Home > PRC : VERSO L’ASSEMBLEA DEI\ELLE GIOVANI COMUNISTI\E GENOVA 16-17-18 APRILE

PRC : VERSO L’ASSEMBLEA DEI\ELLE GIOVANI COMUNISTI\E GENOVA 16-17-18 APRILE

Publie le martedì 6 aprile 2004 par Open-Publishing

Il contributo che segue ha come unico obiettivo quello di sollecitare, nelle forme più libere e articolate, il dibattito interno dei e delle giovani comunisti/e. La fase politica e di movimento che stiamo attraversando è indubbiamente una fase difficile e complessa, proviamo qui di seguito a focalizzare solo alcune questioni che proponiamo alla discussione dentro il percorso che ci porterà all’assemblea onale di Genova, che libera da conte o ingessature del dibattito, auspichiamo possa divenire un nuovo spazio di discussione libero e originale della nostra organizzazione.
DIFFICOLTA’ E POTENZIALITA’ DEL MOVIMENTO

Dopo il grande movimento contro la guerra dell’anno scorso, la stagione straordinaria del trainstopping e la grande mobilitazione referendaria si è aperta una nuova fase politica e sociale.
Non siamo riusciti a fermare la guerra ma gigantesca è stata la capacità di mobilitazione e di influenza sulla società, fino a farci definire “la seconda superpotenza mondiale”. Siamo riusciti, dopo il 15 febbraio, a diffondere ovunque pratiche di disobbedienza e boicottaggio, basti pensare alla clamorosa collaborazione dei ferrovieri nelle informazioni che ci giungevano durante il trainstopping, senza citare le forti mobilitazioni che si sono avute nelle scuole e nelle università, come nei territori e un po’ in tutti i luoghi sociali. Si sarebbe potuto rendere ancora più efficace socialmente l’opposizione alla nuova guerra del Golfo se il tanto promesso sciopero generale fosse diventato realtà. Oggi possiamo dire di non aver fermato la guerra, ma anche che la strada intrapresa è stata quella giusta. Ce lo dimostrano con straordinaria evidenza la nuova oceanica manifestazione del 20 marzo in Italia e nel mondo, ma anche la straordinaria reazione del popolo spagnolo ai barbari attentati di Madrid. Il grido “Paz” ha sgretolato in pochi giorni la base elettorale di Aznar e costretto Zapatero a promettere il ritiro delle truppe spagnole entro il 30 giugno. Ancora una dimostrazione straordinaria del radicamento nell’opinione pubblica globale dell’opposizione alla guerra preventiva e permanente.

Quasi simmetricamente, con le ovvie e scontate differenze, il movimento in difesa dell’articolo 18 è entrato in difficoltà nel momento in cui era necessario legare questa battaglia ad una più generale rivendicazione salariale e di lotta alla precarietà. Solo così si sarebbe potuto esprimere con efficacia il potenziale ricompositivo e di conflittualità presente nella manifestazione del 23 marzo 2002, moltiplicando scioperi e mobilitazioni, mettendo veramente paura a governo e confindustria. Il referendum ha rappresentato l’estremo tentativo di ritracciare questa strada. Siamo stati sconfitti, ma non abbiamo perso. Quasi 11 milioni di persone hanno disobbedito all’enorme fronte astensionista che andava da Berlusconi a Cofferati abbracciando una battaglia radicalmente antiliberista. Nelle lotte che hanno attraversato l’autunno si manifesta e si manifesterà tutto il potenziale che siamo riusciti ad accumulare, che può trovare nella May Day di quest’anno una nuova importante espressione.

Tutto questo era sicuramente poco immaginabile tre anni fa, senza Genova, Firenze e Porto Alegre
Molti di noi, infatti, hanno giustamente sostenuto che senza Genova non ci sarebbe stata la grande mobilitazione sindacale sull’art. 18. A maggior ragione pensiamo si possa dire che i conflitti sociali che stiamo vedendo in questi mesi vivono anche della contaminazione del movimento dei movimenti. La vertenza degli autoferrotranvieri è in questo senso forse la più significativa. Seppur ancora parliamo di battaglie costruite su piattaforme difensive, la radicalità espressa dalle pratiche di lotta “selvagge” dimostra tutta la potenzialità e la possibilità di una nuova offensiva sociale. Disobbedendo ad una legge ingiusta come quella anti-sciopero, i lavoratori e le lavoratrici hanno finalmente trovato una pratica di lotta efficace che ha costretto tutti a fare i conti con la loro condizione, nonostante il ruolo estremamente negativo di Cisl e Uil ma anche della stessa Cgil.

Potremmo fare gli stessi esempi anche per le altre vertenze apertesi in questi mesi, in cui i vari soggetti sociali in lotta sembrano unificati dalla convinzione che le pratiche radicali rappresentino l’unica possibilità credibile di difendere i propri diritti e i propri interessi: di questo ci parlano le pratiche di blocco messe in piedi dai cittadini di Scanzano e della Basilicata tutta, dagli operai dell’acciaierie di Terni e dell’Alitalia, gli scontri tra operai dell’Ilva e forze dell’ordine a Genova, l’occupazione del palinsesto da parte dei giornalisti di RAInews24, le occupazioni dei rettorati di ricercatori e docenti, ma anche mille conflitti diffusi che sarebbe impossibile riassumere.

Sembra, dunque, che ciò che ci siamo detti tante volte nelle assemblee del movimento, ossia la necessità di riuscire a portare la radicalità di pratiche e di contenuti del movimento nella conflittualità sociale diffusa, stia di fatto germogliando quasi spontaneamente. La radicalizzazione prodotta da questi tre anni di mobilitazioni, da questo grande movimento internazionale che a ay ha dimostrato di essere in ulteriore espansione, non si è per nulla spenta. Ciò che ci sembra mancare è invece la capacità soggettiva degli spazi pubblici del movimento dei movimenti di saper incidere in questi processi, provando ad avere una funzione ricompositiva tra vecchio e nuovo movimento operaio, tra opposizione alla guerra e conflitto sociale. Ad essere entrato in evidente difficoltà è lo spazio politico-sociale di movimento antiliberista e antiguerra.

La contestazione del vertice europeo del 4 ottobre ha rappresentato l’esemplificazione di questa difficoltà. In primo luogo per l’indebolimento della pratica del controvertice, motore, prima e dopo Genova, della radicalizzazione e dell’accumulazione costituente di potenza del movimento dei movimenti. L’acuirsi delle moderne conflittualità tra potenze imperialiste sta producendo l’eliminazione stessa dei vertici o quantomeno la loro perdita di centralità nel funzionamento della globalizzazione liberista. Basta pensare al nuovo fallimento del Wto di Cancun, allo stesso vertice europeo, alle continue tensioni prima sulla guerra e poi sulla gestione dell’occupazione irachena sia all’interno dell’Onu che della Nato ecc. Ciò che fino a qualche tempo fa poteva essere dato per scontato, l’esautoramento delle sovranità onali attraverso la costituzione e il rafforzamento di organismi economici e politici sovranazionali, sembra dunque sempre più arenarsi di fronte alle insolubili contraddizioni tra paesi e/o mercati continentali imperialisti e tra i paesi “occidentali” e il “sud” del mondo.

Il 4 ottobre però è la risultante anche di altre difficoltà. Da una parte la crisi degli spazi pubblici e partecipativi del movimento, dall’altra l’offensiva moderata, tesa a spaccare il movimento, giocata sulla solita dicotomia violenza-non violenza. I social forum, inizialmente efficaci per organizzare partecipativamente le campagne onali del movimento, si sono pian piano svuotati, ridando centralità alla più classica discussione intergruppi fino all’esaurimento di questa esperienza. Le stesse reti del movimento, troppo spesso costruite in modo identitario e troppo poco sociale, hanno stentano a decollare e a divenire protagoniste dei conflitti sociali che si sono aperti nel nostro paese. La Cgil ha avuto, dentro questa difficoltà, facile gioco a presentarsi come nuovo baricentro politico moderato del movimento, come soggetto capace di rispondere al problema dell’ottenimento di risultati concreti rilanciando il rapporto con il centrosinistra da una parte e rispolverando le pratiche concertative dall’altra. L’ignobile firma dei primi patti di applicazione della legge 30, come del contratto degli autoferrotranvieri, come si conciliano con la rivendicazione di democrazia sindacale, di partecipazione, di lotta alla precarietà avanzate dal movimento e dalle lotte?

L’efficacia dei movimenti è un problema aperto e urgente da affrontare in tutta la sua complessità e senza cercare facili scorciatoie istituzionaliste o politiciste, sapendo che i movimenti non sono vertenze sindacali la cui efficacia è misurabile dal risultato immediato. Un movimento è un processo collettivo e dialettico, che si muove carsicamente e muta sotterraneamente e in profondità il senso comune e il livello di coscienza di massa, che accumula forze nuove proprio quando sembra essersi addormentato.

LA NUOVA FASE DEL PARTITO: rilanciamo la nostra autonomia!

In questo quadro si inserisce l’attuale fase del nostro partito che ovviamente, vista la nostra internità al movimento fin dall’inizio, influisce anche sulla capacità d’iniziativa del movimento stesso. Come sappiamo dopo il referendum è stata tracciata una nuova direzione di marcia con l’obiettivo di costruire un accordo programmatico di Governo con il Centrosinistra per le prossime elezioni politiche. Questo nuovo obiettivo, ben diverso dalla necessaria priorità di provare a cacciare il Governo Berlusconi e di sconfiggerlo elettoralmente, ci pare, anche per le modalità ben poco partecipative della sua discussione e messa a punto, stia creando un forte disorientamento tra i militanti e una particolare difficoltà soprattutto fra i/le Giovani Comunisti/e. Non vogliamo qui riproporre in sedicesimi il dibattito del partito né approfondire la natura dell’attuale Centrosinistra che ci sembra ben poco cambiato, anzi diretto verso una sua ulteriore involuzione liberista con il progetto della lista unitaria e del partito riformista. Quello che ci interessa capire è ciò che questa linea sta producendo oggi, qui e ora, nel nostro rapporto con il movimento e nella nostra capacità d’iniziativa. Dal 4 ottobre in poi, infatti, ci è sembrato di osservare un cambiamento netto delle priorità del nostro partito, con il segretario più impegnato in proposte di manifestazioni unitarie delle opposizioni (poi tradottesi in qualche convegno unitario in teatri semi vuoti su contenuti vaghi o discutibili) che nella costruzione degli appuntamenti del movimento. Il movimento invece rimane l’unica forza in grado di mettere in difficoltà il Governo, ma anche un Centrosinistra che è pronto ad aiutare il centrodestra sulla riforma delle pensioni, che propone le gabbie salariali agli autoferrotranvieri, che ha deciso, nella sua maggioranza, di non sostenere la richiesta di ritiro immediato delle truppe di occupazione dall’Iraq, rompendo di fatto con il movimento per la pace. Ciò che ci pare si sia rinunciato a fare, nell’ovvia apertura di un confronto offensivo con tutte le forze politiche del centrosinistra, è continuare sulla strada della centralità del movimento nel dettare l’agenda politica alle opposizioni, cosa sicuramente avvenuta negli ultimi due anni, proprio fino al referendum sull’art. 18. La grande manifestazione del 15 febbraio ne era stato forse il miglior esempio. Il movimento ci ha infatti dimostrato che la moderazione dei contenuti non è l’unica via all’unità, ma che è possibile, nel vivo del conflitto, coniugare unità e radicalità e su questa base ampliare il consenso. Così una manifestazione nata al social forum di Firenze, e poi allargatasi a Porto Alegre, con contenuti radicali contro la guerra americana all’Iraq ha visto alla fine costrette tutte le opposizioni di centrosinistra a scendere in piazza unitariamente, con una egemonia indiscussa del no alla guerra “senza se e senza ma” espresso dal movimento.

Ci voleva Mumbay per riprodurre questa dinamica. Il 20 marzo, i partiti del Centrosinistra sono stati costretti ad accodarsi al movimento, contestati diffusamente dagli stessi partecipanti alla manifestazione sino a costringere Fassino ad arroccarsi in difesa accusando “piccole frange violente” del movimento di negargli il diritto di manifestare. Anche qui ci sembra paradossale lasciare ai Comunisti italiani e a Occhetto la polemica con il segretario della Quercia su una contestazione più che civile aggredita si violentemente, ma dal servizio d’ordine dei Ds.

Dopo il 4 ottobre insomma, abbiamo rinunciato all’idea di costruire un “15 febbraio sociale” riunificando in una grande manifestazione per cacciare Berlusconi, l’agenda dell’autunno. Il controvertice del 4 ottobre contro l’Europa liberista, la Perugia-Assisi contro la guerra, lo sciopero Fiom per il contratto e contro la precarietà, la vertenza degli autoferrotranvieri ecc., potevano essere proposti come tappe di questa grande mobilitazione. Si è preferito invece inseguire il Centrosinistra proponendo una generica manifestazione delle opposizioni, mai costruita, dai contenuti non facilmente immaginabili, dai classici connotati di sponda politica, per giunta moderata, al movimento.

Anche la proposta del “dialogo fra molti” nella costruzione del programma per battere le destre sta mostrando tutta la sua debolezza proprio nella capacità per questa via di far partecipare il movimento e renderlo politicamente efficace.
La stessa idea della costruzione del partito della Sinistra europea con quelle forze che meno sono state in sintonia in questi anni con le lotte del movimento (vedi Pcf francese e partiti comunisti dell’est) e che sono orientate ad alleanze di governo nei loro paesi con i partiti della sinistra liberista, ci sembra ancora uno spostamento di centralità, nella costruzione del necessario soggetto politico europeo, da chi in questi anni ha costruito i social forum europei di Firenze e di Parigi ai partiti comunisti più “tradizionali”, dalla cui cultura politica figlia dello stalinismo diciamo di volerci definitivamente allontanare. Non a caso, dopo aver teorizzato per tanto tempo la nostra internità assoluta al movimento, le ultime dichiarazioni di Bertinotti (vedi intervista a il manifesto per l’anniversario della morte di Lenin) alludono a noi come forza di confine tra la politica istituzionale e il movimento. A noi questo sembra un preoccupante passo indietro.

VIOLENZA-NON VIOLENZA O DISOBBEDIENZA?

Di fronte a questa dinamica chi, come noi GC, più di altri nel nostro partito ha investito in questi anni e vuole ancora investire nella costruzione del movimento e dei suoi luoghi e ha realmente spostato il suo baricentro dall’attività politico-istituzionale a quella sociale, così come argomentato nel nostro ultimo congresso, si trova maggiormente in difficoltà. E di certo non ci ha aiutato il dibattito su violenza e non violenza., che si è rivelato, per le modalità in cui è stato proposto, fonte di divisioni all’interno del movimento. Questo dibattito ha infatti ambiguamente oscillato tra una ricca messa in discussione, tutta ancora da fare, della storia, delle culture e delle pratiche del movimento operaio del novecento, e astratte e ideologiche consequenzialità di linea politica. Per questo il dibattito è stato vissuto da molti come imposto al partito e al movimento, poiché poco comprensibile in un contesto di movimento come il nostro, in cui la questione della violenza non è mai stata all’ordine del giorno, in cui anche dopo Genova non siamo mai entrati nella spirale repressione-violenza-repressione e in cui siamo sempre riusciti a far convivere, nella pratica dell’obiettivo, culture e pratiche differenti. Per quanto ci riguarda poi dopo Genova abbiamo cercato di superare proprio l’astratto dibattito violenza/non violenza con la pratica della disobbedienza, che non chiama violenza mettersi un casco per difendersi dalla repressione, questa si violenta, delle “forze dell’ordine”, che non chiama violenza lo smontaggio di un CPT, né tantomeno i picchetti durante uno sciopero o la difesa di una casa occupata. Sul terreno della pratiche radicali ci siamo sperimentati in questi anni, provando a coniugare la radicalità delle forme del conflitto con il consenso in grado di produrre. Per questo il dibattito dovrebbe piuttosto interrogarci su quali azioni e quali pratiche siano più efficaci per rafforzare i conflitti sociali e fermare la guerra. Intendendo come efficace non il machiavellico fine che giustifica i mezzi, ma la capacità di una pratica di essere partecipata, consapevole, non avanguardista e comprensibile e in questo senso alludere ad un altro mondo possibile… su questo e non su altro abbiamo giustamente criticato i fatti del 4 ottobre, ma sarebbe fuorviante assolutizzare questa critica in asserti ideologici. Le nostre sperimentazioni di disobbedienza sociale non ci hanno infatti impedito di solidarizzare, in Bolivia come in Chiapas, in Palestina come in Iraq, con chi ha esercitato il diritto a resistere.

E’ con questo metro che dovremmo leggere in maniera più equilibrata quanto sta accadendo in Iraq, sapendo distinguere le forme di resistenza sociale, anche armata, dalle forme istiche; questa ambiguità di analisi non ci ha consentito di fare, in occasione dell’episodio di Nassirya, ciò che il popolo spagnolo è stato in grado di fare e soprattutto di dire: “le guerre sono vostre, i morti sono nostri”.
Se invece vogliamo finalmente cimentarci in un percorso collettivo e plurale di ricerca strategica verso una nuova concezione rivoluzionaria all’altezza dei tempi, allora dovremmo essere capaci di porre la discussione sui giusti binari di un approfondimento teorico fuggendo da forzature identitarie sul movimento. Dobbiamo partire da noi, dalla nostra identità “comunista” che deve liberarsi fino in fondo dalla duplice cappa delle eredità staliniane e moderate. Il rischio è che anche questo dibattito venga letto invece come funzionale alla prospettiva politica di alleanza con la sinistra moderata, offrendo il fianco a facili polemiche, di chi giustamente sottolinea la contraddizione tra la “critica della presa del potere” e l’auspicio della partecipazione al governo della settima potenza capitalista mondiale…. Il problema del potere ci si ripropone ogni giorno e ad ogni scadenza elettorale. Il rischio è il ribaltamento del dibattito, si criticano i mezzi per criticare i fini, rinunciando a qualsiasi possibilità di cambiamento rivoluzionario della società. Sbagliamo forse dicendo che il problema del ‘900 non sono le rivoluzioni, ma la democrazia, l’autogestione, la partecipazione?

DIFFICOLTA’ DEI GC: un nuovo profilo nel movimento

In questa situazione, proprio dallo scorso 4 ottobre ci sembra di riscontrare una sostanziale impasse dei/delle GC. Se come detto in questi anni siamo stati la punta di lancia della sperimentazione e dell’innovazione del partito, puntando con efficacia la nostra costruzione sull’internità ai processi di movimento, adesso siamo proprio noi a rischiare maggiormente di perdere la bussola e le migliori energie militanti.
Negli ultimi mesi abbiamo avuto grande difficoltà a proporre campagne onali efficaci al movimento, a dare nuova linfa e nuovi luoghi per costruire in modo forte e innovativo i percorsi contro la guerra e contro la precarietà in sostegno ai conflitti sociali in atto. Nonostante la convinzione che l’organizzazione giovanile non può tornare indietro, che non è disposta a tornare ad essere il “partito dei piccoli” ma che vuole continuare a stare nel movimento e ad essere il luogo dell’innovazione, gran parte delle relazioni che siamo stati in grado di mettere in piedi in questi anni si stanno arenando.

Su questo ci pare stia pesando negativamente anche l’aver dato indicazione quasi assoluta ai/alle GC di costruire i Disobbedienti, con la D maiuscola, in maniera troppo identitaria e non fondata su contenuti e pratiche di conflitto condivisi, da diffondere nelle reti sociali e di movimento. Le conseguenze di questa indicazione troppo prevalente, si sono sentite sul terreno dello sviluppo del nostro radicamento sociale e sul mantenimento di un profilo autonomo dell’organizzazione. Da una parte l’idea presente in parti cospicue dei Disobbedienti di costruirsi come soggetto politico uniforme, dall’altra il nuovo posizionamento del partito, su cui i G.C. non hanno segnato una autonomia di elaborazione, hanno alimentato l’impasse del progetto “laboratorio della disobbedienza” nato al Carlini. Non a caso questa relazione sembra tenere di più, pur con tutte le difficoltà di contesto, laddove è stata impostata come messa in rete di pratiche e contenuti, come a Torino e a Genova, nella rete naz. studentesca, nell’assemblea metropolitana per il reddito a Roma ecc.
Questa impasse ha depotenziato non poco la nostra capacità di lanciare campagne onali di movimento.

Particolarmente negativa, ed esemplificativa, è stata l’incapacità di un qualsiasi luogo del movimento di costruire onalmente sugli autoferrotranvieri ciò che si era costruito l’anno scorso sulla vertenza della Fiat, provando a connettere soggetti sociali differenti rompendo la campagna governativa di contrapposizione tra trasportatori e trasportati. Se quindi diffuse sono state le azioni di comunicazione, i picchetti davanti ai depositi ma anche le pratiche di sciopero del biglietto per costruire campagne sul salario sociale, così come è stato fatto a Roma e a Bologna, a Firenze e a Venezia, grande era l’occasione per rafforzare la nostra idea di ricomposizione, rendendola efficace e aiutando così il movimento a superare le proprie difficoltà.
Serve dunque un immediato salto di qualità dell’organizzazione giovanile, e per far questo non bastano enunciazioni di fedeltà al movimento. Da una parte serve il rilancio dei nostri progetti di radicamento sociale e di nostre campagne autonome come giovani comunisti dall’antiproibizionismo alla sessualità, dai saperi alla precarietà, dalle campagne internazionali all’anti mo. Dall’altro dobbiamo proporre una ricostituzione in forme nuove di una rete delle resistenze e delle disobbedienze sociali., come spazio pubblico delle realtà radicali del movimento, costruito a partire dalle esperienze territoriali e sociali, ridando così spazio unitario di partecipazione e d’azione, non su basi identitarie, ma sulla condivisione di pratiche, lotte e contenuti. Può essere uno dei terreni su cui provare a sperimentare l’uscita dalle difficoltà degli ultimi mesi, ridando centralità alla richiesta di unità e radicalità seminata in questi ultimi anni.

Rilanciare il radicamento sociale

Abbiamo dietro di noi la grande manifestazione contro la guerra del 20 marzo e stiamo costruendo l’appuntamento della May Day milanese che quest’anno avrà una caratterizzazione europea così come lanciata al social forum di Parigi.
Su questi due grandi temi, che poi in realtà parlano degli effetti più concreti e devastanti della globalizzazione liberista, possiamo rilanciare percorsi di respiro nel tentativo di costruire o rilanciare reti sociali.
Nelle scuole e nelle università dove, nonostante ad animare le strutture del movimento siano spesso studentesse e studenti in particolare universitari, abbiamo attraversato un periodo di difficoltà dopo le sconfitte sulla riforma Moratti e sulla Zecchino. Su questo necessitiamo di una riflessione aggiuntiva, che affronti il nodo della trasformazione dei tempi e dei bisogni studenteschi dentro l’università del 3+2 che ha logorato non poco l’agibilità politica dentro le facoltà, alimentando la difficoltà di un ricambio generazionale nelle strutture di movimento. Il rilancio di reti onali studentesche che provino a dare maggior respiro alle strutture locali esistenti, appare un passaggio centrale, a partire dalla costruzione e l’innovazione dei collettivi studenteschi e universitari realtà per realtà. Su questo terreno dobbiamo produrre un’efficace accelerazione non più rinviabile.
L’approfondirsi delle contraddizioni nell’applicazione della riforma Zecchino, su tutto la scadenza del decreto sui requisiti massimi e minimi che sta imponendo ovunque i blocchi tra il primo e il secondo livello di laurea e che potrebbe rappresentare il primo fondamentale banco di prova della nuova generazione di universitari, possono essere il nuovo terreno su cui rilanciare campagne onali che provino a bloccare l’ulteriore attacco rappresentato dalla riforma della riforma in via di approvazione e che rappresenta l’ultimo definitivo passaggio dall’università alla “fabbrica di precari”. Il rafforzamento del ruolo degli stage, il continuo svilimento della trasmissione dei saperi, l’acuirsi della selezione, dei tagli al diritto allo studio con il nuovo DPCM in via di approvazione che riduce al minimo la fascia di studenti/esse che potrà accedere a borse di studio e case dello studente, e le privatizzazioni ci impongono di rilanciare campagne onali sul salario studentesco, sul diritto allo studio, sulla critica del sapere e l’università partecipativa e autogestita, provando su questi terreni a sedimentare una soggettività studentesca onale.

L’attacco del ddl Moratti contro l’università pubblica e la condizione lavorativa dei ricercatori è un ulteriore terreno di critica e di mobilitazione, che può rimettere in discussione la privatizzazione dell’università, passata nel corso degli anni novanta attraverso l’introduzione dell’autonomia finanziaria e didattica degli atenei. La lotta dei ricercatori precari, cui va il nostro sostegno ed in cui siamo direttamente impegnati, può mettere in discussione il lo dei rapporti sociali fondato sulla precarietà, funzionale agli interessi del profitto privato a breve termine e sulla pelle dei lavoratori e della ricerca scientifica pubblica. Questa mobilitazione, inoltre, sta avendo il particolare merito di riaprire una finestra di visibilità sulle riforme dell’università che dal ’90 in poi, in maniera assolutamente coerente, sono passate nel sostanziale silenzio dei media e nell’assenza totale di un dibattito pubblico.
Anche le mobilitazioni dei genitori contro l’eliminazione del tempo pieno mostrano che le contraddizioni che sta vivendo la scuola tutta possono esplodere e diffondersi a macchia d’olio anche tra gli studenti medi che sono stati spesso protagonisti delle ultime mobilitazioni, ma che hanno maggiormente faticato a sedimentare le esperienze di autorganizzazione. I tentativi di costruire reti onali vanno dunque nella giusta direzione, ma dobbiamo riuscire ad aprirle il più possibile al movimento e alle esperienze locali realmente esistenti.

Sull’onda delle prime mobilitazioni contro il decreto sulle Procreazione Medicalmente Assistita, anche le reti onali e locali di donne possono essere maggiormente rilanciate, contro la repressione della donna e il controllo del suo corpo, contro la precarietà che colpisce in misura maggiore le donne costrette sovente anche al lavoro di cura domestica. Le stesse reti lesbo-gay-bi-trans- vedono nascere nuove esperienze di rivendicazione di libertà sessuale, che ci parlano dei desideri negati e della precarietà e controllo impostoci non solo nei luoghi di lavoro e studio ma più in generale sulle nostre vite.
Individuando la precarietà come paradigma delle moderne contraddizioni capitalistiche, è centrale provare a costruire, dove possibile, spazi di ricomposizione sociale, Reti anti precarietà per il salario sociale come soggetti di movimento in grado di mettere insieme i pezzi di radicamento sociale che costruiamo e gli stessi collettivi di Giovani Comunisti. Le esperienze di occupazioni di spazi sociali, che sempre più vedono protagonisti in tutta Italia i/le Giovani Comunisti/e, da Venezia, ad Alessandria, da Pisa a Torino, da Bari a Napoli, da Genova a Caserta…, sono le sperimentazioni migliori che provano a dare un luogo di relazione tra precarietà e tempi diversi dei vari soggetti sociali. La precarietà delle condizioni di vita, la progressiva individualizzazione dei rapporti di lavoro sta producendo, infatti, non una ma tante specifiche precarietà, per le quali rimaniamo convinti che sia necessaria l’autorganizzazione, come soggetti sociali, nei propri luoghi di lavoro o di studio, unica arma efficace nell’ottenere dei risultati concreti. Per molte delle precarietà esistenti, oggi è però difficile avere un luogo, un tempo e uno spazio dove autorganizzarsi. Molti lavori oggi non hanno un luogo di lavoro fisso o, ancora più spesso, durano troppo poco per permetterci di capire quali sono i nostri compagni di lavoro con cui organizzarci per rivendicare i nostri diritti. Troppo spesso, ancora, i salari bassissimi che prendiamo ci obbligano a più lavori, o a continuare la formazione (permanente) mentre lavoriamo, per sperare poi in qualcosa di meglio. Per tutto questo l’occupazione di uno spazio, la costruzione di reti contro la precarietà, in questa fase, può divenire anche il tentativo di sperimentare pratiche ricompositive in cui mettere in rete soggetti sociali precari differenti, soggettività politico/sociali interessate a contrastare la precarietà, singoli precari che non hanno ancora trovato un “loro” luogo e che spesso hanno pochissimo tempo. Uno spazio dunque non per costruire un’alternativa al sindacato ma per costruire sinergie fra le varie lotte, luoghi dove sperimentare una nuova sindacalizzazione, come strumento per facilitare “l’adozione della lotta dell’altro”, nel lo statunitense di Job With Justice.

Questo può essere il nuovo profilo con cui costruire una rete delle disobbedienze e delle resistenze, con altre soggettività politiche e sociali. In alcune città già esistono sperimentazioni di questo tipo fra soggetti diversi del movimento, spazi occupati e sindacati di base che provano a costruire assemblee cittadine per il reddito, provando a mettere in rete i soggetti e le pratiche radicali del movimento su campagne concrete, in grado di ottenere risultati e di dialogare efficacemente con i conflitti sociali in atto del vecchio e del nuovo movimento operaio. Su questi obbiettivi e pratiche, attraversando con forza l’appuntamento della May Day milanese, potremmo dunque provare a rilanciare la nostra progettualità e il nostro radicamento di movimento. Su queste basi possiamo ulteriormente rinnovare il profilo dell’organizzazione giovanile, della sua capacità di costruire campagna e visibilità politica autonoma, di rilanciare e rivendicare una nostra elaborazione differente, radicale, autonoma da quella del partito…
noi indietro non ci vogliamo proprio tornare.

Danilo Corradi (esecutivo onale)

Barbara Ferusso (esecutivo onale)

Cinzia Arruzza (coordinamento onale)

Giulio Calella (coordinamento onale)

Claudio Robba (invitato permanente cn)

Luca Sebastiani (coordinamento onale)