Home > Salari sempre più giù,è l’ora del conflitto
convegno sulla stagione sindacale nel segno della neoconcertazione
Salari sempre più giù. E’ questo il dato emerso ieri nel seminario "Prima il salario ed il lavoro" organizzato da Rifondazione comunista, partendo dall’osservazione empirica che i lavoratori non ce la fanno più, erosi tutti i margini di tenuta dei redditi da lavoro.
Due le relazioni: la prima, di Vittorio Rieser, per rifocalizzare la questione salariale nella sua "evoluzione storica", dall’accordo del luglio ’93 a oggi, e nella contestualizzazione delle politiche dei redditi degli ultimi dieci anni, viste non solo come mera protezione dall’erosione dell’inflazione ma soprattutto come redistribuzione equitativa sui redditi da lavoro della ricchezza nazionale prodotta, nelle componenti salariali legate al costo della vita (contingenza prima e adeguamenti contrattuali sull’inflazione programmata poi) e alla produttività, professionalità e prestazioni, attraverso le contrattazioni nazionali di categoria e, soprattutto, attraverso le contrattazioni integrative aziendali.
Una componente, quest’ultima, riferibile a una minoranza assoluta di aziende italiane, dato che all’80% il sistema italiano è fatto da piccole imprese (meno di 10 addetti) o addirittura da microattività (da 1 a 3 addetti); con l’aggravante che anche nelle realtà produttive di dimensioni medie o grandi la componente "contrattualizzata" è una minoranza, tra lavoratori interinali, cococo, atipici e precari a vario titolo (prima con il "pacchetto Treu" e adesso con la famigerata legge 30), e che i lavoratori che alla fine riescono a vedere qualche labile traccia redistributiva, sotto forma di premio di produzione o di risultato, sono - ha detto Rieser - la minoranza della minoranza.
La seconda relazione di Fabio Rapiti ha messo a fuoco "i risultati della strategia sindacale sulla base delle statistiche ufficiali". Rapiti ha parlato di regole e visioni delle politiche dei redditi: sia quella di origine keynesiana (incarnata dal governatore Fazio) il cui scopo è l’invarianza della quota di profitti e di salari sul reddito nazionale, tenere bassa l’inflazione, promuovere lo sviluppo economico e tenere sotto controllo i salari e i prezzi; sia quella "produttivista" e neoconcertativa (molto cara a Carlo Azeglio Ciampi e a Luca Cordero di Montezemolo), quale strumento per realizzare salari allineati con la produttività marginale del lavoro, in cambio della pace sociale e di risorse da liberare per far ripartire la crescita.
Di fatto in Italia non c’è stata alcuna politica dei redditi (né di centrodestra né di centrosinistra) in grado di garantire la tenuta del potere d’acquisto, la crescita dei redditi reali e di proiettare i propri effetti sugli investimenti - sostiene Rapiti - avendo come "scambio sociale" la ricaduta sul rafforzamento del tessuto produttivo e sulla crescita occupazionale e la ricontrattazione del welfare.
Invece, la contrattazione nazionale si è trasformata in una débacle che non ha assicurato la tenuta del potere d’acquisto delle retribuzioni reali, diminuite dello 0,4% l’anno nel periodo ’93-’97 e dello 0,1% l’anno dal 98 al 2003. Ma ciò non sarebbe stato così grave se il sistema delle relazioni industriali avesse assicurato una contrattazione decentrata in grado di assegnare alle retribuzioni di fatto «se non la totalità almeno parte dei guadagni di produttività».
"Dulcis in fundo" la questione fiscale. Dice Rapiti: «Nel periodo ’93-2003 il prelievo fiscale aumenta considerevolmente: le retribuzioni nette nel 2002 non arrivano a quelle del ’92; mentre aumenta la pressione fiscale sul lavoro diminuisce quella sull’impresa; fra il ’96 e il 2001, rispetto a una variazione media europea di un più 17%, i redditi reali netti in Italia rimangono invariati; la pressione fiscale sulle famiglie è passata dal 12, 9% del ’90 al 15, 4% nel 2003».
In Europa, nei sette anni tra il ’96 e il 2002, per un single senza figli, contro un aumento retributivo che va dal 32% in Irlanda all’8% in Austria, l’Italia registra un incremento pari a zero. Per una coppia con un reddito e due figli, contro un aumento che va dal 36% in Irlanda al 10% in Danimarca, l’Italia ha un incremento del 7% sul reddito netto disponibile, con un modesto 1% l’anno non per effetto delle dinamiche salariali ma per i sussidi alla famiglia.
Ultima notazione illuminante: «A fronte della moderazione salariale che ha caratterizzato l’azione sindacale nel corso degli ultimi dieci anni - ha detto Rapiti - non c’è stata in Italia alcuna evoluzione sul fronte della competitività del sistema produttivo né su quello della crescita del sistema economico». Si è trattato dunque di due fallimenti scaturiti da uno stesso errore di politica economica e di politica sindacale: la moderazione non spinge il Paese.
Gemma Contin