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Modena, 9 gennaio 1950: l’eccidio delle Fonderie

Publie le mercoledì 12 gennaio 2005 par Open-Publishing

Dazibao


Furono sei gli operai uccisi dai celerini durante una manifestazione contro
i licenziamenti. Adesso il comune pubblica un volume commemorativo


di Pierpaolo Ascari

Che le cose si possano mettere male, a Modena, la mattina del 9 gennaio 1950, è nell’aria.
Vuoi perché sono diversi mesi che con la sconfitta del Fronte Popolare da Roma
vogliono arrivare a una resa dei conti. Vuoi per le brutte voci che nelle ultime
ore hanno cominciato a circolare negli ambienti della Fiom. Vuoi pure per scaramanzia,
perché è passato esattamente un anno da quel 9 gennaio 1949 in cui molti lavoratori
sono tornati a casa dalla manifestazione contro le fonderie Valdevit con la testa
rotta. Figuriamoci se non si mettono male le cose, con tutto il bendidio di celerini
e carabinieri che da qualche giorno piantonano gli angoli della città. Sono di
qua, ma anche di Bologna, del Veneto, del Friuli e della Toscana.

Lo sanno anche alla Camera del lavoro che tira una brutta aria. Prima che gli operai escano di casa una delegazione sindacale si reca ancora una volta dal prefetto, che si chiama come una signorina e che autorizza l’uso di piazza Roma per il comizio. Ma è una parola, poche ore dopo, raggiungere la piazza perché i blindati bloccano tutte le strade tranne quella che conduce al passaggio a livello delle Fonderie Orsi. Le sbarre sono calate: da una parte si radunano gli operai, dall’altra un cordone di poliziotti con l’elmetto e i fucili al collo. Come si può osservare dalle immagini di repertorio contenute nel volume commemorativo curato da Filippo Lamberti e pubblicato in questi giorni dal Comune di Modena, alcuni agenti si sono già appostati sul tetto della fabbrica. Che la mattina del 9 gennaio 1950 le cose si stiano mettendo male non è un mistero per nessuno, quindi, ma nessuno si immagina che prima di mezzogiorno sei operai moriranno ammazzati. Sono Angelo Appiani, Alberto Rovatti, Renzo Bersani, Arturo Chiappelli, Ennio Garagnani e Arturo Malagoli.

Eppure, alle dieci, non ci sono dubbi sul fatto che lo sciopero generale di due ore indetto dal sindacato si debba fare. In novembre Adolfo Orsi, il padrone delle Fonderie Riunite e di diverse industrie meccaniche svezzate dal mercato di morte della guerra fascista, ha minacciato il licenziamento di 120 unità nel caso in cui la commissione interna non si adegui ai piani di "ristrutturazione" dei salari. E’ uno che non vuole avere il sindacato tra i piedi, Orsi. Quando annuncia pubblicamente la riapertura della fabbrica, all’indomani della serrata di dicembre, i posti a rischio sono diventati 250 e le domande di assunzione devono essere depositate direttamente in direzione, dove decideranno chi lavorerà ancora e chi no.

Da queste parti non è una cosa da mandare giù così, senza dire beo, con più di 70mila iscritti al Pci (in una città di 100mila abitanti), una medaglia d’oro al valore militare conquistata nel mattatoio della Resistenza e un occhio al di là dell’Adriatico. Ma è proprio per questo che quelli di Roma ci danno dentro, che hanno riscritto alla rovescia il senso e la prassi delle misure di epurazione e intendono andare fino in fondo. In città lo sanno tutti. «Non c’è industriale collaborazionista che non abbia certificati di patriottismo - scrive per esempio il giornale della federazione locale del partito - Chi ha consegnato migliaia di operai per la deportazione ha fatto in modo di salvare almeno un ebreo; chi ha intascato milioni dai tedeschi ha dato almeno 100 o 100mila lire ai partigiani. E, quel che è peggio, riesce così a commuovere e a farsi assolvere». Ciò nonostante la democrazia progressiva bisogna pur farla ed è a Roma che il sindaco si è rivolto per trovare una via d’uscita al problema delle Fonderie. A Roma però hanno passato la rogna al ministero degli interni e alla celere di Scelba: quel che si dice trasformare la materia politica in materia di ordine pubblico.

Gli agenti di polizia sono dappertutto, quella mattina. Parlano accenti diversi, si stringono nelle divise e - giurano i testimoni - devono aver bevuto parecchio. Non tutti però, qualcuno è ancora lucido. Come il carabiniere che verso le undici e trenta, dal tetto degli stabilimenti prende accuratamente la mira e spara un colpo che fa esplodere il cuore di Angelo Appiani. E uno. Quasi nello stesso momento, mentre cerca un riparo al di là del passaggio a livello, muore anche Arturo Chiappelli. E due. Adesso la polizia e i militari fanno fischiare una tormenta di lacrimogeni e i manifestanti scappano in tutte le direzioni: in via Paolo Ferrari, in via Montegrappa, verso la via Emilia o per i campi. Ennio Garagnani e Renzo Bersani vengono così freddati da un colpo alla schiena. E fanno quattro. Roberto Rovatti muore con la testa aperta dalle percosse, poi è la volta di Arturo Malagoli. Il sesto.

La prefettura, il giorno dopo, parlerà della presenza tra i manifestanti di armi da fuoco e di bombe a mano (che nessuno però ha fatto esplodere). Poi c’è la storia del carabiniere ferito, che Eliseo Ferrari, un sindacalista che in quelle ore si trova al centro fisico e politico della mattanza, racconta di aver visto capitombolare da un camion in corsa. Sulle cause del ferimento di 200 manifestanti invece, che al policlinico non sono perlopiù andati e hanno fatto bene (al Pronto soccorso scattavano gli arresti), la questione è meno controversa.

L’11 gennaio, in occasione dei funerali, la piazza in cui si sarebbe dovuto tenere il comizio autorizzato dal prefetto Laura è finalmente invasa da una folla immensa. C’è anche Togliatti, che adotterà la figlia di una delle vittime. Ci sono Gianni Rodari inviato de l’Unità e il regista Carlo Lizzani, che gira un documentario. Quando il corteo funebre passa davanti alla fabbrica maledetta non scoppia il sacrosanto finimondo che sarebbe potuto scoppiare. Poi l’eccidio delle Fonderie Orsi viene definitivamente inghiottito da un ostinato e scandaloso silenzio.

http://www.liberazione.it/giornale/050109/LB12D680.asp