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Realpolitik

Publie le martedì 6 aprile 2004 par Open-Publishing

L’unica Realpolitik in grado di salvare oggi l’Iraq, e con esso noi tutti, è quella ritenuta dai più impossibile. Due, e semplici, i punti che la sostanziano: il ritiro immediato dell’esercito Usa e delle forze militari loro alleate, Italia in testa, e l’arrivo di una forza multilaterale di pace sotto l’egida Onu, dalla quale siano esclusi i paesi che hanno voluto e sostenuto questa guerra illegale. Sarebbe il primo, vero, tangibile segno di rispetto nei confronti degli iracheni, la cui evoluzione politica, sociale ed economica sembra, a parole, stare a cuore a tanti.

I quali tuttavia non riescono a vedere (o fingono di non vedere) in che stretto rapporto sia ormai il «governo» di occupazione e il caos montante che sta sfaldando il paese, riducendolo a un ammasso di rabbia e risentimento che per essere districato richiederebbe risposte chiare, obiettivi trasparenti, percorsi di transizione tracciati alla luce del sole e condivisi nei tempi e nei modi. Non soldati assedianti-assediati coi nervi a fior di pelle, non milizie private a difesa di fior di interessi stranieri. Intorno alla tanto sbandierata data del 30 giugno si affolla ormai un’aspettativa vuota e ipocrita, che la sanguinosa quotidianità delle morti e degli assalti rende sempre più insensata.

Ma che significa «trasferimento dei poteri», se il senso dei due termini continua a essere nascosto da una nebbia retorica che cela i piani e i fini reali di chi aveva deciso che l’Iraq doveva essere il primo pezzo del nuovo, grande domino mediorientale. E ammesso pure che l’Iraq esca da una lunga storia di sopraffazioni incrociate, di violenze e lacerazioni interne che hanno indebolito la sua capacità di autogoverno e di dialettica politica, come si fa a pensare che un forcipe tanto brutale possa far nascere qualcosa, senza danneggiarla irreparabilmente?

Nessuno dimentica quando, durante la guerra, fu consentito il saccheggio del museo di Baghdad mentre si presidiava il ministero del petrolio. Il corrispettivo oggi è l’abbandono di scuole e ospedali iracheni, fonti di scarso profitto per le multinazionali degli appalti. Rimanga agli atti la dichiarazione del segretario Usa per la Sanità e i Servizi, Tommy Thompson, per il quale il problema degli ospedali in Iraq potrebbe essere risolto se gli iracheni «si lavassero le mani e pulissero la merda dai muri».

La malafede, unita all’incapacità di comprendere la natura di un paese come l’Iraq, stanno portando gli Stati uniti a un capolinea tragico, che sarà peggio del Vietnam e della Somalia. Perché stavolta ci siamo dentro tutti. L’Europa in allarme farebbe meglio a capirlo rapidamente. Il suo legame di storia e di sangue con il Mediterraneo le assegna un’altra, profonda diversità dagli Stati uniti e non le consente di separare il terrorismo che la minaccia da una soluzione politica alta, e non bellica, di quel coacervo di problemi che si annoda ogni giorno di più, trascinando nella sua stretta aree geografiche e popoli via via più vasti.

Di qui, un altro punto essenziale: non ci sarà soluzione alla questione irachena senza una soluzione equa del conflitto israelo-palestinese. Nella strategia dell’amministrazione Bush, disseminata di idee neocons, l’Iraq doveva essere il primo tassello di un piano di «normalizzazione» regionale che avrebbe coperto e garantito Israele. Che si prenda una volta tanto spunto dal pensiero degli strateghi di Washington, rovesciandolo a beneficio di tutti.

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