum nelle forze armate o in quelle di polizia e lo stipendio è così elevato che non sono pochi quelli che si congedano dai corpi di appartenenza per cercare impiego presso le PMCs. Si parla di salari di circa 600 sterline al giorno, pari a quasi 900 euro. Il confronto è a tutto svantaggio dai reparti nazionali: un membro del SAS (Special Air Service) guadagna, di base, circa 28.000 sterline all’anno, mentre chi decide di abbandonare questo reparto a favore di una PMC può ricevere uno stipendio annuo che si aggira sulle 208.000 sterline.

Fonte: http://www.analisidifesa.it/articolo.shtm/id/4024/ver/IT