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La rivolta sunnita, non vota un terzo dell’Iraq

Publie le lunedì 31 gennaio 2005 par Open-Publishing
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Dazibao

di Toni Fontana

Con la vittoria sciita alle elezioni che si sono svolte ieri si compie e si completa il «ribaltone», per dirla in italiano, iniziato a Baghdad il pomeriggio del 9 aprile 2003 quando, trainata da un carro gru dei marines, venne abbattuta la statua di Saddam Hussein e, con essa, la dittatura. Poche ore dopo migliaia di sciiti affollarono festanti le vie della città sante, Najaf e Karbala, ponendo fine all’epoca dell’ esclusione e della clandestinità imposta dal raìs. Quella di Saddam era prima di tutto una «dittatura etnica», della quale il «clan di Tikrit» era un pilastro decisivo, ma non l’unico. Etnicamente puri erano l’esercito, ed in special modo la Guardia repubblicana, gli apparati statali e dell’industria petrolifera. Questa caratteristica era diventata ancor più marcata dopo la repressione delle ribellione sciita (e curda) seguita alla sconfitta in Kuwait (marzo 1991).

Tra i pochi iracheni che festeggiarono la caduta della statua di Saddam vi era anche il losco faccendiere Ahmad Chalabi, ricercato dall’Interpol per bancarotta e foraggiato per decenni dalla Cia. I primi due amministratori americani, Garner e quindi Bremer, su «consiglio» di Rumsfeld, si fidarono ciecamente di Chalabi che promosse una purga di stile staliniano compilando di suo pugno le liste dei funzionari da cacciare. Vennero sciolti l’esercito e la polizia e vennero decimati gli apparati statali. In poche settimane 500mila sunniti, la classe eletta ai tempi di Saddam (anche se non mancarono “pentiti” e trasformisti), venne allontanata dagli apparati.

La conseguenza di questa politica intrapresa dagli americani fu che almeno due milioni di persone vennero ridotte in miseria. Questi fatti, che risalgono al 2003, vanno ricordati in quanto spiegano perché ieri milioni di iracheni non sono andati a votare non solo perché ricattati dai tagliagole di Al Zarqawi, ma anche perché la scelta di escluderli è stata decisa al tavolino dagli occupanti. Da quando a Falluja e negli altri centri sunniti è scoppiata la rivolta, il comando Usa ha puntato esclusivamente sulla soluzione militare ordinando campagne via via più massicce come quella che, nel mese di novembre, ha condotto alla distruzione e alla rioccupazione di Falluja. Tutti i tentativi negoziali, abbozzati anche dal premier Allawi, sono stati soppressi sul nascere dai comandi americani.

Il fatto che la guerriglia abbia continuato ad agire è la riprova del fallimento della strategia della «terra bruciata» perseguita da Bush. Ora, dopo la vittoria sciita, tra i tanti sviluppi che si possono ipotizzare per il futuro dell’Iraq, due appaiono i più probabili: la guerra civile generalizzata o l’avvio del negoziato con quella parte dei sunniti che appare in grado di trattare.

La seconda ipotesi appare la sola in grado di scongiurare la prima. Non è infatti pensabile che il nuovo parlamento eletto ieri definisca una costituzione senza l’apporto di un terzo del paese. Ben difficilmente accetteranno un negoziato i veri registi della lotta armata, come Izzat Ibrahim al Douri, per decenni al fianco di Saddam, l’unico membro della «cupola» del regime baathista riuscito a sfuggire alla caccia degli americani. Questi ultimi, veri «tutori» degli equilibri iracheni ancora per chissà quanto tempo, non permetterebbero inoltre la riabilitazione di esponenti di primo piano del clan del raìs.

Un’altra figura del passato regime in libertà è Saadum Hammadi, già ministro degli Esteri poi caduto in disgrazia e nominato presidente del parlamento (una carica pressoché simbolica ai tempi del raìs). Gli americani non lo hanno arrestato e non lo hanno inserito nella lista dei ricercati. Hammadi è poi sparito, forse in Giordania. Potrebbero invece essere coinvolti nella trattativa i capi tribali della provincia di al-Anbar (che comprende Falluja e Ramadi) come Majid e Amir Salman.

In Giordania si trovano anche alcuni ex-ambasciatori (in Egitto, Siria e Bahrein) e personalità come Qais Aref, figlio dell’ex presidente Abdul Rahman Aref), Hassan al-Bazaz (fratello dell’ex premier Abdul Rahman al Bazaz), l’esperto militare Abdul Wahab al-Kassab e Zuhair al Doulaimi, ritenuto un baathista moderato. Sia il premier Allawi che il presidente Al Yawar, sunnita, hanno avviato negli ultimi mesi contatti con questi dirigenti, attualmente in esilio. Nella dirigenza irachena vi è dunque la consapevolezza che solo il negoziato può scongiurare lo scontro finale e all’ultimo sangue tra le diverse anime della comunità irachena.

http://www.unita.it/index.asp?topic_tipo=&topic_id=40589

Messaggi

  • IRAQ: DEMOCRAZIA E’ FATTA?

    I risultati delle elezioni irachene sono ancora incerti e lo saranno probabilmente per sempre. Non sapremo mai se i partecipanti al voto sono stati veramente il 50% degli aventi diritto, come affermano i comunicati della commissione elettorale, o meno, o più. L’assenza totale di osservatori indipendenti e la mancanza di contraddittorio tra i partecipanti non consentirà mai di accertare la veridicità di queste cifre. Ma qualunque sia stato il vero numero degli elettori e chiunque sarà dichiarato vincitore di questa competizione elettorale, il risultato non cambia: il progetto di divisione del paese è andato in porto.

    Il governo Bush, in difficoltà nella gestione dell’occupazione dell’Iraq, è riuscito a mettere gli iracheni l’uno contro l’altro, fino a portarli sull’orlo della guerra civile. Per questa via intende legittimare la permanenza, a tempo indefinito, delle basi militari statunitensi. E di grande aiuto in questo progetto sono stati i tagliagole di Al Zarkaawi. Resta il fatto di fondo: in base ad una legge che gli iracheni non hanno mai avuto la possibilità di discutere è stato nominata un’assemblea costituente che non comprende una parte significativa della società irachena, non è da essa riconosciuta e, quindi, per definizione, non può essere costituente.

    Si infrange probabilmente oggi il sogno iracheno di poter essere uno stato democratico: a chi possiede un terzo delle riserve petrolifere del mondo non è mai stato consentito di essere democratico.

    Si infrange qui l’illusione che alla guerra potesse seguire la pace.

    Chi pagherà questo sarà la gente dell’Iraq, che oggi ha dimostrato di sognare la democrazia.

    Tra le vittime dell’occupazione statunitense da oggi vi è anche la coesione nazionale. Nasce quindi oggi un nuovo fondamentale compito per chi ama la pace: la ricerca del dialogo tra le componenti della società, della conciliazione e dell’unità del paese nelle sue molteplici componenti, che scongiuri la guerra civile e permetta all’Iraq di riconquistare la sovranità.

    Saprà la piccola e pavida Europa farsi carico di questo compito?

    http://www.unponteper.it/article.php?sid=1127&mode=thread&order=0&thold=0