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LA CRISI ECONOMICA NON È CRISI DEL DEBITO PUBBLICO ORIGINATA DA UNA SPESA PUBBLI

par Franco Pinerolo

Publie le venerdì 28 settembre 2012 par Franco Pinerolo - Open-Publishing
2 commenti

La spending review del governo
non è riqualificazione della spesa né lotta agli sprechi ma tagli lineari con
effetto depressivo sull’economia.

 

L’attuale crisi
economica viene presentata come crisi del debito pubblico originata da spese
eccessive di governi scialacquatori, ma,
secondo i dati riportati da moltissimi
autorevoli economisti come vedremo,
i problemi europei sono conseguenza degli
squilibri
strutturali nei rapporti commerciali tra i diversi Paesi della zona euro dovuti
a
l mercantilismo egemonista
tedesco; derivano dal mancato ruolo della BCE di prestatore di ultima istanza e
di sostenitore della crescita, dell’occupazione e della stabilità finanziaria
(prof. J. Stglitz premio Nobel economia); sono causati dallo scoppio delle bolle
immobiliari alimentate dai flussi di capitali dai Paesi più forti verso alcuni
periferici (Spagna, Irlanda); e 
provengono dalle politiche di austerità che hanno peggiorato infine la
situazione. L’interpretazione falsa della crisi come crisi dovuta
fondamentalmente alla spesa pubblica, è stata utilizzata (v. prof. P. Krugman ex
Premio Nobel per l’economia e stretto collaboratore di Obama) dalle classi
dominanti dei Paesi periferici per colpire i diritti sociali formali e
sostanziali
e smantellare
ciò che ancora rimane delle riforme realizzate negli anni ’70 a tutela dei
lavoratori e, più in generale, della sicurezza sociale
.

 

1) Come hanno
argomentato giustamente Joseph Stiglitz,
De
Grauwe,
Martin
Wolf
, i proff. E. Brancaccio, S. Cesaratto, Dornbush, Feldstein,
De
Nardis,
Richard Layard,
Manasse e
Roubini
, Daniel Gros ed
altri
insigni
economisti, ma pure il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Commissione
europea, l’ILO e molte altre istituzioni internazionali, la crisi dei bilanci
pubblici è un mero riflesso, una conseguenza degli squilibri nella bilancia dei
pagamenti, e non c’entrano le spese sociali.
La Germania, infatti,
praticando una sleale deflazione competitiva finanziata con spesa pubblica, ha
accumulato sistematici eccessi di esportazioni rispetto alle importazioni, e il
risultato è stato un accumulo di crediti verso l’estero da parte della Germania
e una crescita dei debiti (sia pubblici che privati) verso l’estero da parte dei
Paesi periferici tra cui l’Italia.

La
Germania ha portato avanti riforme economiche senza coordinarsi con gli altri
Paesi ignorando le regole europee, e in particolare il Patto di
stabilità.
Questo è avvenuto
perché l’Unione europea, i suoi
Trattati, non furono basati sulla solidarietà,
su una politica economica
comune,
sulla
cooperazione, ma ebbero paradossalmente come fondamento la competizione e la
concorrenza fra capitali, fra le stesse Nazioni. Si è creata una moneta senza
uno Stato, perchè un’
Europa politica, genuina e sostenibile
doveva per forza comprendere dei
principi di riequilibrio economico fra Paesi.
La teoria economica delle aree valutarie
ottimali (AVO)
insegna che, per
evitare problemi, l’abbandono della flessibilità del cambio deve essere
compensato (prof. A. Bagnai). O
pportune
politiche industriali dei singoli Stati - favorite anche da trasferimenti
centrali - potevano evitare (prof. S. Levriero) gradi di specializzazione troppo
elevati delle singole regioni europee, favorendo sia il mantenimento e sviluppo
del tessuto industriale anche nelle aree più deboli ed anche in campi
tecnologicamente avanzati, sia un processo di omogeneizzazione della
legislazione sul lavoro e fiscale, oltre che la riduzione della dipendenza
dall’estero dei Paesi “periferici”, permettendo tassi di crescita più elevati
per il complesso dell’area dell’euro. A
ll’interno di tutti i Paesi del mondo,
compresi gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ecc, esistono aree “ricche” e aree
“povere”, e se la contraddizione non esplode è perché c’è il bilancio pubblico
che funge da riequilibratore, bilancio che per l’UE ammonta appena all’1% del
Pil dell’Unione, cioè nulla in termini pratici, considerando che ad esempio il
bilancio federale negli USA arriva ad un quarto del Pil
.
Nella zona euro
infatti, il compito di attenuare gli squilibri è stato affidato ai fondi
strutturali per le regioni a basso reddito, ma questo fondo è sempre stato di
dimensioni inadeguate, e l’accesso ai fondi è stato subordinato a meccanismi
complessi non sempre alla portata delle amministrazioni locali delle aree in
deficit.

È dunque indispensabile
esercitare le
pressioni necessarie sulla Germania e sui Paesi in surplus perché risolvano
questa situazione:

a) 
bisogna far
capire a Germania e Paesi in surplus commerciale che un riequilibrio dal solo
lato dei Paesi debitori verso l’estero genera “mezzogiornificazione” (prof. P.
Krugman) dei Paesi
periferici e depressione economica, accrescendo le probabilità di distruzione
della zona euro.

b) “la Germania ha giocato sporco
in questi anni” (
v. proff. J.
Bibow e
A. Bagnai) non avendo
voluto collaborare col prossimo, ma fregarlo facendo dumping fiscale e sociale
per aggredire le economie circostanti, violando le regole europee attraverso la
sua riforma di precarizzazione (col
micro-impiego,
ossia la proliferazione di contratti temporanei per un massimo di 80 ore al mese
con stipendi limitati a 400 euro)
e di abbattimento del costo del lavoro
per
unità di prodotto (nel periodo 1999-2008 è aumentato in media dello 0,4%
all’anno in Germania, contro oltre il 2,5% all’anno in Italia e
Spagna)
mediante accordi governo
tedesco-sindacati miranti a non tradurre in aumenti delle retribuzioni gli
aumenti di produttività. È il cosiddetto “mercantilismo monetario”
(prof. C.L.
Holtfrerich)
una sorta di
violazione dei patti impliciti Europei che prescrivevano un obiettivo comune di
inflazione del 2%, mentre la Germania ha perseguito un’ inflazione al di sotto
di tale soglia (prof. P. Krugman). Le importazioni tedesche sono così diminuite
mentre è aumentata la propria quota del mercato mondiale
. Se l’inflazione crescesse in Germania un
po’ più degli altri Paesi ciò non farebbe che riequilibrare anni di situazione
sbilanciata.

c) 
Sono poi le
banche tedesche quelle che hanno lucrato di più sull’indebitamento pubblico e
privato dei Paesi oggi stremati dal debito; e quei debiti hanno poi finanziato quasi metà dell’export della
Germania, mentre l’altra metà di quell’export è stata facilitata da una moneta
(l’Euro) svalutata grazie alla debolezza di altri Paesi dell’eurozona.

d) I tassi sui Bund a 10 anni (i
titoli di Stato tedeschi, sulla base dei quali si misura lo spread) nonostante
offrano rendimenti ai minimi, all’1,4% - il che, considerata un’inflazione
tedesca che viaggia vicino al 3%, significa un rendimento negativo - attirano
flussi di fondi dall’estero perché considerati rifugio sicuro: ma se questi
titoli Bund fossero espressi in una moneta solo tedesca (il marco) l’afflusso di
fondi dall’estero farebbe subito salire il cambio
, come avviene per es. nei
Paesi emergenti ad alta crescita (il Brasile) o nei Paesi anch’essi considerati
sicuri (la Svizzera), e quindi col marco rivalutato, le esportazioni tedesche
non andrebbero così bene! Non stiamo parlando di spiccioli: s
econdo Frank
Mattern, capo di McKinsey, negli ultimi dieci anni un terzo della crescita
dell’economia tedesca è dovuto all’euro (165 miliardi di euro nel solo 2010!).
In un contesto di solidarietà europea bisognerebbe anche tener conto che in
pratica l’Eurozona finanzia a tasso zero il surplus commerciale e il debito
tedesco, mentre la Spagna paga il 6% di interessi, l’Italia il 5%. Dunque
l
a Germania,
che ottiene denaro in prestito a basso prezzo. potrebbe accettare per es. (v.
prof.
D.
Strauss-Kahn
) di pagare un
sovrappremio, un prezzo supplementare, in modo da diminuire i tassi più elevati
chiesti a Grecia, Spagna o Italia.

e) 
Inoltre,
secondo Patrick
Artus di Natixis, la fuga verso i titoli di Stato tedeschi ne ha abbassato gli
interessi di oltre il 2%, con un risparmio per lo Stato tedesco di quasi un
punto di Pil (0, 9%).
È chiaro che chi
si finanzia a tassi negativi riducendo così il proprio debito pubblico non può
che aver interesse a tenere gli altri Paesi sotto il ricatto della
speculazione
. La BCE
potrebbe dunque intervenire (v. prof N. Roubini) usando la
sterilizzazione (il drenaggio di liquidità
per l’esatto importo della liquidità immessa attraverso l’acquisto dei titoli di
Stato) del nuovo programma di intervento salva-spread per vendere titoli degli
Stati core come la Germania, oppure usando i reverse repos (le operazioni di
pronti contro termine all’incontrario) dei bond degli Stati core che hanno
registrato rendimenti negativi. Anche perché chi ha basso costo della raccolta
per le casse dello Stato rischia bolle immobiliari o bolle sugli
asset.

f) 
La Germania è in
surplus per ciò che concerne il suo import/export e vanta un avanzo commerciale
del 5,9%: se ci fosse il marco, si rivaluterebbe in corrispondenza,
perché la legge economica vuole che se esporti tanto la tua moneta si rivaluta
di un eguale ammontare e il conto delle bilance commerciali tende a tornare in
equilibrio. Poiché invece c’è l’euro, che è
svalutato grazie alla debolezza di altri
Paesi dell’eurozona,
la Germania e le
sue esportazioni volano.

g) Dietro la
costruzione dell’Euro c’era un interesse sicuro, quello della Germania e dei
suoi Stati satelliti, che volevano porsi al riparo dalle svalutazioni
competitive dei paesi del Sud Europa, meno virtuosi, ma ugualmente pericolosi.
L’euro in pratica ha funzionato in favore della Germania, consentendole di
assorbire l’unificazione con i lander dell’Est e tranquille ristrutturazioni e
innovazioni. Una
unificazione,
quella tedesca, di cui tra l’altro si fecero carico tutti gli Stati europei,
compresi gli italiani, che sopportarono i costi indotti e impliciti di un cambio
fra la moneta tedesca occidentale e quella orientale di 1 a 1.

h) la
Germania ha proposto ai Paesi periferici europei la liberalizzazione dei
movimenti di capitale e l’adozione di un tasso di cambio fisso, e poichè nei
Paesi periferici i tassi di interesse erano più alti, ha ottenuto il vantaggio
di poter prestare propri capitali, lucrando la differenza senza patire rischio
di cambio perché il cambio è fisso. Questa liquidità prestata a buon mercato, ha
poi alimentato in numerosi Paesi europei (Spagna, Irlanda) bolle immobiliari
pagate ora a caro prezzo, ma soprattutto ha
assicurato un
profittevole mercato di sbocco alla Germania per i propri beni, perché la
liquidità prestata non si è tradotta per i Paesi periferici in
investimenti
dal momento che la
Germania, con la sua politica mercantilista volta ad esportare moltissimo ed
importare il meno possibile, mantenendo tassi d’inflazione minimi, ha reso più
conveniente far importare i propri beni di consumo, col risultato paradossale
che ora i Paesi più poveri si trovano a dover restituire ai paesi ricchi soldi
che, in sostanza, sono andati ad acquistare merce esportata dagli
stessi.

i) 
La
fragilità dell’euro deriva soprattutto dal suo stesso vizio d’origine, imposto
dalla Germania, che ha assegnato alla Banca Centrale Europea il solo compito
della lotta all’inflazione, con la totale assenza di un impegno a sostenere la
crescita economica (e quindi di salari e occupazione), che è invece il
principale compito per es. della Fed, la Banca Centrale statunitense. Questo
ruolo della Banca Centrale Europea (BCE)  è stato voluto dalla Germania per avere
una
valuta forte, in modo da ridurre il costo delle materie prime (trattate in
dollari), poter acquistare più facilmente imprese e fare investimenti produttivi
all’estero. S
e la
Banca Centrale Europea avesse
le funzioni proprie di
tutte le altre
Banche Centrali del mondo, cioè
per es. di
sostegno ai Paesi attaccati dalla speculazione e
di finanziatore di ultima istanza dei
deficit dei Paesi aderenti
, la crisi
(prof. S. Cesaratto) avrebbe anche seguito altri percorsi, come la crisi
americana: il governo avrebbe imposto il riequilibrio delle finanze locali, la
ristrutturazione, nazionalizzazione o chiusura delle banche insolventi, ma anche
ridotto i danni con trasferimenti dalle regioni più affluenti a quelle più
povere.

j) 
nel
Governing council della Bce i Paesi dell’area del marco (Austria, Belgio,
Finlandia, Germania, Lussemburgo, Olanda) hanno fatalmente avuto il sopravvento:
più Europa ha quindi significato ancora più
Germania

k) Costringere, come fa la
Germania, i Paesi periferici della zona euro ad attuare politiche di austerity
significa aggravare la loro crisi e peggiorare la loro posizione debitoria:
“l’austerità non è la soluzione” (prof. Joseph Stiglitz). Infatti l
e politiche di
austerity imposte ai Paesi periferici, basate sulla diminuzione
dell’indebitamento pubblico, l’abbattimento della spesa pubblica, l’aumento dei
carichi fiscali, la riduzione dei diritti dei lavoratori, hanno ridotto
ulteriormente i redditi e le entrate fiscali, rendendo più difficile rimborsare
i debiti, aggravando
con la
recessione i problemi di finanza pubblica e rendendo evidente che senza un
rilancio della domanda aggregata non ci sarà mai ripresa
dalla crisi
economica. 
Perciò tali Paesi si vedono costretti a far
fronte ai debiti per es. vendendo a prezzi di sconto gran parte del patrimonio
nazionale, pubblico e privato: immobili, partecipazioni azionarie in aziende
strategiche, banche, persino isole e altri beni artistici e demaniali.
Basterebbe guardare all’esperienza italiana degli anni ’90 per capire che le
privatizzazioni non portano sempre benefici (Ilva, Alcoa, Telecom, Autostrade,
Ferrovie dello Stato ecc.) ma anzi possono fare molti danni al tessuto
produttivo di un paese, distruggendo
conoscenze e capacità
industriali esistenti
. Ma per
chi dispone di molta liquidità come la Germania si creano invece grandi
occasioni per fare shopping a buon mercato nei Paesi periferici.

l) 
Se l’asse
Merkel-Sarkozy avesse attuato un programma di rifinanziamento a basso
costo
del debito greco
nel
2009
, consentendo al
Paese di uscire dalla recessione prima di risanare i conti, la crisi attuale non
avrebbe avuto luogo. Invece
il blocco degli
aiuti europei alla Grecia
, voluto
dalla
Merkel
ha
fatto degenerare la situazione,
scatenando
l’assalto speculativo della finanza internazionale, che si è poi esteso agli
altri Paesi europei, compreso il nostro.

m) 
Bisognerebbe segnalare ai tedeschi che se
salta la moneta unica può rischiare di saltare anche il mercato unico (prof. E.
Brancaccio). I Paesi periferici dell’Unione monetaria potrebbero cioè non
soltanto abbandonare la zona euro, ma potrebbero anche vedersi costretti a
mettere in discussione la libera circolazione dei capitali e delle merci su cui
la Germania ha fondato per anni il proprio regime di sviluppo. Per tutelare
gli interessi dei lavoratori e per difendere la propria struttura produttiva, i
Paesi periferici potrebbero essere tentati di governare l’uscita dall’euro
introducendo anche
: 1) immediati blocchi alle fughe di capitali, 2) misure
di regolazione dei flussi di merci e degli investimenti a lungo termine, 3)
indicizzazioni salariali, 4) controlli amministrativi su alcuni prezzi “base” 5)
vincoli alle acquisizioni estere in campo sia industriale che bancario (prof. E.
Brancaccio).

n) l’abbattimento
dei salari non riesce ad accrescere la competitività dei Paesi periferici, dal
momento che anche la Germania
insiste con una politica di contenimento dei salari in rapporto alla
produttività
, rapporto che è mediamente diminuito in Europa di circa mezzo
punto percentuale, mentre in Germania è crollato di quasi tre punti.
D
al
1999 al 2007 la Germania (prof. A. Bagnai) è stato il secondo paese a crescita
più lenta dell’Eurozona dopo l’Italia (la crescita reale è stata dell’1.7% in
Germania e dell’1.5% in Italia, contro una media del 2.7% nell’Eurozona), cioè
la domanda interna per consumi e investimenti veniva sistematicamente repressa
per evitare di far crescere le importazioni.
Sarebbe quindi
necessario che la Germania riducesse la competizione salariale al ribasso
altrimenti sarebbe difficile non pensare che voglia una “annessione”, anziché
una “Unione”.

 

La Germania ha
avuto dunque innumerevoli vantaggi e deve dare un contributo al riequilibrio
della situazione
. Per costruire fondamenta politiche più
solide in Europa bisognava tener conto di un principio fondamentale, e cioè che
per un Paese non è sostenibile né legittimo perseguire politiche nazionali che
possano provocare danni economici ad altri Paesi. Radice di tutti i
mali
è l’
avidità del denaro diceva San Paolo
(I
Timoteo VI, 10)
.
La Germania non può imitare il Quarto Reich conducendo una guerra
non guerreggiata e non dichiarata ma sotto forma di un conflitto
economico-finanziario per egemonizzare l’intero continente,
riducendo tutte
le altre economie a diventare soggetto della sua subfornitura industriale e
“mercato esterno” dove smaltire l’enorme sovrappiù tedesco
. La costruzione
europea doveva essere terreno di convergenza tra gli interessi dei ceti popolari
dei diversi Paesi, servire a migliorare la qualità della vita dei popoli
europei, ad assicurare più occupazione, meno precarietà, redditi reali più
elevati, un’uniformazione verso l’alto dei sistemi di protezione sociale, mentre
l
’Europa che ci viene
presentata oggi è quella dove prevale la legge del più potente, assume il volto
del rigore, della contrazione dei redditi e dei diritti sociali,
di continue
politiche fiscali recessive e di progressivo impoverimento.
L’euro sta pagando il suo peccato originale:
aver costruito una moneta comune senza fondarla su una politica economica
comune, su
standard minimi
nel campo della fiscalità, dei salari e dei diritti del lavoro
, su politiche di
bilancio e distributive volte al sostegno della domanda aggregata - in
particolare nei Paesi centrali - che, unitamente alla politica espansiva della
BCE (a cui la Germania si è sempre opposta
) avrebbero
favorito una crescita più equilibrata,
appropriate e
coordinate politiche monetarie e fiscali a livello centrale.
Dunque il
“mercantilismo monetario” praticato dalla Germania, tutto teso a rafforzare le
esportazioni, è incompatibili con l’unione monetaria, e l’unica vera terapia (P.
Krugman, S. Cesaratto, E. Brancaccio, A. Bagnai, A. Stirati
et al) è che la
Germania rilanci la propria domanda interna, consumi di più facendo crescere i
salari reali
in modo da
recuperare il terreno perduto rispetto alla produttività
, creando al proprio interno un boom simile a
quello verificatosi nel Sud Europa tra il 1999 e il 2007,
esportando di
meno e importando nei confronti dei Paesi deboli, lasciando andare
l’inflazione;
insomma dovrebbe
guidare una politica orientata alla crescita, all’unione politica e alla
condivisione dei rischi e accettare i costi della leadership (prof G.
Soros)
. La Germania ha
le risorse per farlo, e facendolo contribuirebbe a sanare gli squilibri europei,
a rilanciare crescita e occupazione,
a stabilizzare
il rapporto debito pubblico/Pil nei Paesi ove questo è più elevato
.

Ma il governo Monti, anziché
far pressione in questo senso, si muove in direzione diversa e contraddittoria,
prendendo provvedimenti che hanno come obiettivo la riduzione della domanda
aggregata (
consumi interni
ed esteri, investimenti privati e pubblici, ma anche spesa pubblica corrente per
acquisti di beni e servizi per la Pubblica amministrazione)
, come 
ad esempio la spending review. Una delle
vie d’uscita
dalla crisi che oggi il governo propone è infatti un riequilibrio della bilancia
commerciale basata sul rilancio delle esportazioni. Ma s
e tutti i Paesi
euro puntassero a imitare la tendenza della Germania ad aumentare le
esportazioni nette e ad accumulare crediti verso l’estero, non vi sarebbe più
una fonte di domanda interna alla zona Euro.
E poi,
s
econdo l’ultimo Bollettino
economico della Banca d’Italia (luglio 2012), nei primi quattro mesi dell’anno
in corso, c’è stato un disavanzo corrente della bilancia dei pagamenti italiana
rispetto allo stesso periodo del 2011, ma la riduzione delle importazioni,
dovuta al crollo della domanda causata dalle politiche di austerità, non ha
fatto diminuire il differenziale (spread) fra il tasso d’interesse sui titoli di
stato italiani e l’analogo tasso tedesco, mentre la conseguenza è stata che il
Pil, la produzione industriale e l’occupazione sono diminuiti, il rapporto fra
il debito estero e il Prodotto interno lordo non è migliorato, c’è una
consistente fuga di capitali italiani verso l’estero, e si è approfondita la
depressione economica. Una bella “luce in fondo al tunnel” che ci viene addosso,
Mr. Monti!

 

 

2) Come ha osservato
il prof. Paul Krugman, Irlanda e la Spagna alla vigilia della crisi avevano
conti pubblici in ordine, mentre l’Italia era un Paese
più “virtuoso” della Germania stessa, poiché
aveva un avanzo primario (cioè la differenza tra entrate e uscite al netto degli
interessi) costantemente positivo dal 1992
. Infatti,
p
rendendo in esame (prof. G.
Zezza) il debito lordo di alcuni Paesi dell’area euro -
Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna
 risulta evidente che per la maggior parte di essi il livello del debito
pubblico rispetto al PIL era simile nel 1995 (cioè prima dell’euro), nel 2000, e
nel 2006 prima della crisi, dove era anzi diminuito ad esempio per la Spagna.
In tutti i Paesi il debito è invece aumentato come conseguenza della crisi,
nel 2011,
perché il deficit pubblico aumenta automaticamente in una
situazione di recessione, e nella zona euro l’aumento è stato aggravato dalla
maggior spesa per interessi dovuta alla mancata capacità di gestione della
crisi.

Del resto è lo
stesso U
fficio economico
dell’ONU a sottolineare che “i deficit dei Paesi avanzati sono stati causati
dalla crisi e non viceversa”.

 

 

3)
In Italia all’origine del debito pubblico non c’ è la spesa
pubblica:

 

a) 
per
ragioni politico-clientelari n
on
si sono fatte pagare (v.

F. Cavazzuti 1978)

e non si fanno pagare le tasse a chi le dovrebbe pagare (
v.
L. Paggi 2011)
.
Le
legislazioni che si sono succedute dal 1973 hanno tenuto divise in due le
categorie di contribuenti: da una parte lavoratori dipendenti e pensionati con
ritenuta fiscale alla fonte sulla busta paga o certificato di pensione;
dall’altra gli imprenditori, i liberi professionisti e gli autonomi che pagano
l’IRPEF su redditi basati su studi di settore. Perciò (v. Ministero dell’Economia e delle Finanze marzo 2011)
il 93% dell’intero gettito IRPEF è pagato dai lavoratori dipendenti e pensionati
pur possedendo mediamente solo il 27% della ricchezza nazionale; l’altro 7%
dell’intero gettito IRPEF è pagato dagli imprenditori, dai liberi professionisti
e dagli autonomi che possiedono mediamente il 73% della ricchezza nazionale.
Questo sistema fiscale squilibrato ha prodotto, legalmente, una colossale
evasione fiscale quantificabile in 120 miliardi di mancato gettito erariale
annuo, fra IVA e IRPEF ed altri tipi di evasione contributiva. La somma di
questi importi è stata coperta nel tempo con emissione di debito pubblico
.
Moltiplicando per 10 anni una somma di almeno 100 miliardi annui, si produce un
valore di 1000 miliardi, che rappresenta circa la metà del nostro debito
pubblico.

b) 
nel
1981 in Italia venne abolito l’obbligo per la

nostra Banca centrale di acquistare i titoli del debito pubblico che fossero
rimasti invenduti in asta,

e da quel momento il debito italiano crebbe molto più che nel resto d’Europa
(
nel
1981 era pari al 58% del Pil, nel 1992 al 124% !)

a causa della abnorme crescita degli interessi, e non della spesa della
Pubblica Amministrazione, rimasta al di sotto o intorno ai livelli medi Ue.

c) 
Gli
squilibri commerciali dopo il 1999 hanno avuto come riflesso un aumento del
debito pubblico, come si è visto sopra, a causa della volontà di predominio
tedesca.

d) 
il calo
delle entrate in Italia è stato causato in parte anche dai salvataggi delle
banche
:
come ha dichiarato
il
presidente della Commissione Europea
José
Manuel Barroso, 4 trilioni di euro (!) sono stati spesi o impegnati nella Ue al
fine di salvare gli enti finanziari. Mario Draghi si è dato molto da fare, e in
un anno ha stampato e regalato alle banche 1200 miliardi di euro - un valore
quasi pari al Pil di tutta l’Unione europea. In Italia una gestione assai
discutibile del patrimonio, che chiamerebbe in causa il ministero dell’Economia
che vigila sulle Fondazioni, ora impegnerà quasi 4 miliardi di soldi pubblici
per il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena. E ai contribuenti italiani il
salvataggio delle banche spagnole è costato ben 19,8 miliardi di euro dei 100
miliardi stanziati. Soldi presi dalle tasche degli italiani attraverso i tagli
operati dal governo Monti.

e) 
il calo
delle entrate è dovuto anche alla riduzione dell’onere fiscale, alle
rottamazioni d’auto, ai crediti agevolati concessi in questi anni alle imprese,
molte delle quali delocalizzavano pure le aziende pagando le imposte all’estero
anziché nel paese d’origine.
Due
voci fondamentali indicano i fondi usciti dalle casse pubbliche e finiti in
quelle delle aziende: “contributi in conto corrente” e “contributi in conto
capitale”. Solo nel bilancio 2010 per es. la somma delle due voci fa 40
miliardi di euro.
(v. Marco Cobianchi “Mani bucate” ed. Chiarelettere,
2011)

f) 
è
un debito pubblico dovuto anche a un crollo della domanda interna (e quindi una
diminuzione di introiti fiscali per lo Stato) causata dalla riduzione della
produzione, dell’occupazione e del reddito, dovuta alle insensate politiche di
austerità dei governi Monti e Berlusconi. Se si mettono in atto politiche di
austerità quando la crisi è di domanda allora non si vince la crisi, ma si
approfondisce. 

g) il
record di debito pubblico accumulato da un governo sono stati i 330 milioni
al giorno accumulati dal governo Berlusconi
(v. prof. O.
Giannino)

h) la
nostra spesa sociale è sempre stata storicamente inferiore alla media
dell’Europa Occidentale

e l’Italia è all’ultimo posto tra i paesi dell’Ocse per quota di finanziamento
del welfare
:
la spesa sanitaria è sotto la media OCSE (9,3 % sul PIL, contro una media di
9,5, mentre Francia e Germania spendono l’11,6%); spendiamo meno
degli altri in istruzione
 
;
non abbiamo il reddito minimo garantito, le politiche per l’abitazione sono
insignificanti e quelle per l’infanzia spesso inesistenti.
Il
nostro è un Paese che per la
ricerca spende meno della media europea

e si trova agli ultimi posti per la spesa pro-capite nei campi dell’assistenza e
dell’ambiente.

i) 
è
un aumento del debito pubblico dovuto ad una stagnazione della crescita
che può trovare soluzione:

1) riallineando
la competitività di Berlino con quella dei Paesi della sponda Sud, perché
(prof.ssa A.
Stirati
et al.
) se tutti i
competitori abbassano i salari, non vince nessuno, e l’unico risultato è una
riduzione della domanda e della crescita.

2) Eliminando
l’austerità
autodistruttiva (prof.
Joseph
Stiglitz),

nemica della crescita per la
compressione
del potere d’acquisto di massa, 
conseguenza della pressione su occupazione e salari; per l’U
fficio
economico dell’ONU il debito pubblico accumulato non si sta riducendo attraverso
le politiche di rigore, ma al contrario continua a crescere perché l’austerità –
spiegano gli economisti dell’ONU – indebolisce la crescita e quindi peggiora il
rapporto debito/PIL, il che rende più difficile ripagare i titoli di stato alla
scadenza

3) la
deregolamentazione del mercato del lavoro (precarizzazione) e la spinta in basso
dei salari hanno determinato anche la riduzione della produttività, perchè le
imprese, potendo comprimere il costo del lavoro, erano meno incentivate a
introdurre innovazioni tecnologiche (v. prof. Hanan Morsy e Silvia Sgherri;
prof. Ian Dew-Becker di Harvard e Rober J. Gordon della Northwestern
University), ma soprattutto innovazioni di prodotto.

4) L’equità
va nella stessa direzione della crescita perchè la redistribuzione verso i
redditi più bassi e da lavoro genera maggiori consumi, fa aumentare la domanda
aggregata, sostiene il mercato interno.

5) bisognerebbe
promuovere una politica energetica ed industriale
che
orienti le scelte pubbliche e private su che cosa e come produrre;

si dovrebbe combattere la
corruzione
su ogni passaggio dei processi autorizzativi alle imprese, contrastare la
macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, l’arretratezza di
infrastrutture, incentivare conoscenza, formazione, tecnologia,
ricerca,
innovazione di prodotto; portare avanti una seria lotta a
lla
criminalità organizzata diffusa in certe aree del nostro Paese, migliorare
il

nostro sistema giudiziario lento.

6) È
insensato e contraddittorio chiedere aumenti di produttività ai lavoratori per
aumentare la crescita, come fa il governo Monti: 1)perché
l’abbattimento
dei salari non riesce ad accrescere la competitività dei Paesi periferici, dal
momento che anche la Germania
insiste con una politica di contenimento dei salari in rapporto alla
produttività.
Immaginare la possibilità di una cooperazione solidale europea
e standard retributivi forse potrebbe aiutare a risolvere il problema. 2) perché
dall’inizio degli anni ’80 la produttività ha continuato a crescere mentre
il salario reale è rimasto fermo (v. grafico prof. A. Bagnai), e lavoriamo
in Italia circa 200 ore all’anno in più rispetto alla media europea (v. dati
dell’Organizzazione internazionale del lavoro OIL), con retribuzioni del 20 %
inferiori, dunque non è il costo del lavoro la causa dell’abbassamento del costo
del lavoro per unità di prodotto, semmai

la causa è il prodotto, il cui valore è del 35% inferiore a quello che con lo
stesso costo del lavoro riesce realizzare la Germania. 3)
chiedere
aumenti di produttività ai lavoratori si risolverebbe in maggiori licenziamenti
e disoccupazione, dato che manca il consumo, la domanda di beni e servizi.
Sarebbe più sensato invece ridurre l’orario di lavoro
a
parità di salario per aumentare gli occupati e redistribuire il reddito
complessivo; detassare stipendi e
pensioni per incentivare i consumi e quindi la crescita, o aumentare la
domanda tramite un maggior ruolo della spesa pubblica.

4) le imprese anziché investire
per
rinnovare i macchinari e migliorare la tecnologia - dunque per aumentare la
produttività – e innovare il prodotto, migliorare la ricerca e il processo
produttivo, hanno preferito utilizzare la deregolamentazione del mercato del
lavoro (precarietà) per comprimere il costo del lavoro, oppure dirottare i loro
soldi verso la finanza e il mercato immobiliare, che garantiscono profitti più
alti, È la
Banca
d’Italia a scrivere (aprile 2012) che la crescita della produttività del lavoro
modesta è dipesa essenzialmente da un livello molto basso in investimenti in
innovazione tecnologica per scelta poco perspicace delle aziende 6)conta il
nanismo delle imprese nell’abbassamento della produttività, perché il valore
aggiunto per addetto delle microimprese (che in Italia sono il 95% delle
imprese), è pari a circa 25 mila euro l’anno, cioè metà di quello delle medie
imprese e due volte e mezzo più basso di quelle grandi (60 mila euro).

7) Per
la crescita è importante l’
investimento
diretto dello Stato

nei
nuovi settori emergenti

e per le infrastrutture (finanziabile con tasse sui grandi patrimoni, sulle
transazioni speculative, vera lotta all’evasione, riforma del sistema bancario
ecc);

conta
il
ruolo della
Bce
che potrebbe fare molto di più per la crescita e l’occupazione; pesano
le
privatizzazioni di alcuni rami dei servizi pubblici che hanno favorito lo
spostamento degli investimenti dalla manifattura a quei rami dove possono essere
chiesti prezzi da monopolio; conta un sistema universitario baronale che
favorisce la fuga di cervelli; e infine i fondi per la ricerca, assolutamente
inadeguati (la spesa in ricerca è ferma all’1,3% del pil, contro una media
europea vicina al 2%) la cui
stretta
insensatamente persiste anche con questa spending review.

j) 
Il
prof. Paul Krugman ricorda che gli Stati Uniti uscirono dalla Seconda guerra
mondiale con un ingentissimo debito pubblico, che tuttavia non fu mai
restituito: infatti il dopoguerra statunitense fu caratterizzato da uno sviluppo
economico talmente esteso e accelerato da arrivare a rendere del tutto irrisorio
(o, se si vuole, del tutto compatibile) il rapporto tra debito e PlL. La stessa
Italia - come ha annotato un autorevole ex ministro di passati governi quale
Paolo Savona - ha fatto registrare per anni ragguardevoli livelli del debito,
senza che ciò abbia comportato il tracollo dei suoi conti. Dunque politiche
governative dirette a stimolare la crescita e l’occupazione possono rendere
sopportabili aumenti del debito assai superiori a quelli che oggi vengono
ritenuti accettabili.

 

 

4) Il decreto della spending review avrà un
effetto depressivo sull’economia
: “La Stampa” ha pubblicato sabato 25 agosto
uno studio effettuato nell’ambito del Fondo monetario internazionale. Secondo questo working paper del Fondo Monetario Internazionale scritto da
Nicoletta Batini, Giovanni Callegari e Giovanni Melina
, un
taglio della spessa pubblica equivalente all’1% del PIL provoca una caduta
del PIL dall’1,4% all’1,8%
, mentre molto più modesti sarebbero gli effetti
contrattivi durante un’espansione.

Anche Lawrence Summers, già ministro del
Tesoro e consigliere economico della Casa Bianca, sul Financial Times del
30 aprile 2012 ricorda che il taglio della spesa pubblica ha un effetto
distruttivo sul Pil pari a una volta e mezzo
, cioè a ogni euro in meno di
spesa pubblica corrisponde un euro e mezzo di contrazione del Pil, perchè la
spesa pubblica rappresenta domanda per il sistema (
ad esempio
l’assunzione di nuovi docenti o personale medico genera un incremento nel
reddito nazionale e quindi
favorirà i consumi), e perciò ogni sua riduzione si ripercuote
negativamente sull’intera economia (prof. G. Zezza). È stato quindi calcolato
che a seguito della spending review avremo un’ ulteriore riduzione del PIL di
circa altri 40 miliardi
, rendendo ancora più squilibrato il nostro già
pesante rapporto tra un Debito che continua a salire e un PIL che invece
continua a contrarsi. La spesa pubblica finora è già strutturalmente diminuita
di 103 miliardi di euro in tre anni (a cui si aggiungono oltre 50 miliardi da
qui al 2014 se si considera l’effetto cumulato anche della Legge di Stabilità
2012 e del Salva-Italia. Siccome le uniche componenti a sostegno della domanda
interna e della crescita potenziale sono rappresentate proprio dalla spesa
pubblica corrente e dagli investimenti, peraltro già ridotti pesantemente
nell’ultimo quinquennio, se viene tagliata ulteriormente la spesa pubblica,
addio crescita!

L’idea che ogni
forma di spesa pubblica sia un costo da contenere il più possibile è un’idea da
liberismo selvaggio, che dimentica la ovvia verità che gli stipendi pagati dallo
Stato, nonché gli acquisti di beni e servizi che effettua, sono tutti soldi che
entrano nel circuito dell’economia al pari di ogni altra spesa, trasformandosi
in domanda, crescita e occupazione.
Così i nostri “tecnici” al governo, pur riempiendosi la bocca di crescita dalla
mattina alla sera, lavorano alacremente contro di essa!

 

 

5) Nella cosiddetta “spending review”
c’è ben poco in
termini di contrasto alle spese superflue, lotta alla
corruzione
e
agli
sprechi
che si annidano
nel
sistema di appalti, nelle
esternalizzazioni improprie fatte solo per favorire gli amici, negli
accreditamenti ai privati, negli stipendi d’oro dei dirigenti, nelle convenzioni
e tariffe rimborsate (i DRG) ai privati, negli abusi di interventi chirurgici
spesso non necessari, nelle consulenze d’oro (1,5 mld di euro!) magari pure in
presenza di esuberi, nei privilegi della Casta politica e parlamentare, nelle
spese militari e nelle assunzioni clientelari.

Quella del governo Monti non è una
qualificazione bensì un taglio della spesa
e tutto si
riduce, come ha ammesso pure il
Ministro dei rapporti con il Parlamento,
“Dumbo” Giarda,
ai “tagli
lineari” di Tremontiana memoria:

1) 
Viene
abbassato il tetto di spesa, che è sempre un taglio assolutamente lineare.

2) 
C’è un
taglio lineare del 3,5% per la spesa “farmaceutica”, già sottoposta in questi
anni a pesanti interventi, per cui si è passati dal 14% del 2008 all’11,35% del
2013 e, se continua così, ben presto saremo costretti a pagare i farmaci. Nessun
intervento, invece, è stato previsto per ridurre la spesa reale all’origine,
cioè esattamente dove si doveva lavorare ed in particolare sulle prescrizioni
improprie, gli sprechi e le illegalità.

3) 
La
riduzione dello standard di posti letto ospedalieri è un taglio lineare. La rete
ospedaliera non può essere ulteriormente tagliata, semmai riconvertita e
riqualificata nell’offerta, con garanzia dei servizi di emergenza-urgenza e
l’apertura di servizi alternativi nel territorio.

4) 
è un taglio
lineare la riduzione di spesa per il personale insegnante,
collaboratori
scolastici
, precari, dipendenti
pubblici, dipendenti di aziende di gestione e manutenzione di impianti e
informatica in appalto pubblico, lavoratori delle società e multiservizi di
tantissimi Enti locali.

5) 
È un taglio
lineare la riduzione del 5% per acquisti di beni e servizi del sistema sanitario
e la ricontrattazione degli appalti per prezzi di beni e servizi superiori del
20% a quanto disposto dall’Osservatorio per i contratti pubblici. È un
provvedimento che colpisce a fondo il sistema pubblico fino a renderlo incapace
di agire. Gli stessi tagli al capitolo “fornitura di beni e servizi” rischiano
di produrre effetti negativi sia nella produzione dei beni, distruggendo valore
industriale e ricerca, sia, come nel caso dei servizi sull’occupazione in un
settore che impiega non meno di 500.000 lavoratori, con rischi per un 15% degli
addetti o su quello delle condizioni retributive e contrattuali oltre che delle
condizioni di lavoro delle tante persone addette

6) 
su altri
beni e servizi, è previsto un taglio assolutamente lineare, non solo di
difficile realizzazione ma che rischia di scaricarsi sui fornitori
contrattualmente più deboli (per es. associazioni no profit, cooperative sociali
ecc.) e di bloccare forniture necessarie

Dai “tecnici” ci si sarebbe aspettato uno
sforzo di innovazione, tagli più mirati e oculati, non la solita ignobile e
inutile macelleria sociale. A che è servito
ingaggiare
un consulente del Governo,
pagato a peso d’oro?

La spending review rischia di distruggere un
modello sociale che ha fondato i suoi architravi sull’universalità delle
prestazioni, sull’inclusione e sulla tutela sociale; rischia di mettere in
ginocchio il Paese sotto il profilo economico-sociale, dell’offerta formativa e
di ricerca e della capacità dell’intervento pubblico di rispondere ai bisogni
fondamentali della cittadinanza, perché avrà effetti disastrosi sui servizi ai
cittadini, sul lavoro pubblico e sul lavoro precario, nonché sul restringimento
dei perimetri e degli spazi pubblici, come pre-condizione per la completa
liberalizzazione/privatizzazione delle attività pubbliche. È la fine del
welfare, in ossequio alle direttive del Presidente della BCE Draghi, che il
24.02.2012 dichiarava al ‘Wall Street Journal’ che: “Il modello sociale
europeo deve scomparire”. E infatti con questa spending review il governo Monti
spalanca ancor di più le porte alla voracità e all’ingordigia dei capitali
privati delle Banche d’affari (delle quali diversi membri del
governo erano esponenti fino a qualche mese fa), a danno di settori
delicatissimi come la sanità, la scuola (
più di 10
milioni destinati ad Università non statali)
, i trasporti, sancendo il passaggio
dal diritto universale al Bancomat.

Dopo la crisi del 1929 il governo tedesco
guidato da Heinrich Brüning tagliò la spesa pubblica e produsse 5 milioni di
disoccupati. Sappiamo come finì: dopo 4 anni, nel 1933 Hitler vinse le elezioni
facendo leva sul sentimento contro le banche e dicendo che avrebbe avviato
lavori pubblici per occupare tutti…

 

 

IN
CONCLUSIONE

I
problemi europei non derivano dalla dissipatezza fiscale dei Paesi periferici,
da eccessive spese sociali, ma sono conseguenza del mercantilismo egemonista
tedesco e dello scoppio delle bolle immobiliari alimentate dai flussi di
capitali dai Paesi più forti verso Paesi periferici (Spagna, Irlanda). La crisi
si è poi scaricata da lì sulle finanze pubbliche, e qui la BCE ha avuto una
responsabilità precisa per il mancato intervento immediato a sostenerle facendo
scendere lo spread, perché il debito pubblico non costituisce un problema con
bassi tassi di interesse, che sono venuti a mancare per la sciagurata inazione
della Bce. Come disse

il prestigioso economista Federico Caffè, se una politica sbagliata viene
condotta per lungo tempo è perché fa comodo a qualcuno. La BCE ha agito così per
ubbidire al diktat dell’elite europea di eliminare, attraverso una crisi
fiscale, welfare state e sindacati.

Si
è volutamente lasciata libera la speculazione per costringere i Paesi più in
difficoltà, come Italia e Spagna, ad approvare tagli e misure antisociali senza
precedenti.

In questo senso vanno anche le decisioni del Presidente della BCE Draghi di
sostenere in maniera illimitata i titoli di stato a breve (l’impegno italiano
nell’Esm sarà di 120 miliardi di euro!),
ma
sottoponendo i Paesi che usufruiscono degli interventi anti-spread ad un
Memorandum il quale si tradurrà in rigide politiche di
austerità

che si ripercuoteranno sull’economia reale, con tagli alla spesa sociale,
attacco ai diritti dei lavoratori e privatizzazioni, una vera “cura che uccide
il paziente!” (prof J. Stiglitz). E il Financial Times sembra non avere dubbi
che l’Italia chiederà gli “aiuti” europei entro l’anno, delegando le politiche
economiche al pesante commissariamento della troika BCE-UE-FMI, il che
toglierebbe all’Italia ogni sovranità economica, rendendo impossibile cambiare
politiche da parte di un nuovo governo di centrosinistra e quindi praticamente
inutile votare alle elezioni. Lo stesso discorso vale per l’acquisto di
emissioni da parte della BCE, che sarà a 1 o 2 anni appositamente per alleviare
un po’ la situazione debitoria del Paese che beneficia di questo intervento ma
lasciando alta la pressione sui governi affinché realizzino drastiche politiche
antisociali. L’interpretazione falsa della crisi come crisi dovuta
fondamentalmente alla spesa pubblica, è stata utilizzata (v. prof. P. Krugman)
dalle classi dominanti dei Paesi periferici per colpire i diritti sociali
formali e sostanziali

e smantellare ciò che ancora rimane delle riforme realizzate negli anni ’70 a
tutela dei lavoratori e, più in generale, della sicurezza sociale
.
Come ha scritto anche
l’economista
conservatore, il “Nobel” Mundell,
“l’unione monetaria è lotta di classe con altri mezzi”.

currency union is class war by other
means”.

Tutto
ciò accade
(v.
prof. P. De Grauwe)
tramite
cessione di sovranità nazionale
ad
un sistema di Trattati e di Istituzioni non soltanto avulse, sostanzialmente,
dall’ambito della rappresentanza democratica, ma addirittura dominanti su di
essa, come la Banca Centrale Europea, 
la Commissione europea, il Consiglio Europeo, una vera e propria
oligarchia che detta legge senza alcuna legittimazione democratica e
prevarica
la volontà dei popoli

non essendo mai stata eletta da nessuno. E così in alcuni Paesi come l’Italia si
fa strada

l’idea del superamento della democrazia parlamentare per affermare invece il
progetto di una nuova oligarchia fondata sulla cosiddetta “democrazia di
competenza” in cui i soggetti politici avrebbero solo il compito di raccogliere
il consenso popolare a favore dell’élite dominante, con un Parlamento utilizzato
in funzione di mera ratifica.

Ci
vorrebbe invece una politica in grado di prendere decisioni finalizzate ad un
efficace cambiamento della situazione in senso democratico, progressista,
trasparente, solidale ed egualitario; una politica che

in particolare sappia
organizzare
una revisione della spesa in modo da farne un piano economico volto a
riorganizzare il bilancio dello Stato per spostare risorse da certi settori ad
altri, in grado così di sostenere la domanda effettiva.

Ci
vorrebbero
economisti in grado
di comprendere il fallimento del neoliberismo e delle politiche di austerity;
economisti che in particolare non considerino tutto ciò che è pubblico uno
spreco di per sé, ed analizzassero invece la spesa pubblica come strumento
indispensabile
in tempo di
crisi
per la ripresa
economica,
la produzione di
beni e servizi necessari per
accrescere benessere, coesione
sociale, occupazione e
uno
sviluppo equo e sostenibile.

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