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Sì alla Costituzione, cioè sì alla pace

Publie le sabato 17 aprile 2004 par Open-Publishing

Sull’Unità del giorno di Pasqua gli articoli del direttore Furio Colombo e di Peppino Caldarola hanno spezzato con efficacia quel predominio del fatto compiuto che prevale in molti commenti sulla situazione irachena. Ormai anche i sostenitori dell’intervento devono riconoscere una sequenza di fatti innegabile. Possono divincolarsi con mezzi retorici più o meno convincenti ma non possono nascondere la realtà. I motivi addotti per la guerra non esistevano, né i rapporti tra l’Iraq e Al Quaeda, né il possesso di armi di distruzione di massa; la guerra è stata vinta invano perché il terrorismo non solo non è stato sconfitto ma si è rafforzato, ha ampliato il suo raggio d’azione e minaccia di colpire ancora ovunque; la fine della guerra non è stata seguita dalla pace ma da una guerriglia prima insidiosa e strisciante, ora da segni di sommossa che possono sfociare in una crescente rivolta di popolo; e in essa i due schieramenti religiosi che si volevano nemici potrebbero coalizzarsi contro le armate incapaci di assicurare a se stesse e alla popolazione un livello minimo di sicurezza; l’Onu, che l’unilateralismo angloamericano ha voluto fin dall’inizio umiliare e tenere fuori dalla sua operazione di dominio geopolitico, dall’attentato terroristico alla sua sede è stata già attaccata come forza fiancheggiatrice e non ha le forze autonome per subentrare nel controllo di una situazione compromessa.

Di fronte a questa serie di fatti, anche i commentatori che riconoscono, come Sergio Romano, il fallimento sostanziale dell’intervento si piegano di fronte al fatto compiuto: è tutto vero ma è inutile stare a recriminare, ora siamo lì e anche se si tratta di un terribile pasticcio bisogna restarci per evitare danni peggiori, come il bagno di sangue di una prospettata guerra civile. Insomma, bisogna continuare a fare la guerra per evitare una guerra civile.
Ma i rimedi ipotizzati sono già stati incrinati dai fatti. Anche chi ha appoggiato di slancio l’intervento angloamericano dice ora che l’Onu deve subentrare agli Usa, ma proprio dagli Usa la sua autorità è stata minata. L’azione militare unilaterale iniziata per insediare un nuovo potere iracheno autonomo non solo non ha colto l’obbiettivo ma ora vorrebbe che esso si insediasse al più presto da solo per far cessare la necessità dell’azione militare medesima: ciò che doveva essere l’effetto dell’iniziativa diventa ora la condizione necessaria per la sua risoluzione.
Nel frattempo gli spiriti animali dell’iniziativa privata sono all’opera. Ansiose di prendere posto nella spartizione del mercato della ricostruzione, le imprese più intraprendenti si sono già installate e alimentano un costoso mercato di protezione militare privata per se stesse e i propri uomini. L’esistenza di migliaia di guardie private e di veri e propri mercenari moltiplica gli obbiettivi colpibili e dilata le possibilità della guerriglia (come dimostra l’inquietante vicenda dei quattro italiani in ostaggio). E da lunghi mesi, fin dall’attentato alla Croce Rossa è assurdo non riconoscere che anche i civili più impegnati nelle attività veramente umanitarie sono esposti a rischi imprevedibili e crescenti.

In realtà è difficile immaginare una soluzione pacifica per il teatro iracheno se gli Usa non cederanno del tutto comando e controllo all’Onu, se l’Onu non sarà dotata di una forza e di un’autorità che oggi non ha, se le sue truppe future non avranno qualche contiguità culturale con la popolazione e non saranno ben riconoscibili come non ostili. Tuttavia i retori del fatto compiuto vorrebbero evitare le critiche al passato. Ma senza la critica più radicale alla catena delle scelte sciagurate come si può trovare una soluzione che eviti di ripeterle? La catena comincia con l’ascesa di un uomo qualsiasi al vertice della massima potenza mondiale, meno votato del suo avversario ed eletto per un chiacchierato pugno di voti nello stato governato da suo fratello. Un uomo guidato da un gruppo di potere orientato fin dall’inizio ad aprire in ogni caso un fronte di conflitto nell’area più strategica del mondo. Un gruppo che ha fatto di tutto per aggravare il conflitto israeliano-palestinese che da decenni destabilizza tutta l’area e fornisce l’alimento ideologico capace di troncare ad ogni passo le speranze nutrite dai saggi lungimiranti di entrambe le parti, pronti a darsi l’un l’altro terra in cambio di pace. La scelta dell’invasione illegittima dell’Iraq dopo la scomparsa di Bin Laden ha liberato un popolo dal suo dittatore, ma l’esercito liberatore si comporta sempre di più come una forza di occupazione: spara contro la popolazione civile e obbliga i suoi alleati a fare altrettanto. Crea le condizioni per una nuova dittatura integralista.

È una catena che ha costretto i nostri soldati in una condizione su cui ha ragione il direttore a insistere: sottoposti agli ordini indiscutibili del comando angloamericano in una guerra non dichiarata, esposti alla necessità di ricevere e dare la morte, in aperto contrasto col dettato costituzionale dell’articolo 11. Qui la causa è la politica estera più servile di tutta l’esperienza repubblicana, guidata da un soggetto ineleggibile, monopolista televisivo e imputato di corruzione della magistratura. Il quale sembra pensare invano che il suo viaggio lampo, prima rinviato per più impellenti necessità di plastica facciale, riesca a nascondere la consegna in mano altrui del comando sui soldati italiani. Ma il dispregio della Costituzione mostrato dal governo non stupisce perché la sua maggioranza sta demolendola a passo di carica con l’intenzione di vanificare la repubblica parlamentare, ridurre il Senato a un organo ibrido a mezza strada tra la rappresentanza nazionale e quelle regionali, privare il Capo dello Stato di tutte le sue prerogative principali, consegnare tutti i poteri sostanziali a un premierato assoluto, che non è affatto escluso possa cadere nelle mani più indegne.

Così guerra e Costituzione sono legate tra loro in un nodo stringente. Chi ha appoggiato la guerra preventiva ha ferito la Costituzione e l’ha ferita perché pensa di seppellirla. Chi è contrario alla guerra preventiva deve difendere la Costituzione non solo per affermare la validità dell’articolo 11, ma perché può garantire il ruolo di pace dell’Italia solo se saprà proteggere intera la sua Costituzione democratica e la sua natura di repubblica parlamentare.
Sulla Repubblica dell’altro ieri Miriam Mafai chiedeva di evitare un uso strumentale del 25 aprile, nel timore che un accostamento tra il passato italiano e il presente iracheno possa contaminare la nostra idea di Resistenza con la rivolta antioccidentale in corso. Ma c’è un uso profondamente serio del 25 aprile su cui molti cittadini potrebbero concordare: riaffermare nella memoria della Resistenza la difesa irremovibile della Costituzione e il rifiuto della guerra, sostenere il ritorno a casa dei nostri soldati, rinnovare nelle piazze il patto costituente, raccogliere le forze per far sì che le elezioni europee e amministrative rappresentino una decisa sconfitta per chi vuole affossarlo.