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Sudan, dove nasce la guerra infinita del Darfur

Publie le giovedì 15 luglio 2004 par Open-Publishing

di GIAMPAOLO CALCHI NOVATI

Il Darfur, collocato geograficamente nella parte occidentale del Sudan, il più vasto paese africano per la superficie del territorio, è eccentrico rispetto all’asse del Nilo nel cui bacino si è costituito storicamente il Sudan, come prosecuzione o espansione verso sud dello stato egiziano, e attorno a cui si è organizzata la sua vita urbana e produttiva. La regione del Darfur ha gravitato piuttosto negli imperi e stati dell’Africa centrale, più propriamente sahariani e imperniati nel bacino del lago Ciad. In questa prospettiva, il Darfur, non essendo né Nord né Sud, è rimasto estraneo al conflitto che più ha influito sulla storia recente del Sudan, vale a dire il conflitto fra il Nord dominante, che ha imposto l’arabo e la legge coranica come connotati essenziali dello stato, e il Sud abitato da popolazioni nere in parte cristianizzate che ha subito con disagio e contrastato con le armi quel dominio e quel tipo di cultura.

Fra l’altro, benché etnicamente più affine alle genti stanziate nel Sud, la popolazione del Darfur è in maggioranza musulmana e se mai la sua opposizione, anche armata, riflette l’insofferenza tipica delle popolazioni marginali e nomadi per l’autorità del centro (si pensi al caso dei Tuareg), ma senza particolari valenze religiose. Questa precisazione può apparire superflua tanto è scontata. Ma nel coro delle voci che negli ultimi tempi si sono levate anche in Italia per denunciare un problema reale - la gravissima emergenza umanitaria che affligge il Darfur - si è fatta molta confusione, un po’ per ignoranza e un po’ perché può sempre tornare utile, suggerendo insidiosamente una certa assonanza con la guerra fra il Nord e il Sud, calcare la mano sull’Islam oppressivo e violento. Bisogna riconoscere che in tanta approssimazione si è distinto Sergio Romano, che ha scritto un lungo articolo sul Corriere della Sera molto preciso e argomentato. Quale sia del resto il grado effettivo di «partecipazione» del nostro mondo politico e della nostra opinione pubblica al dramma del Darfur e del Sudan in generale è risultato chiaro dalla vergognosa vicenda della nave tedesca bloccata per giorni e giorni al largo delle coste della Sicilia.

Sul Manifesto ne ha scritto benissimo Alessandro Dal Lago. Da una parte si invoca il solito «intervento» riparatore dell’Occidente giusto e benevolo per i problemi del Sudan e, magari esagerando, dell’Africa tutta, e dall’altra si nega non si dice l’asilo, ma, fino all’ultimo lo sbarco a una manciata di profughi - ai quali ora è già stato consegnato il decreto d’espulsione e che sono sballottati, illegalmente, da un Centro di permanenza a un altro. Ci saranno pure problemi giuridici complessi. Si vorrà pure evitare di creare un precedente. Sarà pure colpa dei formalismi della burocrazia. Ma se l’Italia come autorità, nazione e popolo, non è in grado di assistere 37 (trentasette) disgraziati sfuggiti all’inferno del Darfur di cui si è finto di farci carico, sarebbe più dignitoso lasciar perdere una volta per tutte i discorsi sul diritto e dovere del mondo civile, il nostro naturalmente, di portare il progresso, la democrazia e lo sviluppo nel Terzo mondo.

La triste realtà è che la crisi del Darfur è un sottoprodotto non della guerra Nord-Sud (sempre con riferimento al Sudan) ma della pace o mezza pace che il governo di Khartoum e il principale esercito combattente dei ribelli sudisti, il Sudan people’s liberation army (Spla), hanno abbozzato con la mediazione degli Stati Uniti. E’ come se il governo centrale abbia approfittato dei nuovi assetti che si stanno delineando fra Nord e Sud per regolare i conti con la turbolenza nel Darfur. Oppure - viceversa ma non in completa contraddizione con il primo assunto - le forze anticentraliste del Darfur hanno pensato che fosse venuto il momento di affondare i colpi per non restar fuori dal riassetto in atto, sollecitando una forma di autonomia anche per questa regione decentrata e un accesso più equo alle ricchezze nazionali. Va ricordato che l’accordo fra Khartoum e Spla prevede un periodo di transizione in cui le istituzioni e le risorse (in pratica i giacimenti petroliferi, compresi tutti nelle province meridionali) saranno gestite insieme, addirittura con un governo di unità nazionale e fondendo gli eserciti, ma stabilisce una specie di diritto di autodeterminazione per il Sud-Sudan alla fine di tale periodo. E’ una soluzione concettualmente ambigua, perché non sceglie in modo netto fra inclusione o separazione, e politicamente pericolosa, perché insinua nella politica sudanese il tarlo del dubbio sulla tenuta della compagine statale, autorizzando per di più l’idea che il ricorso alla guerra può «pagare».

Per la sua posizione fra Sahara e Africa nera, il Darfur è per definizione una regione di transito, instabile ed ecologicamente molto fragile. I traffici leciti e illeciti sono una sua ragion d’essere. La sopravvivenza fisica della popolazione è subordinata a un attento dosaggio di amministrazione, attività economica e insediamenti abitativi. Ogni eccesso, ogni atto che minacci il precarissimo equilibrio, ogni violenza sugli uomini o sul territorio, rischia di avere effetti catastrofici. E così è stato. Si può capire perché l’intensificazione delle operazioni militari abbia provocato migliaia di morti e centinaia di migliaia o un milione di sfollati, profughi e disadattati. Poco importa il prima e il dopo, cioè se l’inasprimento della belligeranza sia avvenuto per iniziativa delle milizie islamiche che sono solite scorrazzare nella regione depredando e taglieggiando, che nell’occasione potrebbero essere state armate e politicamente motivate dal governo, o per iniziativa dei due eserciti, nemmeno alleati e coordinati fra loro, in cui si esprime il ribellismo delle tribù nere del Darfur. Certo le due violenze si sono provocate e giustificate a vicenda come azione e reazione moltiplicando le conseguenze di indigenza e di morte per gli abitanti, che vivono sempre al limite, anche in condizioni normali.

Le testimonianze sulle dimensioni della tragedia non mancano ma non è detto che siano tutte obiettive. Il governo ha smentito i resoconti peggiori e ha cercato di dividere le responsabilità fra la politica e la natura oltre che fra i diversi protagonisti della violenza armata. Le pressioni del governo americano, che ha inviato sul posto un Colin Powell serioso e minacciante, potrebbero indurre alla ragione il presidente Bashir e le bande ai suoi ordini. La politica «neo-cons» sull’Africa è un mix influenzato dai settori della comunità afro-americana più vicini all’establishment, dai fondamentalisti cristiani e dalle lobbies ebraiche più anti-arabe. Gli Stati Uniti hanno di regola sostenuto i «ribelli» del Spla ma ora puntano tutto sulla cessazione delle ostilità e su un’intesa. Bush si è convinto che è meglio stabilizzare il regime militare di Khartoum servendosene come un avamposto (del sistema di sicurezza occidentale) dopo averlo tanto osteggiato in quanto retrovia (del radicalismo islamico). Per l’America la crisi del Darfur è un incidente fastidioso che va possibilmente risolto al costo minore, inquadrando il tutto, forse strumentalmente, nelle prospettive della «guerra infinita» in una zona comunque nevralgica. Anche l’Onu ha voluto mostrare i muscoli. C’è da sperare che almeno Kofi Annan sia neutrale e orienti i suoi sforzi per far finire la violenza e assistere al meglio la popolazione.

Il Manifesto