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TORTURA ALL’ITALIANA: INTERNI E GIUSTIZIA DARANNO RISPOSTE?

par Lucio Galluzzi

Publie le venerdì 10 febbraio 2012 par Lucio Galluzzi - Open-Publishing
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IL "PROFESSOR DE TORMENTIS" E LE SUE SQUADRACCE DELL’ORRORE
Su iniziativa della deputata radicale Rita Bernardini, qualche tempo fa, è stata depositata in Parlamento una interrogazione al ministro della Giustizia e degli Interni, nella quale si chiedono risposte ufficiali circa i casi di tortura contro fiancheggiatori e militanti delle Brigate Rosse, avvenuti tra fine anni ’70 e inizio anni 80.
Un funzionario dell’Ucigos [ora Polizia di Prevenzione], conosciuto con il sinistro soprannome di "Professor de Tormentis", guidava una squadra di poliziotti della mobile napoletana addestrati in varie tecniche di tortura e violenze psicofisiche, tra le quali "l’Algerina": il waterboarding [annegamento] con acqua e sale.
Salvatore Genova, ex commissario della Digos, oggi questore, uno degli autori delle indagini sulle BR negli anni 80, in alcune interviste al Secolo XIX, rivela l’esistenza di due gruppi che venivano identificati con i titoli di due cult movie: "I cinque dell’Ave Maria" e "I vendicatori della notte".
Le due "formazioni" intervenivano dopo i fermi di persone sospette di appartenere alla BR o fiancheggiatori e cercavano di estorcere informazioni e confessioni per mezzo di sevizie e violenze, seguendo un "protocollo" messo a punto dal "Professor De Tormentis".
Genova racconta così il trattamento riservato a Nazareno Mantovani, uno dei primi fermati nelle indagini sul rapimento del generale Dozier:
"Fu spogliato, disteso supino su un tavolo di legno e legato alle quattro estremità; la testa e la parte superiore del tronco uscivano fuori.
Le persone che lo circondavano erano tutte incappucciate: urlavano, minacciavano, gli annunciavano cose terribili; uno teneva aperta la bocca del prigioniero e gli chiudeva il naso.
Un altro gli teneva la testa, mentre un terzo cominciò a versare in maniera sistematica, ritmica e controllata acqua e sale, attraverso una cannula inserita in gola in modo sapiente.
Mezzo litro, poi si fermava una decina di secondi per far sì che Mantovani non soffocasse e poi ricominciava.
Mantovani non parlò.
Dopo un’ora di trattamento, il "professore" decise di sospenderlo.
Il sospetto brigatista era già svenuto due volte e c’era il rischio che ci rimettesse la pelle..."
Alla fine dello "spettacolo" due uomini al comando di Genova dissero al loro capo che se ne tornavano a casa.
Non se la sentivano di assistere ad una cosa del genere.
Rita Bernardini, nella sua interrogazione, cita l’inchiesta pubblicata da Liberazione, l’11 dicembre 2011, ne riprende ampi stralci, si sofferma sulla personalità e curriculum "professionale", culturale e politico del capo dei torturatori che prende il suo soprannome dal "Tractatus de Tormentis", scritto da un non noto criminalista bolognese di fine 1200, citato molte volte da Manzoni nella Colonna Infame.
In quel trattato vengono descritte minuziosamente, nei minimi particolari esecutivi, tecniche e minuziose regole procedurali da seguire per giungere alla "prova regina": la confessione del reo.
La Bernardini chiede ai Ministri competenti se "non intendano verificare l’identità e il ruolo svolto, all’epoca dei fatti dal funzionario dell’Ucigos nascosto dallo pseudonimo ’professor de Tormentis’ e se non sia il caso di istituire una Commissione di Inchiesta, specifica, per accertare i fatti e le responsabilità, per l’identificazione e l’operato dei due gruppi addetti alle sevizie ai quali fanno riferimento gli ex funzionari della Polizia di Stato".
Sempre Bernardini nell’interrogazione domanda se: "il Governo intenda adottare con urgenza misure volte all’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura e di specifiche sanzioni al riguardo, in attuazione di quanto ratificato in sede ONU e se non sia utile assumere iniziative, anche normative, in favore di risarcimenti per le vittime di atti di tortura e violenze da parte di funzionari dello Stato e per i loro famigliari."
Secondo alcune fonti, il "professor De Tormentis" sarebbe l’uomo a destra di Cossiga nella foto scattata intorno al ritrovamento dell’auto con il corpo di Aldo Moro, nel 1978, in via Caetani.
Secondo il Corriere della Sera, il professor De Tormentis si chiama Nicola Ciocia, ha 78 anni, è pugliese di Bitonto, ma vive a Napoli, città nella quale diresse prima la squadra mobile, poi la Sezione Interregionale Campania e Molise dell’Ispettorato Generale Antiterrorismo.
Dalla polizia si dimise nel 1984 con il grado di Questore, non accettò la sede di Trapani.
Fino a pochi anni fa ha fatto l’avvocato.
Il suo nome però, misteriosamente, poco tempo fa, "scompare" dall’albo on line dell’Ordine.
Si sarebbe ritirato del tutto, esce raramente dalla sua casa sulla collina del Vomero.
Di sé dice: "Sono mussoliniano, per la legalità".
Tiene il busto del duce sulla libreria, non ammette esplicitamente di aver praticato la tortura, anche se a dire il contrario non c’è solamente Salvatore Genova.
Agli atti di inchieste mai portare a termine, ci sono le denunce di molti brigatisti come ad esempio Ennio di Rocco che con la sua confessione consentì vari arresti tra i quali quello di Giovanni Senzani, condannato a morte dalle BR fu ucciso in carcere.
Ciocia è bravo a schivare le domande:
Lo stato italiano praticò la tortura attraverso lei e la sua squadra per sconfiggere le Brigate Rosse? «Le Br hanno fatto stragi, e avrebbero continuato se non fossero state debellate da una azione decisa dello stato». Una azione che si concretizzò anche attraverso i suoi interrogatori? «Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio. Non serve far male fisicamente. Io in vita mia ho dato solo uno schiaffo a un nappista che non voleva dirmi il suo nome».
Ciocia sostiene che «non si può affermare che torturavamo i brigatisti, facendo passare noi per macellai e loro per persone inermi». Arriva a dire che «Di Rocco si mise spontaneamente a disposizione della giustizia», e su Triaca si lascia scappare un ambiguo «lui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionavano». E insiste pure: «La lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano, ma io ho fatto sempre e solo il mio dovere, ottenendo a volte risultati e a volte no. Perché non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci».

«Quei metodi», «quei sistemi», «quelle pratiche»: sembrano tutti modi per non pronunciare la parola tortura. E Ciocia non la pronuncia: «Lo Stato si attivò per difendere la democrazia. I macellai erano loro, non noi».

[Corsera, 10.02.2012]
Per approfondire:

Lucio Galluzzi

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