Home > Se fossi stato al vostro posto ... ma al vostro posto non ci sò stare ...

Se fossi stato al vostro posto ... ma al vostro posto non ci sò stare ...

par Militant

Publie le martedì 8 gennaio 2013 par Militant - Open-Publishing
2 commenti

Oggi il GUP di Roma ha comminato 6 anni di carcere a sei compagni per gli scontri del 15 ottobre. E’ strano, perchè chi ha assassinato Federico Aldrovandi ne ha presi appena 3 e mezzo. Mentre 9 sono stati gli anni di condanna di chi invece ha sparato in testa a Gabriele Sandri. Evidentemente per i tribunali italiani la carrozzeria e i sedili di un blindato devono valere molto di più. A Marco, Massimiliano, Mirko, Davide, Mauro e Cristian va la nostra solidarietà e complicità. La “giustizia” e la “legalità” di questo Stato non potranno mai essere le nostre.

"Tante le grinte, le ghigne, i musi, vagli a spiegare che è primavera e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera."

Fabrizio De Andrè, "Nella mia ora di libertà", 1973

Portfolio

Messaggi

  • Lettera aperta di Davide Rosci, condannato per i fatti del 15 ottobre 2011

    Quando sono stato arrestato il 20 aprile scorso, dissi che ero sereno; ciò che mi portava ad esserlo era la fiducia che riponevo nella giustizia, la consapevolezza che gli inquirenti non avessero in mano niente di compromettente e la percezione che, nonostante il grande clamore creato ad hoc dai mass-media, il processo fosse equo ed imparziale, così come previsto dalla legge.

    Mi sbagliavo! Ieri ho visto la vera faccia della giustizia italiana, quella manipolata dai poteri forti dello stato, quella che si potrebbe tranquillamente definire sommaria. Una giustizia che mi condanna a pene pesantissime, leggete bene, solo per esser stato fotografato nei pressi dei luoghi dove avvenivano gli scontri. Avete capito bene, ieri sono stato punito non perché immortalato nel compiere atti di violenza o per aver fatto qualcosa vietato dalla legge, ma per il semplice fatto che io fossi presente vicino al blindato che prende fuoco.

    Non tiro una pietra, non rompo nulla, non mi scaglio contro niente di niente. Mi limito a guardare il mezzo in fiamme in alcune scene, e in un’altre ridere di spalle al suddetto.

    Tali “pericolosi” atteggiamenti, mi hanno dapprima fatto guadagnare gli arresti domiciliari (8 mesi) ed ora anche una condanna (6 anni) che definirla sproporzionata sarebbe un eufemismo.

    Permettetemi allora di dire che la giustizia fa schifo, così come fa schifo questo “sistema” che, a distanza di anni e anni, dopo una lotta di liberazione, concede ancora la possibilità ai giudici di condannare gente utilizzando leggi fasciste. Si, devastazione e saccheggio è una legge di matrice fascista introdotta dal codice Rocco nel 1930, che viene sempre più spesso riesumata per punire dissidenti e oppositori politici solo perché ritenuti scomodi e quindi da annientare.

    Basta! Non chiedetemi di starmi zitto e accettare in silenzio tutto ciò, consentitemi di sfogarmi contro questo sistema marcio, che adotta la mano pesante contro noi poveri cristi e che invece chiude gli occhi dinanzi a fatti ben più gravi come il massacro della Diaz a Genova e i vari omicidi compiuti dalle forze dell’ordine nei confronti di persone inermi come Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri ancora.

    Non posso accettarlo! Grido con tutta la voce che ho in corpo la mia rabbia a questo nuovo regime fascista che mi condanna ora a Roma per aver osservato un blindato andare in fiamme e che ora mi accusa di associazione a delinquere a Teramo, solo per non aver mai piegato la testa.

    Non mi resta altro che percorrere la via più estrema per far sì che nessun’altro subisca quello che ho dovuto subire io e pertanto così come fece Antonio Gramsci, durante la prigionia fascista, anche io resisterò fino allo stremo per chiedere l’abolizione della legge di devastazione e saccheggio, la revisione del codice Rocco e che questo sistema repressivo venga arginato.

    Comunico pertanto che da oggi intraprenderò lo sciopero della fame e della sete ad oltranza fino a quando non si scorgerà un po’ di luce in fondo a questo tunnel eretto e protetto dai soliti noti.

    Concludo nel ringraziare i mie fratelli Antifascisti, i splendidi ragazzi della Est, i firmatari del Comitato Civile, i tantissimi che mi hanno dimostrato solidarietà in questi mesi e soprattutto quanti appoggeranno questa battaglia.

    Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere!

    Rosci Davide

    • 15 ottobre: a ridere eravamo in tanti

      La condanna a sei anni per devastazione, saccheggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale pluriaggravate di sei compagni imputati per l’assalto al blindato dei carabinieri in piazza San Giovanni, nel corso degli scontri del 15 ottobre 2011, segue ad analoghe condanne per gli stessi fatti, e merita alcune considerazioni. In primo luogo, è degno di nota che i compagni siano stati arrestati e sottoposti alla domiciliazione forzata non perché arrestati in flagranza di reato, ma perché identificati dai video a disposizione delle forze dell’ordine. Vale a dire che per un reato di rilevante gravità quale “devastazione e saccheggio”, ma altresì per lesioni pluriaggravate, è sufficiente essere riconoscibile all’interno di una ripresa, non importa in quale posizione o ruolo: come nel caso di Davide Rosci, che non ha tirato una sola pietra o bottiglia, limitandosi ad osservare l’accaduto senza fuggire. E a ridere: …e l’infame sorrise, ci insegnavano un tempo alle elementari, è lo stigma dell’infame Franti, possibile alter ego di Gaetano Bresci. Ride mentre viene assaltato un blindato che, lanciatosi all’interno di piazza San Giovanni, si trova isolato e viene abbandonato dai suoi occupanti: in quel momento quel parallelepipedo di lamiere, usato per criminali caroselli contro una moltitudine di compagni che non accettavano di essere scacciati dalla piazza, diventa un simbolo dello Stato, e come tale meritevole di tutela giuridica ben maggiore di quei dimostranti che solo per la prontezza individuale e la capacità collettiva di improvvisare una resistenza comune non sono finiti sotto i pneumatici (come Carlo Giuliani, come Giannino Zibecchi, come Gennaro Costantino, come Giovanni Ardizzone).

      Oltre allo sberleffo nei confronti del potere costituito, i sei condannati pagano la colpa di esserci. Quel pomeriggio la rappresentazione della rappresentazione di un movimento doveva consegnare a dirigenti politici e sindacali, a leader di partiti e di giornali-partito, la rassicurante parvenza di un movimento docilmente variegato, ironicamente innocuo, pronto ad avallare la rappresentazione di una radicalità in assenza di una reale, perturbante capacità antagonista: una rivoluzione dolce in diretta tv, introdotta da anchormen e anchorwomen, giornalisti d’inchiesta e politologi di fama. Com’è noto, non è andata così: e la spontanea, immediata resistenza, accresciutasi nel corso del pomeriggio, a piazza San Giovanni ha dimostrato l’impossibilità materiale di rinchiudere entro i limiti della rappresentanza la rabbia, l’indignazione, l’odio nei confronti del governo della finanza, dell’uso violento e disciplinare della crisi, dell’attacco alle condizioni minime di esistenza. Solo una lettura disincarnata del diritto e delle sue procedure, che ignora i corpi, le passioni e i desideri concreti che agivano quel pomeriggio può non vedere, dietro l’algido “fatto tecnico” dell’applicazione di un rodato articolo del codice penale – il 285, già sperimentato nelle condanne per gli scontri di Genova – non solo una risposta vendicativa, ma sopratutto un avvertimento nei confronti di quella resistenza collettiva che manifestava una pericolosa disponibilità a generalizzarsi. Che questa rabbia spontanea e irrappresentabile – dalla Val di Susa all’Ilva di Taranto, dai movimenti studenteschi ai lavoratori dell’Ikea – possa trovare un punto di coagulo è stata del resto l’ossessione degli yesmen e delle mosche cocchiere del “governo tecnico”: da cui la denuncia del rischio di “conflitto delegittimante”, o di un possibile “esito greco” della crisi.

      In questa situazione i sei compagni colpiti da un reato da Codice Rocco sono, nella loro concreta esistenza, figure di soggettività della crisi: condividono, nelle personali biografie, l’essere precarizzati nei processi lavorativi e nelle esistenze, indebitati per effetto della crisi che utilizza la forma del debito come strumento di governance, mediatizzati perché ridotti a quei cliché e stereotipi – il “black bloc”, il “violento”, l’”ultras”, i “quattro stronzi” – con cui i media riconfigurano e ridefiniscono le identità, e infine securizzati nel loro essere usati come monito dai gestori delle politiche della paura e del panico sociale. Una sola figura di soggettività non si attaglia loro: quella del rappresentato. Ed è questa irrappresentabilità, questa indisponibilità a delegare ad altri la pratica attiva della cittadinanza e il desiderio collettivo della democrazia, ciò viene fatto loro pagare con sei anni di galera.