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Martone su Europa di Pace...

Publie le venerdì 2 luglio 2004 par Open-Publishing

MARTONE (Verdi-U). Signor Presidente, vorrei cogliere l’occasione, in apertura del mio intervento, per ricordare una persona venuta meno la settimana scorsa, che ha rappresentato molto per il mondo pacifista e per tutte quelle realtà che hanno cercato negli anni di costruire alternative ai conflitti, affinché la società civile potesse svolgere un ruolo di primo piano, come specificherò anche nel mio intervento. La scorsa settimana la scomparsa di Tom Benettollo, presidente dell’ARCI, è stata per noi un colpo veramente duro. Reputavo molto importante ricordarlo oggi proprio perché stiamo discutendo di un tema che è stato al centro del suo impegno pluriennale e dell’impegno dell’associazione di cui è stato presidente.

La discussione che si sta svolgendo qui oggi giunge di fatto piuttosto tardiva, poiché la Costituzione europea è già stata approvata e quindi abbiamo poche possibilità di incidere formalmente con l’inserimento, come raccomandato nella nostra mozione, del dettato dell’articolo 11 della nostra Costituzione nel testo della Costituzione europea.

Si rischia, in effetti, di svolgere una discussione di puro carattere accademico. Ritengo però che questo non sia il caso, perché abbiamo l’opportunità di rivolgere, soprattutto al Governo e alla maggioranza, una serie di suggerimenti e sollecitazioni che riteniamo opportune e fondamentali per fare un salto di qualità e passare dalla mera enunciazione simbolica del ripudio della guerra ad una politica europea che faccia del rifiuto della guerra un’opzione praticabile, efficace ed effettiva. Quindi, il mio intervento sarà soprattutto orientato verso questo obiettivo.
Riteniamo che, per essere coerente con un impegno di ripudio alla guerra, l’Europa debba mettere al centro della sua azione politica modelli innovativi per la prevenzione diplomatica dei conflitti, per comprendere finalmente i circuiti virtuosi che possono essere innescati da politiche commerciali eque, strategie di cooperazione allo sviluppo e di sostegno ai processi di dialogo e di democratizzazione nei Paesi.

Ad oggi su questo campo l’Unione ha fatto molti passi in avanti, riconoscendo il nesso che esiste tra povertà e conflitti e l’importanza di integrare la prevenzione dei conflitti in tutte le sue iniziative, in particolare nelle politiche di lotta alla povertà e di cooperazione allo sviluppo.

Tuttavia, molto ancora resta da fare. Da una parte, infatti, esiste la tendenza degli Stati membri ad agire al di fuori dell’Unione Europea qualora lo ritengano maggiormente in linea con i propri interessi nazionali (si vedano due casi su tutti: quello dell¹Iraq e quello dello Zimbabwe). Dall’altra, l’enfasi eccessiva sugli interessi nazionali emerge anche nella priorità data dalla politica estera dell’Unione a regioni di importanza strategica dal punto di vista storico, economico o di sicurezza. L’Unione, infatti, concentra tutti i suoi sforzi nella prevenzione dei conflitti soprattutto in aree ritenute rilevanti dal punto di vista strategico, come ho detto, come l’Europa sudorientale, mentre le iniziative in Africa, invece, continente dove sono concentrate la maggior parte delle guerre dimenticate, sono di gran lunga meno consistenti.

Altro impedimento riguarda la difficoltà a ottenere coerenza tra i vari pilastri dell’Unione, visto che la prevenzione dei conflitti li attraversa tutti e tre. In tal senso, riteniamo che sia urgente rafforzare il nesso tra gestione delle crisi e strategie di prevenzione dei conflitti sul lungo periodo, superando gli ostacoli burocratici esistenti nei processi decisionali e nel coordinamento delle varie attività.

Come attore globale di pace, l’Europa dovrà poi interrogarsi sulle sfide che si trova dinnanzi, sul suo rapporto con gli Stati Uniti, sul suo posizionamento in un mondo a detta di molti "multipolare", a detta di altri "unipolare" e di altri ancora "apolare", un mondo che, a prescindere dalle definizioni, noi auspichiamo sia, in un futuro non lontano, caratterizzato da relazioni internazionali basate su giustizia ed equità.
La nuova strategia di sicurezza europea, adottata nel dicembre scorso, il cosiddetto documento Solana, contiene secondo noi un’importante svolta poiché, a differenza di quanto prospettato inizialmente, rigetta le suggestioni dell’unilateralismo, della guerra preventiva e della politica di potenza, adottando una politica di prevenzione.
Il documento Solana, in tal senso, identifica cinque aree di minaccia alla sicurezza globale e regionale (terrorismo, armi di distruzione di massa, conflitti regionali, mancanza dello Stato e crimine organizzato), alle quali va contrapposto un approccio a tutto campo che attraversi le politiche di commercio, cooperazione allo sviluppo e migrazioni, ponendo enfasi sulla governance, le regole del diritto e i diritti umani. Tutto questo nella cornice di un multilateralisrno efficace e non selettivo, che non esclude la possibilità di agire qualora un Paese ne infranga le regole, però soltanto ed esclusivamente nell¹ambito del diritto internazionale.
È questa la principale differenza con i teorici neoconservatori dell’Amministrazione Bush, quale Robert Kagan, il quale afferma che l’Europa ha abbandonato l’idea del potere, la logica del cosiddetto hardpower, o politica di potenza, per praticare l’ideale kantiano di pace perpetua, nel quale quelle che gli americani intendono come minacce, per gli europei sono sfide, da affrontare con la giusta combinazione di prevenzione diplomatica, multilateralisrno, approccio politico, cooperazione e integrazione commerciale.

Secondo tale approccio, quindi, la cooperazione allo sviluppo è vista dall’Unione, nella comunicazione della Commissione sulla prevenzione dei conflitti, come uno degli strumenti più potenti a disposizione per affrontare alla radice le cause dei conflitti armati e del terrorismo.

È altrettanto importante sottolineare come oggi non esista una tipologia unica di guerra: i padri costituenti, quando scrissero l¹articolo 11, avevano in testa quella che era l¹unica modalità di guerra, quella dichiarata e combattuta tra Stati; oggi invece ne esistono, purtroppo, di varie tipologie e varie modalità, e quindi la consapevolezza di questo diverso dispiegarsi della violenza deve esistere al fine di adattare di volta in volta gli approcci di prevenzione diplomatica e non violenta e renderli efficaci ed effettivi.

Parlare oggi quindi di un ripudio generico alla guerra rischia di far concentrare la nostra attenzione soltanto sulla guerra all’Iraq, una guerra preventiva unica nel suo genere, dimenticando le altre decine di guerre e conflitti dimenticati che insanguinano il pianeta, provocando un gran numero di vittime e trascinando intere generazioni nel buco nero della violenza e della disperazione.

Esiste, ad esempio, un forte nesso tra il controllo delle risorse naturali e l’emergere di conflitti armati o guerre: un quinto delle guerre è più o meno correlato alla scarsità o all¹eccedenza di risorse naturali. Ciò ci deve esortare a non cadere nell’equivoco che la soluzione alle guerre sia maggior mercato. In alcuni casi è proprio il mercato sregolato (come nel caso dei diamanti insanguinati, del legname, delle armi, della finanza illegale) a causarle ed alimentarle.

A ciò si aggiunge la progressiva privatizzazione dell’uso della forza e dei conflitti con nuove tipologie di conflitti non più tra Stati, ma tra ed attraverso entità non statuali (mercenari, signori della guerra, compagnie di sicurezza privata) che sfuggono alle regole del diritto internazionale, come anche evidenziato nel corso degli eventi della guerra in Iraq.

A tali sfide la risposta che l’Europa deve dare deve essere chiara e inequivoca.
Da una parte, deve adottare strumenti e misure di responsabilizzazione del settore privato, soprattutto di quelle imprese che operano nel campo delle risorse naturali, sostenendo l’adozione delle norme ONU su diritti umani ed imprese, integrando criteri di prevenzione dei conflitti nelle operazioni delle agenzie di credito all’esportazione, adottando norme omogenee sulla regolamentazione e la limitazione delle attività delle compagnie di sicurezza privata e privati militari (Private Military e Private Security Companies).

Andranno costruiti strumenti efficaci ed indipendenti di certificazione obbligatoria per risorse provenienti da aree di conflitto, quali il legname tropicale, il coltan e i diamanti, giacché le misure fino ad ora prese, quali il cosiddetto processo di Kimberley, rischiano di essere inadatte allo scopo.

Dall’altra parte, ci si dovrà adoperare per il disarmo e la regolamentazione del commercio delle armi e contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa.
Come ci suggeriscono le organizzazioni non governative internazionali Saferworld ed International Alert, in un loro documento preparato per le presidenze irlandese e olandese, intitolato "Rafforzare la sicurezza globale rivolgendosi alle cause dei conflitti", diffuso in Italia dal Centro studi difesa civile, ci sono iniziative ben precise che l’Unione può assumere al riguardo e che invitiamo il Governo italiano a sostenere.

Sulle armi di distruzione di massa, l’Unione dovrà costruire una risposta di multilateralismo efficace, attraverso norme di diritto internazionale, l’efficacia delle quali passa attraverso regimi di controllo volti ad impedire l’acquisizione e lo sviluppo di armi da parte di Paesi "a rischio" o di gruppi terroristici, e riducendo gli incentivi per gli Stati per acquisire armi.

L’Unione ha, in quanto produttrice leader di armi su scala globale, una responsabilità particolare nel mettere a punto strumenti di controllo delle esportazioni di armi, a maggior ragione dopo l’allargamento a Paesi, quelli dell’Europa Orientale, che hanno normative carenti al riguardo che permettono quindi spesso e volentieri il traffico illegale di armi verso aree di conflitto. Tra l’altro, l’Unione dovrebbe adottare una strategia comune sulle armi di distruzione di massa che contenga misure di regolamentazione del commercio di tecnologie dual use, controlli all’esportazione, controlli alla frontiera e rafforzamento dei regimi multilaterali di ispezione esistenti, quali quelli previsti dalla Convenzione sulle armi chimiche e quella sulle armi biologiche e batteriologiche, sostenendo inoltre il Trattato sulla non proliferazione nucleare e quello contro i test nucleari oggi a rischio.

Sul commercio di armi, l’Unione Europea si è dotata di un codice di condotta sull’esportazione di armi. Tuttavia, tale codice presenta criteri talmente ambigui da pregiudicarne l’efficacia e richiederne quindi una profonda revisione, urgente soprattutto a sette anni dalla sua entrata in vigore.

Altra priorità cruciale sarà quella di adottare misure stringenti per regolamentare le attività degli intermediari che possano colmare le lacune esistenti tuttora nella Posizione comune sui controlli all’intermediazione nel campo delle armi adottata nel giugno 2003.

L’Unione dovrà essere poi più incisiva nel contrastare la diffusione delle armi leggere, quelle che Kofi Annan ha definito le principali armi di distruzione di massa, integrando questo tema nelle sue politiche commerciali e di sviluppo, e migliorando il coordinamento tra i vari Paesi donatori che sostengono programmi contro la loro proliferazione.

Un’ Europa di pace è convinta che attraverso politiche attive di costruzione di pace si possa anche a contribuire a fondare quello che il sociologo italiano Marco Revelli definisce un nuovo "paradigma politico", che presuppone un "ridimensionamento dell’enfasi sui mezzi di potenza", rinviando alle categorie di "relazionalità" ed "orizzontalità". Questa "subpolitica" può essere intesa come configurazione di società dal basso "secondo linee e strumenti che rompono con le logiche ed i metodi della tradizionale politica statuale, prendendo atto del fallimento delle sue logiche e dei suoi metodi di fronte alle sfide ed ai rischi della società globale".
Significherà quindi riconoscere, anche dal punto di vista politico-operativo, a quei soggetti che un altro sociologo tedesco, Ulrich Beck, chiama della politica della "seconda modernità", un ruolo cruciale per la costruzione di un modello di pace attiva e di prevenzione dei conflitti. Pratica già proposta con i Corpi civili di pace.
Importanti in quest’ottica sono le proposte contenute nel Programma d’azione di Dublino sulla prevenzione dei conflitti violenti adottato dalla Conferenza europea sul "Ruolo della società civile nella prevenzione dei conflitti armati", tenutasi nella capitale irlandese alla fine del marzo scorso. Le organizzazioni della società civile possono infatti svolgere un ruolo fondamentale nel promuovere quello che in quella piattaforma viene definito un "passaggio di paradigma dalla reazione alla prevenzione e ad una trasformazione non violenta dei conflitti". Ciò sarà possibile generando una cultura della prevenzione e della pace, per la quale è necessaria una nuova alleanza tra società civile, Governi ed organizzazioni internazionali.

Vorrei svolgere un’ultima considerazione riguardo al tema delle spese militari e del bilancio dell’Unione. In un suo importante saggio dal titolo "Le nouveau désordre mondial - Reflexions d’un Europeén" il sociologo bulgaro Tzvetan Todorov, parla di Europa come "potenza tranquilla" (puissance tranquille), il cui "budget militare non dovrà allinearsi a quello degli Stati Uniti". In questa prospettiva, nella quale una buona parte di noi si riconosce, piuttosto che aumentare le spese militari si dovrebbe svolgere il percorso inverso, in sostegno ad un modello di Europa che nella sua mission dovrà privilegiare la sicurezza sociale, la cooperazione e la solidarietà, al suo interno ed al suo esterno. Per questo non possiamo non riaffermare la nostra netta opposizione a quelle proposte volte a scorporare le spese militari dai vincoli del Patto di stabilità a discapito delle spese sociali o di altri settori considerati economicamente improduttivi.

Sarebbe invece imperativo, a nostro avviso, il contrario, ovvero che siano le spese sociali, per il welfare, per la riconversione dell’industria bellica ed il disarmo, per la cooperazione e la solidarietà internazionale a doverne essere escluse. Giacché riteniamo che questi siano gli strumenti fondamentali per dare forza ad un¹Europa "potenza mite", che sfugge le suggestioni muscolari e vuole rendere operativo ed efficace il proprio ripudio alla guerra, andando alle cause dei conflitti e delle guerre e del terrorismo, nel contempo costruendo una strada di prevenzione e gestione non violenta dei conflitti e delle crisi, che sia una pratica strategica e non soltanto limitata ad una semplice assenza di violenza, fondata sulla centralità del diritto e dei diritti umani e civili al suo interno e su scala globale.