Home > LA GUERRA COME AFFARE
di R. A. Rivas
Cos’è l’affare della guerra? E per chi si tratta davvero di un affare?
La risposta più scontata è che “la guerra è l’affare del complesso militar industriale
dei paesi sviluppati”. Una risposta corretta ma troppo semplicista, inesatta
perché incompleta. In termini descrittivi e realistici si potrebbe invece dire
che, la guerra è l’affare di quanti sanno trarre redditività economica dall’uccidere
e mutilare, fisicamente, psicologicamente e spiritualmente.
In questo senso, ad esempio, penso possa essere utile ad ognuno di noi chiedersi
come abbiamo vissuto davanti al video i recentissimi fatti di Falluja? Forse,
azzardo, in modo distratto, perché bisogna pur continuare a vivere decentemente?
Solo che, ad adocchiare la stampa internazionale (fatta salva la maggior parte
di quella italiana), ci si accorge che osservatori, corrispondenti e testimoni
sul territorio l’hanno concordemente definito come un genocidio militare di caratteristiche
inedite.
Nel novembre 2004, ad esempio, le agenzie russe Interfax e RIA-Novosti, hanno
diffuso uno studio d’esperti militari secondo i quali i bombardamenti massicci
realizzati dall’aviazione statunitense a Falluja hanno superato, per devastazione
e distruzione, qualsiasi altro bombardamento della storia moderna, tanto da uccidere
persino una parte degli stessi soldati USA posizionati nelle vie e labirinti
della città.
Falluja, infatti, fino il giorno prima una città di 300.000 abitanti, è stata totalmente distrutta, letteralmente demolita da missili, artiglieria terrestre e "bombe intelligenti". Distrutta la sua infrastruttura elettrica, il suo sistema d’acqua potabile, le sue vie di comunicazione terrestre. Non c’è più cibo, l’aria è stata contaminata dagli effetti dei bombardamenti e dei cadaveri putrefatti ed i sopravvissuti sono stati costretti a restare chiusi, impilati. Anche i pochi corrispondenti occidentali che si trovavano nell’area hanno raccontato che la maggior parte dei feriti è morta, tirata e dissanguata sulle strade, per mancanza di cure mediche. Che, nelle poche strutture ospedaliere rimaste in piedi, bambini, donne e anziani vittime dei bombardamenti sono morti per le infezioni dovute alla mancanza d’antibiotici. Hanno descritto bande di cani che si mangiavano i cadaveri abbandonati per strada... Ovvero, tutti loro dicono che a Falluja è avvenuto un massacro annunciato, una strage sproporzionata, uno sterminio militare. Che è stata violata ogni regola, norma o principio umano. Che è stato molto peggio di una qualsiasi strage dell’epoca delle caverne, perché l’autore del genocidio disponeva di una schiacciante superiorità tecnologica, di un sofisticato sistema medico per curare i propri feriti e di una struttura logistica e alimentare che lo rendevano quasi invulnerabile. La Croce Rossa Internazionale ed altre organizzazioni hanno denunciato la crisi umanitaria e gli incontrollabili focolai d’epidemie e raccontato di gente che ha iniziato mangiando radici e ha finito divorando i propri animali domestici... Si potrà anche osservarla distrattamente, ma questo è la guerra, non le fotografie di bei militari in divisa che osservano la passeggiata di qualche autorità di governo in visita lampo, non le mappe del “teatro operativo” alla Vespa, non gli aerei dell’ultima generazione in bella mostra.
Comunque, non è ozioso ricordarlo, tutto ciò malgrado, sul “New York Times” e il “Washington Post”, soldati ed ufficiali USA hanno riconosciuto che non sono riusciti a finirla con "gli insorti", ripiegatisi e atomizzatisi invece in piccoli gruppi che “continuano a combattere come demoni". E, sempre il quotidiano newyorchese, si chiede in un editoriale della fine novembre 2004: “Che cosa può ancora fare Bush? Trasformare il resto delle città irachene in altrettante Falluja?” “Fino quando il Pentagono potrà continuare a nascondere i morti e mutilati alla società statunitense?” Quanto aspetteranno i media e l’establishment contrario a Bush per ritornare sulla “sindrome del Vietnam”? “Quanto tempo dovrà passare ancora prima che Francia, Russia, Cina comincino a chiedere sul serio che Bush lasci l’Iraq?” “E quanti altri marines ed iracheni dovranno ancora morire prima che la sinistra e le organizzazioni sociali comincino a bruciare nordamericane in tutto le città del mondo per esigere tale ritiro?” Domande e preoccupazioni assai diverse dalle asfittiche preoccupazioni dei progressisti italiani, in genere classificabili sotto la voce “non disturbare il/i manovratore/i”. Dicono si tratti di politica. Ma torniamo a noi.
Gli attori che, a livello internazionale, sanno trarre redditività dal conflitto bellico, sono molteplici. Nel gruppo possono segnalarsi aziende della più diversa natura. Alcune, tipo Lockheed Martin, Textron y Northrup Grumman, si dedicano agli armamenti d’alta tecnologia. Altre, come la britannica Sandline International o la sudafricana Executive Outcomes - oggi inattive dopo aver fatto scuola - si dedicano sia alla vendita di “servizi militari” (consulenza e formazione), sia all’affitto di personale paramilitare (e cioè, basicamente, di mercenari). Tramite l’Iraq e l’Afghanistan, i gruppi più distaccati di questo comparto, tipo Blackwater, la L3 (che ha acquistato la notissima MPRI) e la CSC (che ha acquistato la non meno popolare Dyncorp), sono arrivati ad acquisire una macabra rilevanza. Ma anche altre società di natura parassitaria hanno fatto dello spargimento di sangue un modus vivendi. Ad esempio, tra le aziende che più sorridono davanti all’aumento dei morti ammazzati, si trovano quelle specializzate nel “fare lobby legislativo per gli interessi politico-militari”. E neppure i mass media sono stranei a questa dinamica. Anche perché, dopotutto, è indubbio che le dichiarazioni di guerra innalzino più gli indici d’ascolto degli accordi di pace. Come a Falluja, la grande stampa internazionale si limita ormai a presentare gli aneddoti, non le notizie, usando l’informazione proveniente dai portavoce militari, operazione utile in questo caso a nascondere sia il massacro che i cadaveri dei soldati statunitensi, in piena sintonia con il Pentagono (fatteci caso: sembra che muoiano solo poliziotti iracheni). Tutti quanti, la lista non è esaustiva, fanno parte del gruppo di “quelli che danno un senso all’affare della guerra”.
“Le guerre si combattono per le risorse, in questo risiede il nocciolo di questo affare”, ha scritto recentemente lo studioso statunitense Michael T. Klare su “Le Monde Diplomatique”. Affermazione indubbiamente vera, le guerre hanno sempre seguito questa logica.
Extraufficialmente si sa che la maggiore compagnia diamantifera del mondo, la de Beers, finanzia attraverso oscuri collegamenti una serie di movimenti d’insorti africani. Finanzia, ad esempio, il Revolutionary United Front (RUF) della Sierra Leona, o l’Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola (UNITA). L’accordo tra le parti si basa su semplici principi commerciali: poiché il RUF o l’UNITA controllano le regioni e le miniere di diamanti, la de Beers paga al nuovo proprietario del territorio una commissione per ogni chilo di minerale estratto. In seguito, il minerale viene tagliato a Mosca, Anversa o Israele, prima di essere introdotto sul mercato internazionale, soprattutto sulle piazze di Londra e Amsterdam.
Lo stesso accade pure nell’ex Zaire, ma se in questo caso non si tratta principalmente dei diamanti ed i protagonisti sono altri, visti assai meglio da tutti noi. Noi si, perché in questo caso, pur se sommerse nel mercato della telefonia mobile, simbolo della nostra modernità, alcuni gruppi tipo Nokia, Ericsson e LG (nonché le altre aziende del settore, o quelle che fabbricano play-station o aerei), hanno trovato il tempo per fare una scommessa, ognuna la propria naturalmente, sulle diverse fazioni che si combattono nella Repubblica Democratica del Congo per il controllo del Coltan (minerale di tantalite), un minerale tanto scarso e necessario nel mondo moderno che, ogniqualvolta scarseggia sul mercato internazionale, aumentano i combattimenti in questa zona, per il resto tra le più dimenticate del pianeta.
Gli esempi mi servono per affermare che, chi crede che la guerra sia un affare esclusivo del complesso militar industriale, sbaglia di grosso. Ovvero, che fabbricanti di articoli militari, fornitori di personale paramilitare, organizzatori di lobbies, mass media, gioiellieri e fornitori di telefoni cellulari hanno trovato, tutti, direttamente o indirettamente, delle ottime ragioni per permettere e/o propiziare la realizzazione di stragi nauseanti. Questo e non altro è l’affare della guerra. Un affare grande, tondo, con molte facce. Le “nuove guerre”, e cioè le guerre di oggi, sono il risultato di una combinazione tra le violazioni sistematiche dei diritti umani, la scomparsa del confine tra il civile ed il militare e l’ingresso in forza del crimine organizzato. Come accade per il Coltan, nemmeno i diamanti, l’acqua ed il petrolio sono lontani da questa realtà del mondo contemporaneo.
L’80% dell’energia globale deriva dagli idrocarburi. E’ un’ottima ragione - pur se non sufficiente, bisogna aggiungerci gli elementi propri della concezione imperiale statunitense - per spiegare il perché delle guerre in Afghanistan (gas) ed Iraq (petrolio). La democrazia c’entra assai poco e, come nei casi precedenti, la logica è semplice e brutale: se scarseggiano gli idrocarburi, bisogna procurarseli a qualsiasi prezzo, e cioè, letteralmente, a sangue e fuoco, essendo ormai superati i bei tempi in cui gli indigeni consegnavano le loro terre in cambio di una medaglia, di un cappello a bombetta, di uno specchio o di una bottiglia d’acquavite a buon mercato. Per lo stesso motivo risulta così esplosiva la situazione nel Caucaso (Azerbaijan, Georgia e Armenia) per ora ancora affidato al proconsole Putin. Perciò da Washington si destabilizzano con diversi pretesti, il Venezuela, il Messico, la Nigeria, l’Irán, l’Indonesia, la Palestina. Perché per una potenza come gli Stati Uniti, alla quale rimangono riserve petrolifere solo per 10 anni, l’energia è tutto. Senza la guerra non ci sono né petrolio né affari. E senza questi due, è scontato, non c’è neppure la “superpotenza unica”.
Non è una novità per nessuno il coinvolgimento diretto della famiglia Bush negli affari legati al petrolio. Più interessante ricordare invece qualcosa sulla biografia dell’Arbusto Company - poi ribattezzata Bush Exploration- ovvero la società diretta dall’attuale presidente statunitense. Ricordare, ad esempio, che la società andava assai male dal punto di vista finanziario dopo lo choc petrolifero del 1973, fino al 1986, quando venne acquisita dalla Harken Energy Corporation, società appartenente allo sceicco saudita Abdulla Bahsh, il cui banchiere - bin Mafuz - era fratello di una delle moglie di un tale Osama bin Laden. I Bush, padre e figlio, resteranno soci in affari della famiglia bin Laden fino a poco tempo prima del 11 settembre. Il che rende assai ridicoli alcuni commenti giornalistici, della TV pubblica italiana ad esempio, secondo i quali il Sudan sarebbe uno “stato canaglia” perché ha ospitato bin Laden... nell’epoca in cui costui era non solo un uomo della CIA, ma pure socio del presidente in carica (Bush padre).
Bush capo indiscusso dei guerrafondai? Il maggiore interessato all’affare della guerra?... Ahimé, ci sono pure altri interessati. Forse addirittura peggiori di W.
Infatti, la verità è che, mediocre com’è, George W. Bush ha il profilo del presidente perfetto per le grandi corporation. Fanatico, non particolarmente brillante, alcolista non riabilitato, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha tutti i requisiti richiesti dal governo imprenditoriale: ignorante non conscio della sua condizione, facile da manipolare, facile da ingannare, facile da ricattare, facile da dirigere. Ma, proprio per tutto questo, assai adeguato per le grandi corporation.
Governa davvero George W. Bush? Non è così scontato. E non solo perché gli Stati moderni sono realtà assai complesse. Ma anche, ad esempio, perché il vicepresidente Dick Cheney - ex capo di Halliburton - ha certamente ottenuto una maggiore redditività personale e corporativa dalle guerre del nuovo secolo imbastite dal suo capo. Come Condolezza Rice, arrivata alla cuspide imprenditoriale nella Chevron-Texaco, la compagnia petrolifera che ha battezzato col suo nome una nave cisterna. L’uno e l’altra sono fanatici tanto quanto il loro capo, ma sembrano più intelligenti; sono ugualmente crudeli, ma forse più astuti dal punto di vista imprenditoriale. Comunque sia, il presidente appare circondato dagli uomini delle grandi corporation che, assai meglio di lui, sanno ciò che fanno e ciò che rappresentano, Si potrebbe proseguire enumerando personaggi, ma Dick Cheney-Halliburton fornitrice di “articoli e servizi militari”, Condolezza Rice-Chevron-Texaco, sono due esempi raffinati di ciò che significa “l’affare della guerra”.
Diceva Sun Tzu, che “ogni guerra si fonda sull’inganno”. Gli interessi corporativi si riconoscono più coi membri del suo gabinetto che col presidente stesso? Non è importante, anche perché così “i nostri maggiori rappresentanti nel governo” vengono risparmiati. Il presidente non è proprio un aquila? Che importa. Gli si può creare l’immagine di gran leader (dopotutto, ogni popolo ha - e mantiene - il governo che si merita). Il presidente aveva rapporti economici e imprenditoriali con Osama bin Laden? Non è importante, una volta scatenati i cani della guerra, tutto ciò finirà nel dimenticatoio...
Tuttavia, il fronte interno non è l’unico fronte. L’inganno deve funzionare anche fuori. Neanche questo è importante. “La prima vittima della guerra è la verità”, disse Winston Churchill. Che aggiunse: “In tempi di guerra, bisogna proteggerla (la verità), affidandola ad un guardaspalle di bugie”. Infatti, l’impunità del massacro militare statunitense a Falluja si spiega solo per la complicità della stampa internazionale ed il silenzio legittimante dei governi e organizzazioni internazionali.
Se la battaglia legata alla percezione della realtà é valida anche nel fronte esterno, la creazione dell’immagine del nemico per giustificare l’aggressione implica complessi meccanismi di controllo del pensiero. In qualsiasi società quantomeno formalmente democratica, la propaganda, la manipolazione sociale e del pensiero sono indispensabili per far progredire l’agenda di quelli che governano davvero (non è così nelle dittature, dove basta che la gente obbedisca). Ovvero, l’isteria paranoica è una componente fondamentale. Berlusconi afferma che “il ritorno al governo dell’Ulivo porterebbe terrore, morte e miseria”. Il suo mentore, George W. Bush, ha convinto il suo popolo - e non solo - che i talibani, Saddam Hussein e bin Laden avevano collegamenti stretti, sia tra loro che con l’attentato del 11 settembre, malgrado esistessero prove incontestabili del contrario: bin Laden aborriva Saddam Hussein, Saddam Hussein non ebbe alcun rapporto con l’11 settembre e non è mai stata provata la responsabilità dei talibani negli attentati contro Washington e Nuova York. Così come Ronald Reagan aveva giustificato tutto (i contras ed il traffico di droghe, ad esempio) essendo riuscito a terrorizzare i suoi connazionali con la minaccia comunista emisferica rappresentata dal regime sandinista del Nicaragua, Bush ha cancellato completamente la traccia che lo unisce a bin Laden, per condensare nel suo antico socio tutti i mali di questo mondo.
Per generare l’immagine del nemico, si utilizzano i meccanismi della semiotica e dell’ingegneria della percezione. Servono per giustificare le guerre, guerre che portano risorse e affari. Esce sangue ed entrano dollari, questa, solo questa, è la dinamica delle corporation della guerra e dei loro rappresentanti nel governo. A Cesare ciò che è di Cesare: in questo quadro, George W. Bush è solo una pedina. Probabilmente quella giusta. Anche per questo è stato rieletto. Si potrebbe ripetere ancora una volta: non ci sono sorprese, ma solo sorpresi.
R. A. Rivas
Città di Castello, gennaio 2005