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Sindrome francese

Publie le mercoledì 31 marzo 2004 par Open-Publishing

Alle elezioni regionali in Francia la sinistra plurale, che era stata messa a terra nelle ultime
legislative, ha sfondato: si è conquistata il governo di 21 regioni su 22 - sola eccezione
l’Alsazia - cosa che non era mai avvenuta nell’esagono. E’ cambiato il vento, dicono i commentatori
italiani, presi di contropiede.

Fino a un mese fa spirava a favore della destra, adesso spira a favore
della sinistra. Ma questa interpretazione atmosferica è un po’ sciocca. Se è vero che l’elettorato
è diventato più nervoso, che è finita l’epoca in cui da una elezione all’altra era tanto se i
protagonisti della scena politica cambiavano due o tre punti, perché ciascuno di loro aveva un legame
ormai perduto con una sua base sicura, un’osservazione appena un poco attenta dice che nella
vecchia Europa il vento non cambia affatto: qualunque governo va a picco se entra in guerra dietro agli
Stati Uniti e se insiste nella demolizione dello stato sociale, partita duramente iniziata ma nel
nostro continente non ancora chiusa.

Se è la destra che va in guerra e fa una politica puramente
monetaria, antinflazionista, tutta di tagli alla spesa sociale, un agglomerato di sinistra al primo
appuntamento la farà cadere. Lo stesso agglomerato farà cadere il governo di sinistra se crede di
poter percorrere quella stessa strada.

E’ una lezione che Massimo D’Alema dovrebbe meditare. I
governi di sinistra che hanno tentato di cavalcare una «modernizzazione» moderata prima Gonzales in
Spagna, poi il governo Jospin in Francia e il centrosinistra in Italia - sono caduti come birilli.

E Schroeder è in difficoltà, e anche Blair.

Con la questione sociale non si scherza. In Francia la delusione era stata così amara e furente
che perfino buona parte dei lavoratori erano giunti a votare per protesta l’estrema destra. Jospin
era una brava persona, ma sull’occupazione e il welfare aveva ceduto ai dettami europei e alla
linea sciagurata dell’Internazionale socialista. Raffarin, seguendo politiche analoghe, è sceso in
breve tempo al 37 per cento.

Ha ammesso la sconfitta, perché non s’è sognato di addizionare al suo 37 e qualcosa per cento il
12 e qualcosa per cento di Le Pen, che la borghesia francese non ha sdoganato né in sede nazionale
né in quella locale. Mentre in Italia Berlusconi, Fini e il casto Follini non mettono paletti a
destra, inglobano tutto, inseguono e lusingano fin la peggiore canaglia populista. Non è una
differenza da poco.

Per questo motivo in Francia le sinistre della Lega comunista di Krivine e di Lotta
operaia di Arlette Larguiller, nonché una parte degli astensionisti, sanno di non rischiare
granché, contando che la stessa odiata classe dirigente borghese esclude per principio la propria ala
estrema. Lo «spirito repubblicano» non è uno scherzo. Il governo Raffarin non ha reagito col
berlusconiano «tirerò dritto» e non ha accusato complotti comunisti. Ha incassato il colpo e dovrà, come
minimo, andare a un rimpasto. Per lo stesso presidente Chirac è un guaio serio.

La sinistra plurale, vittoriosa, dovrà ricordare bene che le è stata offerta una seconda
occasione, nella quale deve dare risposta alla questione che a qualunque sinistra si presenta dappertutto:
non deve dire di sì alla guerra - ma questo in Francia nessuno glielo chiede - e non può
consegnare l’occupazione, i diritti del lavoro, la previdenza, la sanità, la scuola e la ricerca al
mercato, alla competitività, ai parametri di Maastricht e al Patto di stabilità.

Non lo può fare perché
sarebbe rovesciata di nuovo, e stavolta in modo da non potersi risollevare per un pezzo. Questo
vale anche per Zapatero che ha vinto e per Schroeder che rischia di perdere di brutto.

La Carta
europea non la aiuterà: deve modificarla nei fatti e con i rapporti di forza che oggi sono mutati a suo
favore. La democrazia è logorata e l’alternanza non avrà più nulla di meccanico.