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Progetto indigeno di successo "Las Guacamayas", il sogno di un’altra Lacandona

Publie le venerdì 16 luglio 2004 par Open-Publishing

di CLAUDIO ALBERTANI e GIOVANNI PROIETTIS*

Alla confluenza dei fiumi Zendales e Lacantún, in
piena selva Lacandona, si trova l’ejido "Reforma
Agraria", una comunità indigena che pratica la
conservazione di un pezzo di bosco tropicale vergine e
del suo ecosistema mediante programmi di riproduzione
di flora e fauna locali, tra cui, le bellissime
guacamayas (particolare pappagallo tropicale) che
danno il nome al singolare progetto. In questo
servizio illustriamo la storia di 40 famiglie
chinantecas, originarie di Oaxaca, che vivono nella
selva chiapaneca senza distruggerla. È l’epopea di un
pugno di uomini e donne che hanno rifiutato la
mercificazione della natura e con volontà ed
immaginazione, hanno creato un centro ecoturistico che
propone al visitatore una formula singolare: vedere,
rispettare e conservare.

Alla memoria di don Amado Avendaño,
governatore ribelle del Chiapas

All’estremo sudest della Selva Lacandona, lontano dai
riflettori mediatici e a solo cinque ore d’automobile
da San Cristobal de Las Casas, si trova un’appartata
regione che conserva il nome del suo antico padrone
porfiriano: Marqués de Comillas.
Praticamente irraggiungibile fino agli anni novanta,
la zona si estende nel triangolo immaginario
costituito dalla confluenza dei fiumi Chixoy e
Lacantún (gli stessi che a partire da qui formano
l’Usumacinta), rispettivamente a oriente ed occidente,
l’Ixcán guatemalteco al sud, ed il villaggio di
Benemérito del las Américas al nord.
A partire dalla "marcia al tropico" promossa nel
sessennio di López Mateos, ed anche prima, la regione
ha funzionato come via di fuga da conflitti agrari e
politici accogliendo gruppi umani provenienti da tutto
il paese. Zona di rifugio e terra promessa, santuario
e bottino, questa è una sorta di ultima frontiera dove
si respira un’atmosfera di lontano ovest.

È istruttivo percorrere l’impeccabile strada,
recentemente terminata dall’Esercito messicano, che
conduce delle lagune di Montebello a Palenque,
costeggiando la frontiera con il Guatemala e girando
intorno alla biosfera dei Montes Azules.

Rari sono i passanti, scarso il trasporto pubblico,
quasi inesistenti i turisti. La regione merita, da
tutti i punti di vista, il nome che nel XIX secolo gli
misero i cacciatori che radevano al suolo cedri e
mogani: "Deserto della Solitudine".

Con un’eccezione importante. Invece dell’impenetrabile
densità vegetale, la gran diversità di specie animali
ed i preziosi legnami che hanno fatto la fortuna di
tanti avventurieri, predomina ora un paesaggio
desolato dove, oltre ai fusti segati nella savana
incandescente, emergono vacche e soldati a perdita
d’occhio.

Mentre le prime s’incaricano di consumare le ultime
vestigia della fragile biodiversità selvatica, i
secondi, presumibilmente incaricati del
rimboschimento, si danno al dubbio lavoro di rendere
impossibile la vita dei pochi viandanti.

Circa 12 posti di blocco istallati lungo gli scarsi
400 chilometri sono lì per togliere il gusto
dell’escursione a qualsiasi cittadino, soprattutto in
una regione conosciuta per fare posto ad ogni tipo di
traffico: dal micro-contrabbando al mega commercio di
armi e cocaina passando per la prostituzione ed il
mercato di immigranti illegali.

Tuttavia, a Marqués de Comillas non tutto è
desolazione. Nelle vicinanze della confluenza tra i
fiumi Zendales e Lacantún, precisamente nella regione
dove sorgevano le riserve di caccia la cui storia
sanguinosa è narrata da B. Traven nei suoi romanzi, si
trova l’ejido "Reforma Agraria". Conoscerlo dà un’idea
diversa di quello che è, e soprattutto di quello che
potrebbe essere la Selva Lacandona.

In questo posto, un pugno di uomini e donne con
volontà ed immaginazione hanno creato un centro
ecoturistico, Las Guacamayas, che sfida i luoghi
comuni del neoliberismo e di una certa vulgata
"conservazionista". Perché? Dopo che quattro o cinque
generazioni di commercianti di legname, fattori,
allevatori e funzionari pubblici hanno saccheggiato la
selva senza misericordia, alcuni vorrebbero ora
scaricare la colpa sugli ultimi arrivati: i poveri
contadini provenienti dai quattro angoli del Messico.

Gli abitanti di "Reforma Agraria" ci raccontano
un’altra storia. Essi formano una comunità che pratica
un’effettiva conservazione dell’ecosistema mettendo in
pratica coraggiosi programmi di riproduzione della
flora e fauna locali. Tra le altre specie, emerge
quella che dà il nome al luogo: la bella guacamaya o
Ara macao, enorme pappagallo multicolore, in fuga
davanti all’avanzata della globalizzazione.

Biologi, ecologisti, viaggiatori e cercatori di
emozioni, hanno accesso ad una porzione di selva
vergine amorevolmente accudita dai suoi abitanti:
circa 40 famiglie di contadini indigeni originari
della Chinanteca oaxaqueña.
Essi vogliono vivere della selva senza distruggerla
come fanno quasi tutti gli altri, compresi alcuni
sedicenti "conservazionisti". Per questo propongono al
visitatore una buona formula: vedere, rispettare e
conservare.
Arrivare a "Reforma Agraria" è relativamente facile.
Se uno viene da Comitán, bisogna lasciare la strada di
frontiera all’altezza del fiume Chajul, svoltando a
nord per una pista ben sterrata che, dopo circa 20
chilometri, conduce a destinazione. Se, invece, si
proviene da Palenque, all’altezza di Benemérito del
las Américas bisogna prendere la strada verso Pico di
Oro.

Il villaggio sorge sulla riva destra dal fiume
Lacantún, la via d’acqua che fu l’arteria della
regione prima della costruzione della strada. Sul lato
sinistro del fiume si trova la biosfera dei Montes
Azules, l’ultima porzione di selva relativamente
vergine (benché, sia chiaro, senza mogani...). Su
questo lato, invece, tutto fu colonizzato molti anni
fa e quello che rimane sono unicamente pastizales
[Pastizal: territorio con copertura erbacea o presenza
poco significativa di piante. N.d.T.], salvo la
porzione appartenente a "Reforma Agraria."

La comunità presenta alcune strade ben tracciate di
sterrato fine, case di legno con alti tetti di foglie
di guano ben intrecciate, la palma selvatica che qui
abbonda. L’architettura locale continua ad essere
tradizionale; ignora il cemento e la lamiera, tanto
comuni in altre parti.

All’arrivo, due giovani biologi della UAM-Xochimilco,
Cesare ed Ernesto, si offrono come guide per una gita
sul fiume o nella selva: svolgono così il loro
servizio sociale appoggiando la comunità. Dopo decenni
di isolamento quasi totale, a gennaio di quest’anno
l’elettrificazione ha portato i televisori, le prime
antenne paraboliche, le birre fredde.

Alcune ombre si profilano all’orizzonte: dietro
Conservación Internacional (CI), un’ambigua Ong che
promuove progetti eco-milionari, si scorgono i piani
di investimento transnazionali del turismo di gran
lusso. Riusciranno questi campesinos a difendere il
loro scampolo di selva? Loro si mostrano ottimisti.
Nella testimonianza che presentiamo, si incrociano
l’epopea della migrazione con significativi itinerari
di militanza politica, la fuga dai conflitti con
l’intreccio narco-poliziesco, l’orco filantropico
priista con la resistenza al caciquismo...

Gli ostinati che, come noi, ancora si interessano alle
implicazioni della questione sociale, troveranno
materia di riflessione nelle vicissitudini di questa
comunità che non si è piegata ai dettati dell’economia
mercantile. Ora, dopo avere letto l’insegna
all’entrata del villaggio, lasciamo la parola a Luis
Hernández, uno dei fondatori della comunità.

LUIS HERNANDEZ, DELEGATO EJIDAL DI "REFORMA AGRARIA"

-Don Luis, ci racconti quando e come siete arrivati
qua.

- Siamo indios chinantecos originari di Oaxaca.
Intorno agli anni settanta, qualcuno ci disse che
nella selva del Chiapas un tenente in pensione di nome
Carmona concedeva certificati di proprietà. L’11
aprile del 1976, una data che celebriamo tutt’ora,
arrivammo qui in quaranta persone circa, tra uomini,
donne, bambini, adulti ed anziani.

-Perché ve n’eravate andati?

-Ce ne andammo da Oaxaca per problemi agrari. Mio
padre aveva un appezzamento di 100 ettari, ma l’invase
un gruppo di gente armata che godeva della complicità
delle autorità locali. La volevano per la coltivazione
di droga e ci intimarono di unirci a loro o di
lasciare le nostre terre. Noi non accettammo e così
incominciò tutto. Durò molti anni quella lotta, tanto
che ammazzarono mio padre, mio suocero ed uno zio.
Alla fine quello che feci, fu di portare qua i miei
parenti e compaesani.

-Ha partecipato ad altre lotte sociali?

- Prima del conflitto, io vivevo nella città di
Oaxaca. Dapprima ho fatto il domestico, poi ho
studiato alla preparatoria dell’Università Benito
Juárez ed ho partecipato al movimento degli anni
settanta. Ho militato nella Liga Comunista 23
Settembre, un’organizzazione clandestina che praticava
la lotta armata. Quando la repressione ci ha
sconfitti, per un po’ ho lavorato come maestro nelle
comunità della montagna. Dopo un anno, sono tornato
all’università per laurearmi ed in quel frangente si è
presentato il problema di mio padre. Io non volevo uno
scontro tra campesinos, cercavo una soluzione
pacifica, ma gli invasori mi accusarono di essere
guerrigliero. La polizia mi offrì di cambiare nome, un
lavoro col governo e di risolvere il problema di mio
padre in cambio di informazioni. Non accettai,
ovviamente, e le cose si fecero molto brutte.

-Come fu il viaggio?

-È una lunga storia. Arrivammo a Comitán su autobus
locali perché l’Istmo di Tehuantepec era bloccato da
manifestazioni studentesche. Poi affittammo un camion
che ci avvicinò alla selva e quando l’autista ci disse
che non poteva più andare oltre, alcuni mulattieri ci
vendettero le mule per caricare le signore, le nostre
masserizie e continuare a piedi. Camminammo per
diversi giorni da un rancio all’altro ed arrivammo a
Ixcán, un villaggio sul fiume dello stesso nome che è
affluente del Lacantún. I militari che lo proteggevano
videro molto bene la carabina e la pistola che
avevamo, ma si comportarono bene e non dissero niente.
Essi ci spiegarono che l’unica maniera per arrivare
alla nostra destinazione era scendere per il fiume e
dato che non c’erano lance, costruimmo alcune zattere
di sughero, proprio come le facevamo da bambini nella
nostra terra. Questo ci fece ritardare di un paio di
giorni, ma ce la facemmo in mezzo a molte difficoltà.
Nella zattera più grande ci stavano circa 12 persone e
nelle più piccole quattro o sei. Davanti in
avanscoperta ce n’era una con un solo compagno, perché
non conoscevamo il fiume e c’erano parti pericolose
nelle quali era necessario accostare e scendere.
Furono due giorni interi di navigazione e di paura; di
notte ci fermammo su una spiaggia dove, per fortuna,
alcune persone che ci regalarono mais e fagioli perché
era finito il cibo. Al fine arrivammo a Tlatizapán, un
posto qui vicino dove viveva il tenente che cercavamo.
Egli ci diede l’opportunità di entrare nel suo gruppo
di richiedenti di terre dietro pagamento di 5 mila
pesos per diritto e poiché avevamo finito i soldi,
negoziammo i pagamenti in cambio di lavoro.

-Quando avete costruito il villaggio?

- Quando arrivammo a Tlatizapán ci organizzammo subito
come villaggio. Per noi era molto importante mantenere
viva la comunità, costruire buone capanne, tracciare
strade, e preservare l’intimità delle famiglie....
Molto presto costruimmo la scuola e qui fummo i primi
ad avere un maestro, malgrado esistessero già
Benemérito de las Américas, Pico de Oro e Galaxia, le
tre comunità più vecchie della regione. Un giorno il
tenente portò un quadro del Signore della Buona Morte
ed un altro della Vergine di Guadalupe per la
cappella. Io sono ateo e mi opposi, ma gli altri
volevano avere una religione. Ci furono frizioni, i
vecchi mi criticarono e quando, nell’ottanta, 22
famiglie si trasferirono qui a "Reforma Agraria" (un
paio di chilometri a monte, N.d.R.) si costruì la
cappella.

-Da che cosa è nata la necessità da rispettare la
natura?

-Nella zona di Tuxtepec, da dove venivamo, c’era la
selva. Ai tempi dei nostri genitori c’erano perfino
guacamayas, ma noi non li abbiamo mai conosciuti e
così, facendo il primo regolamento comunitario,
abbiamo pensato di proteggere l’ecosistema. Nel 1981
abbiamo cercato l’appoggio del governo per seminare
cacao, cardamomo ed altre coltivazioni che non
implicano la distruzione della selva. Dopo sette anni,
tuttavia, siamo stati costretti ad abbattere più di 3
mila piante perché non erano produttive. Di fallimento
in fallimento, è nata l’idea dal centro di ecoturismo
che ci offre l’opportunità di vivere della selva senza
distruggerla. Seminiamo mais ed abbiamo alcuni capi di
bestiame ma preserviamo 1.450 ettari già decretati a
riserva. Che cosa offriamo? Per esempio, le
guacamayas. Si possono visitare i nidi naturali e fare
una passeggiata guidata sul sentiero che, a poco a
poco, abbiamo aperto nella selva. C’è il tragitto in
lancia dentro la riserva di Montes Azules, sui fiumi
Lacantún e Zendales dove si possono vedere
coccodrilli, tapiri, scimmie ragno, scimmie
saraguatos, guacamayas, fagiani, tucani, aironi,
cinghiali, cervi coda bianca.... Abbiamo una capanna
ristorante, due capanne appartamenti, un imbarcadero
ed un parcheggio. Abbiamo altre 8 stanze doppie con
letto matrimoniale e cucina. Abbiamo un’area campeggio
con servizi sanitari, docce ed alcune capanne
collettive per i turisti con minori possibilità.

-Chi sono i predatori della selva Lacandona?

- È curioso ma nell’89, il "Grupo de los Cien"
c’attaccò come eco-distruttori. A noi che tanto
lottiamo per conservarla. Dicevano che la selva aveva
un milione di ettari e che ne rimanevano solo 700 mila
e che si continuava ad abbattere. Bisogna tuttavia
essere chiari: il campesino non è il vero predatore.
In primo luogo, la distruzione non è di ora, ha più di
100 anni ed è sempre stata portata avanti dal. Ancora
recentemente i funzionari favorivano l’insediamento di
colonie in piena selva. Era un commercio redditizio:
spingevano i contadini a disboscare ed essi si
tenevano il legname pregiato. Ci sono famiglie in
Chiapas - come, per esempio, quella dell’ex
governatore Absalón Castellanos (lo stesso che nel
1994 fu sequestrato dall’EZLN e liberato dopo pochi
giorni, N.d.R.) - che si sono arricchite in maniera
indecente. Gran parte dei campesinos di Marqués de
Comillas sono arrivati negli anni settanta - alcuni un
po’ prima - quando già erano stati devastati più di
800 mila ettari. La stessa cosa accadde in Campeche,
in Quintana Roo ed in altre parti. L’obiettivo era
risolvere il problema dei latifondisti e calmare la
rivendicazione alla terra senza considerare le
conseguenze. I campesinos arrivati qui sono originari
di Oaxaca, Michoacán, Guerrero, stato del Messico e
tutti quanti esigevamo che si colpissero le proprietà
o i grandi latifondi. Ma il governo ci rispose: "No,
posso darvi qualcosa solo qui nella selva".

-Fino a quando è durata questa politica?

- Nel 1989, inaspettatamente, il governatore
Patrocinio González Garrido proibì il disboscamento.
Nello stesso tempo, incominciò una campagna per
colpevolizzare i campesinos del degrado ambientale. Ma
noi campesinos non siamo mai stati i distruttori della
selva. Qui i saccheggiatori sono stati i militari che
catturavano le tartarughe e le guacamayas per
venderli. O i ricchi di Tabasco che venivano in aereo
da turismo a cacciare animali rari. Proprio qui
abbiamo requisito le armi ad un segretario di Governo
dello stato di Veracruz che veniva, anno dopo anno, a
cacciare la tigre ed ammazzava molte scimmie per
usarle come esche. E’ stato duro, ma ci siamo
riusciti: non vengono più.

- Sappiamo che una Ong presumibilmente ecologista,
Conservación Internacional, ha vari progetti nella
regione. Che opinione avete?

- Questa è una Ong formata da funzionari del
precedente governo federale, come l’ex segretaria
all’Ambiente, Julia Carabias, e l’ex presidente
Ernesto Zedillo, che si dedica alla biopirateria ed al
turismo esclusivo. Recentemente, CI ha realizzato due
stazioni di ricerca, una a Chajúl ed un’altra alla
foce del fiume Zendales col Lancatún. La seconda è
completamente illegale perché si trova in piena
biosfera dei Montes Azules. Si tenga presente che se
noi, i campesinos, osiamo violare questa regione, ci
mandano subito l’Esercito.

-Quali sono state per voi le conseguenze della
sollevazione zapatista?

- Lo zapatismo non ci provocato alcun danno; al
contrario, sotto la pressione degli avvenimenti, il
governo dovette asfaltare la strada sul confine ed
aprire centinaia di chilometri di strade verso le
comunità. Potremmo dire che nella zona di Marqués de
Comillas è servito, ci ha appoggiato.

* Claudio Albertani è professore all’Istituto di
Umanistica e Scienze Sociali dell’Università di Città
del Messico. Giovanni Proiettis è professore
all’Università Autonoma del Chiapas, a San Cristobal,
e corrispondente in Messico per il quotidiano italiano
Il Manifesto.

http://www.jornada.unam.mx/

 Traduzione Comitato Chiapas
"Maribel" - Bergamo)