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Montalbano al giro di boa

Publie le domenica 28 marzo 2004 par Open-Publishing

E’ sempre un piacere far visita ad Andrea Camilleri. Apre la porta come
avesse sospeso, appena per un momento, la “tambasìa” mattutina, quel
tempo inventato e tutto suo in cui si muove in casa senza far nulla di
particolare: uno sguardo alla copertina di un libro, una cornice da
raddrizzare, una sigaretta, due sigarette…

Poi, quando con paziente eleganza e dolce ironia riesce a districarsi
tra i cavi (abbiamo filmato questa intervista per www.arcoiris.tv), si
accomoda in poltrona per disporsi alla conversazione, lo sguardo appena
“squeto” (inquieto), come a difendersi da una cattiva notizia o una
domanda impertinente.

Negli Stati Uniti è cominciata la campagna elettorale, la guerra in Iraq
è tutt’altro che finita, ogni giorno muoiono soldati e soprattutto
civili. Lei come la vede?

E come dovrei vederla? Noi abbiamo avuto i morti di Nassiriya. L’ho
scritto prima e l’ho scritto dopo: non dovevamo andare in Iraq e
dobbiamo andarcene il prima possibile, tutta l’Italia ha reso ai ragazzi
uccisi l’omaggio che meritavano. Detto questo, mi pongo una domanda:
come mai non vedo un funerale di un soldato americano? E dire che sono
tanti. Mi è stata data una spiegazione che fa accapponare la pelle. Mi
hanno detto: “ma sai, non è che quelli sono americani-americani. Nel 90
per cento dei casi si tratta di persone che aspirano a diventare
americane”. Questo fatto mi ha spiegato tante cose. Dentro l’ignobiltà
suprema della guerra ci può essere una ignobiltà ancora peggiore, un
razzismo dentro la guerra. Accade anche quando leggo che sono stati
uccisi “tre soldati americani e alcuni civili iracheni”. Alcuni? Sì,
magari poi li contiamo, poi vediamo, adesso non ha importanza.
Non sappiamo quanti morti hanno fatto le bombe statunitensi in Iraq,
contiamo solo quelli che hanno la pelle nera ma si battono per una
bandiera di pelle bianca. Questa, inoltre, è una guerra di Pinocchio, e
andare a morire per Pinocchio è veramente pazzesco. Prendiamo la vicenda
delle armi di Saddam, trovo geniale che Colin Powell arrivi a dire che
non ce le aveva ma aveva “l’intenzione di averle”. In questo modo si dà
a tutti la liceità di ammazzare tutti.
Una frase di questo tipo significa ben altro che la guerra preventiva,
significa che posso fare la guerra ai genitori perché è probabile che il
figlio o il nipote, poi, un giorno, mi spari addosso. Siamo all’idea
hitleriana dell’ammazzare sei milioni di persone perché avrebbero potuto
danneggiare la razza. Dov’è la differenza? La guerra preventiva vuol
dire ammazzare prima. E poi, guarda caso, queste guerre avvengono sempre
in territori molto lontani da dove vivono i loro promotori.
Rappresentano mercati non indifferenti. I cattivi, Germania e Francia,
vengono esclusi dalla ricostruzione, cioè dagli affari che si fanno
sulle macerie. No, non è solo petrolio ma è l’industria delle armi che
“esporta la democrazia”.

Anche in Italia si denunciano da tempo dei veri attentati alla libertà
d’informazione. C’è una minaccia reale per la democrazia?

Ci sono quelli che dicono che non esiste un regime perché il regime ha
certe forme che questo momento italiano non ha. Altri dicono di sì. Al
mio paese si dice: “Votala cummu vo’, sempre cocuzza è”, mettila come
vuoi, resta sempre una zucchina, e sempre quel sapore ha. Il problema è
che ci sono diversi modi di “cucinare” la democrazia.
Questo è un modo abbastanza esplicito di colpirne il cuore, che è
proprio la libertà d’informazione. Non sto parlando delle diatribe con
la satira ma dell’informazione pura, semplice, elementare. C’è la
manipolazione, c’è molto controllo sui giornali, e poi c’è un controllo
quasi totale sulla televisione. Sì, è un vero pericolo. Anche perché poi
succede una cosa ancor più grave: in molti di quelli che dovrebbero
informare correttamente – per paura, per convenienza, perché “tengo
famiglia”, e per altre ragioni – scatta una sorta di autocensura che
finisce con l’essere un fiancheggiamento all’attacco alla democrazia.

Eppure ci sono state delle occasioni importanti, per esempio a Genova,
in cui si è vista la possibilità di un’informazione diversa. Centinaia
di ragazzi hanno fotografato o ripreso le scene di violenza, una sorta
d’informazione autoprodotta. E poi ci sono i mezzi di comunicazione “del
movimento”, lo scambio in internet ormai raggiunge un numero di persone
consistente. Tutto questo può costituire un’alternativa, una speranza?

Il fatto che tanti ragazzi in quella occasione avessero le loro piccole
telecamere portatili e abbiano documentato quello che stava succedendo a
Genova è stato fondamentale. Tanto è vero che quando le mie nipoti vanno
a qualche manifestazione io dico loro: “Portatevi la telecamera”. Ma il
G8 ha avuto una grandissima risonanza che ha permesso anche la
diffusione di alcune di quelle immagini, se una cosa di pari gravità
fosse avvenuta in un’altra occasione, quelle immagini non avrebbero
circolato. E’ come se io pubblicassi un libro di poesia stampandolo in
una mia tipografia e poi me lo tenessi a casa.
Il problema non è solo quello della possibilità di ripresa autonoma di
una certa situazione ma anche quello della sua diffusione. E qui casca
l’asino. Se la distribuzione, anche per un libro o un giornale, non è
capillare, se non si raggiunge più gente possibile, allora diventa
inutile. Rimane come un “caro diario”. Il discorso vale anche per
internet, non tutti ce l’hanno. Penso ai miei paesi del sud, lì è solo
un’esigua minoranza che accede a internet. Certo, è un modo futuro di
documentazione del quale ancora non possiamo conoscere gli sviluppi.
Internet consente di mandare le immagini in tutto il mondo, non solo
sulle reti Rai o Mediaset, quindi è un fenomeno importantissimo, ma
credo che oggi il fatto importante sia ancora la limitazione alla
libertà “tradizionale” dell’informazione.

Nella copertina di un recente numero di Carta abbiamo messo una cartina
dell’Europa dove sono indicati tutti i cosiddetti campi di permanenza
temporanea per i migranti. Sono molti, forse riescono a rendere l’idea
di come accogliamo le persone che arrivano da lontano…

E’ un’immagine molto impressionante. C’è un’intera Europa dietro il filo
spinato. Ho sentito uno degli esponenti di "Medici sena frontiere" che
sono andati a visitare questi centri in tutta Italia. Tre sono stati
dichiarati in stato di impossibilità di sopravvivenza. Uno era a Torino,
l’altro a Trapani, il terzo non ricordo. Questi centri, in realtà,
temporanei non sono. Le loro attrezzature vanno in malora in breve tempo
perché non sono neanche state pensate per durare. Cominciano a diventare
sempre più atrocemente simili a dei lager, ne richiamano sinistramente
la memoria.
E’ tragico doverlo dire, trovo pazzesca questa forma di irrazionale
difesa. E’ come se sotto al diluvio universale, quello leggendario, noi
avessimo tirato un telo che ripara dalla pioggia la nostra casa. Dopo di
che, attorno a noi non c’è più niente, non c’è più il mondo. Non si può
pensare di arrestare con i cavalli di frisia o con il filo spinato un
continente che si sposta. C’è per caso un geologo in grado di dire:
“Guardi, io sono in grado di fermare la deriva dei continenti, da cui
vengono i terremoti”?
Qui sta avvenendo qualcosa di simile alla deriva dei continenti. In
diverse nazioni c’è una guerra continua, c’è la fame, c’è
l’impossibilità di un avvenire, decine di bambini muoiono di fame o di
malattie infettive. La gente scappa. Scapperei anch’io, portato come il
papà di Enea sulle spalle di qualche nipote. Di fronte a questo, non
possiamo chiudere la porta. E allora saranno guai, amari, per tutti.
Come vede, non sto parlando di sentimenti di fratellanza, parlo dal
punto di vista egoistico come uno che di fronte a questo fenomeno si
domanda come riuscire a stare in pace a casa sua. E non sarà certo
blindando la porta.

Lei si definisce un “italiano nato in Sicilia” . Ma pensa davvero che
chi è nato qui debba avere una “preferenza nazionale” sulle persone nate
altrove?

Su quella priorità sono completamente sordo. Per me non si pone proprio
come problema. Non lo capisco, mi sfugge. Anzi, una nazione si
arricchisce sempre dell’apporto di persone che vengono da altri paesi e
che forse hanno una spinta interiore maggiore. E’ vero che noi italiani
siamo andati negli Stati Uniti e abbiamo portato Al Capone e altra
“bella” gente, ma abbiamo portato anche persone di ben altro livello.
Erano mosse dall’ambizione, nel senso giusto del termine, quello
dell’affermazione di se stesse in una società che le rifiutava.

Anche la storia della Sicilia è piena di esperienze culturalmente mescolate…

Amo molto i “miei” siciliani. Una volta ho avuto uno scatto di orgoglio
e ho detto che possediamo una certa dose di intelligenza, furberia, un
grado superiore – e qui forse divento un po’ razzista – proprio perché
siamo bastardi. Siamo come quei cani di strada, abilissimi a
sopravvivere in qualsiasi emergenza, mentre un cane con un bellissimo
pedigree soccombe. L’incrocio del diverso sangue che c’è stato in
Sicilia, dai normanni agli arabi, dagli spagnoli ai francesi, ha
prodotto una selezione stupenda. Come il lavoro o la produttività, anche
il “sangue misto” è una ricchezza.

Quest’anno si festeggiano molti anniversari, proviamo a commentarne due.
Uno celebrava i dieci anni dalla “discesa in campo” del Cavaliere,
l’altro quelli dell’insurrezione zapatista, quando in Messico un gruppo
di indigeni ha sorpreso il mondo inventando la prima grande protesta
contro quella che oggi si chiama globalizzazione liberista.

Sono due anniversari che si contrastano. Quello che si è celebrato
all’Eur, non vedo che importanza abbia. C’è uno pseudo-partito che ha
dieci anni di vita, per me la cosa finisce lì. Che poi ci siano fenomeni
di “sacralizzazione del capo”, non è una novità. Sono stato e continuo a
essere di pensiero comunista. Cosa vuole, quando lo vedo comparire,
circondato d’azzurro con le mani alzate, io penso di esserci già
passato. Per me è un déja vu. Quando c’era Stalin il culto della
personalità arrivava al punto che le persone stramazzavano al suolo solo
nel vederlo passare.
Parlando degli zapatisti, lei ha detto che l’insurrezione si è
verificata inaspettatamente. Dev’essere vero, allora, che da qualche
parte c’è un dio che acceca quelli che vuole perdere, perché il discorso
si ricollega esattamente ai milioni di persone che attraversano i
deserti e i mari per cercare una possibilità di sopravvivere. Ma non ve
ne accorgete? Non vedete quanti sono? Dovete vederveli comparire davanti
all’improvviso come il governo messicano vide gli zapatisti? E’ gente
che aveva più niente da perdere ma ritrovava, questo si è importante,
un’antica dignità contadina. Sembrano parole retoriche, e invece hanno
un peso materiale enorme.

Sembra un po’ paradossale, dal punto di vista della storia della nostra
sinistra, ma in molte zone del mondo, con la chiusura delle fabbriche e
la de-localizzazione della produzione, oggi gli indigeni e i contadini
sono sempre tra le prime file di coloro che si oppongono al dominio dei
mercati sulle persone. Come mai all’inizio del nuovo secolo i contadini
sono tornati protagonisti?

Posso rispondere solo per quello che provo “a pelle”. In questi primi
quattro anni del secolo c’è stato una sorta di crollo dei “castelli di
carta”, un seguito dei crolli industriali. Forse un economista potrebbe
spiegarlo con poche parole, ma si dà il caso che le industrie oggi
reggano difficilmente proprio sui libri contabili, sul dare e
sull’avere. Abbiamo avuto la Enron, in Italia abbiamo avuto la Parmalat
e la Cirio, e chissà cosa vedremo ancora.
Ricordo che tre o quattro anni fa un grande economista, Franco
Modigliani, disse che in realtà l’industria americana era truccata per
il 70 per cento. Noi abbiamo sempre avuto questo miraggio
dell’industrializzazione globale. La subalternità del mondo contadino è
una cosa che dura da tempo, è arrivata fino a farlo quasi scomparire. E
invece ora se ne sta riscoprendo la solidità, la solidità della patata
che vai a zappare e che viene fuori da lì, dalla terra. In alcune
società con un stato forte, i contadini sono potuti andare di pari passo
con gli operai. In altre, come nella nostra, anche la sinistra ha messo
l’operaio al primo posto, il contadino veniva dopo. C’era una gerarchia
che forse si sta rovesciando. Questo ritorno è come quando si squarcia
un velo e dietro si scopre che avevamo nascosto un tesoro. Ed un tesoro
di cultura, non un tesoro astratto.

Anche lei dice spesso che ha recuperato un certo linguaggio contadino, è
stato così importante?

E’ stato fondamentale. Per la capacità di immaginazione, di
rappresentazione e di espressione.

Generalmente, la nostra capacità di fare qualcosa viene chiamata
“potere”, una parola che però si associa anche all’idea di dominio sugli
altri. Lei ha indagato a fondo sul concetto e meccanismi del potere, lo
testimoniano libri come “Il re di Girgenti”, ma nella società sta
cambiando l’idea del potere?

Lei cita “Il re di Girgenti”, dove c’è un fatto storico: un contadino
che diventa re, ma lo diventa per elezione dei suoi contadini. Allora il
re rappresentava, incarnava, il massimo del potere, oggi non è più così,
c’è stato uno spostamento di ruoli. Io credo che il potere sia una sorta
di “blob”, intendo proprio quello che spunta nella sigla di “Blob”, cioè
quella massa che non si capisce bene cosa sia ma fuoriesce ovunque,
qualcosa di assolutamente indefinibile e di definibile nello stesso
tempo. Definibile, nella misura in cui il potere viene regolato dal
potere che viene assegnato; indefinibile, perché uno può travalicare
benissimo questi limiti di assegnazione e accumulare altri. Ci sono due
tipi di potere. Un potere derivato dall’assemblaggio in una persona
delle deleghe di una quantità di altre persone. Questo è un potere, se
vogliamo, anche democratico. E poi c’è il potere che dalla delega passa
a una sorta di scatto superiore negativo, che è l’agire senza delega.
Basta un niente perché un potente diventi un tiranno, in senso classico
e in senso moderno. C’era un padre della Chiesa che faceva una sottile
distinzione quando rispondeva alla domanda se sia lecito uccidere un
tiranno, un uomo di potere. La risposta era: quando il tiranno si è
imposto a forza su un popolo, è lecito; quando non si è imposto a forza
ma diventa tale per mandato del popolo, allora non è lecito. Dico questo
anche per tranquillizzare Fedele Confalonieri, che teme, alla fine del
mandato di Berlusconi, una nuova piazzale Loreto. Nessuno ha
l’autorizzazione a uccidere qualcuno che sia stato regolarmente eletto,
anche se si trasforma in un tiranno.

Veniamo a una seconda parola chiave: democrazia. Dopo l’uscita del libro
in cui affronta il tema degli abusi commessi a Genova rimase colpito
dall’affermazione di un poliziotto, ce la racconta?

In quel libro, “Il giro di boa”, l’ultimo di Montalbano, il commissario
entra in crisi per i fatti del G8. non tanto per il comportamento della
polizia, che pure lo mette molto a disagio, ma in uno scontro c’è sempre
la possibilità di ricevere e di dare una manganellata in più. Se uno, da
poliziotto, si vuole proprio trovare una giustificazione, la trova.
Quello che più mette a disagio Montalbano accade dopo la manifestazione.
Quello che lo irrita, lo indigna, lo fa pensare alle dimissioni è quel
che avviene alla Diaz, a freddo. Lì è più difficile. Quel libro ha
suscitato una quantità di reazioni, a favore e contro. C’è stato anche
chi mi ha detto: “Lei non ha nessun diritto di mettere in bocca a
Montalbano le sue idee politiche”, è un’affermazione bellissima, se
fatta all’autore, perché significa che Montalbano non è più suo, incarna
qualcosa di generale. Sui siti dove si potevano scambiare queste
opinioni c’è stato anche chi ha detto: “Scusate, ma cosa credete di aver
letto fino a questo momento, un romanzo giallo?”. E aveva ragione anche lui.
Naturalmente, era impossibile, per un personaggio concepito come
Montalbano, non reagire di fronte a quei fatti. Così, c’è stata una
bellissima riunione, al Piccolo Eliseo, con il sindacato di polizia. La
sala era gremita, c’era anche Cofferati, che, se non ricordo male, in
quel momento era già fuori dal sindacato. A un certo punto, il
segretario del sindacato di polizia ha detto una frase che mi ha colpito
veramente: “Non si può creare un corpo di polizia e impiegarlo in certe
azioni senza dirgli che siamo un corpo democratico e che perciò deve
agire in un certo modo. Perché occorre una quotidiana manutenzione della
democrazia”. Mi è piaciuta moltissimo perché una frase vera. Se la si
ama veramente, la democrazia, bisogna pulirla perché non arrugginisca,
bisogna accudirla ogni giorno, magari portando un fiore, un pensiero,
come si fa con una persona amata.

L’ultima delle parole chiave che vorrei sottoporle è una parola che non
usa quasi più nessuno: rivoluzione.

Per prima cosa vorrei dire che è una parola di cui non bisogna avere
paura. I tempi e i sistemi cambiano. Noi la associamo, per un fatto
culturale, alla rivoluzione francese, a quella del 1917, ma anche a
un’idea di morte, di sangue, di distruzione. Eppure, quando parliamo di
rivoluzione copernicana, non evochiamo nulla di sanguinoso.
Rivoluzione non è una parola che deve necessariamente evocare la
ghigliottina e robe simili. La rivoluzione è visibile e invisibile.
Quella visibile è la gente che scende nelle piazze. Ma quante
rivoluzioni, per esempio nel costume odierno, noi non le chiamiamo così
anche se lo sono? Io credo che la rivoluzione debba essere permanente,
continua…

Ha avuto modo di leggere o ascoltare qualcosa sul forum sociale di
Mumbai? Si aspettavano 50 mila persone, ce n’erano 500 mila…

Ho visto poche immagini in televisione, ma avvengono sempre così, queste
“piccole” sorprese. Ricordo un economista di destra da Maurizio
Costanzo, sei giorni prima del G8. gli dissero: “Guardi che lì può
essere un momento duro”. E lui rispose: “Ma che vuole che facciano,
quattro ragazzotti dei centri sociali?”. E a Genova finì come finì. C’è
sempre questa sorpresa, non se l’aspettano.

Intervista di Marco Calabria – Carta

Il video dell’intervista è disponibile su: http://www.arcoiris.tv