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Le autobombe di Bassora che fanno strage di bambini sono solo l’atto più recente di un’esposizione
universale del terrore. Non sarà l’ultimo. L’Iraq sembra diventato una mostra impazzita delle
forme di conflitto del ’900: autobombe e kamikaze, proteste di piazza, rivolte e loro repressione,
attacchi militari e sequestri di ostaggi (assassinati o rilasciati dopo trattativa), si concentrano
in uno stesso luogo in un andirivieni apparentemente privo di senso, soprattutto senza una logica
politica.
O, almeno, così ci appare, incapaci di capire fino in fondo che l’esercizio della forza -
in chiave militare - è diventato la forma della politica del XXI secolo. E trarne le dovute
conseguenze per costruire una nuova politica, perdendoci invece in paranoie tragiche («avanti fino alla
vittoria» e all’eliminazione dell’avversario) o ridicole («con i terroristi non si tratta», salvo
poi trattare). Persino chi ha denunciato fin dall’inizio il salto di paradigma rappresentato
dall’11 settembre e la follia dell’avventura bellica di Bush fatica a comprendere pienamente il
significato dell’espressione «guerra permanente». Cioè di guerre (ufficiali e «informali») che non
tollerano alcun terreno di mediazione politica, che si alimentano di se stesse e dei loro integralismi
ideologici - religiosi o mercantili - in un modernissimo remake dei conflitti europei del `600.
La
guerra irachena - ma dovremmo dire mediorientale - può anche essere letta, da una parte e
dall’altra, attraverso i consueti canoni degli interessi economici (il petrolio), strategici (l’avamposto
americano), identitari (la liberazione dei luoghi santi dell’Islam), nazionalistici (la cacciata
dell’occupante). Ma è una lettura parziale, insufficiente. Più a fondo non c’è lo scontro di
civiltà propagandato da destra, bensì una logica distruttiva: nessuno può uscirne vincitore assoluto, ma
le parti (anche quelle che si combattono dentro i due schieramenti) si affrontano per esserci, più
che per prevalere. Il risultato però non è «a saldo zero», sono i massacri.
In questo stravolgimento generale anche le parole rischiano di perdere il loro senso. Resistenza
da noi ha un significato preciso, si accompagna ai valori costitutivi di una democrazia
rappresentativa che ha affondato le proprie radici nell’onda lunga dell’89 francese (ed è per noi naturale
celebrarla il prossimo 25 aprile in chiave pacifista chiedendo il ritiro delle truppe). In Iraq ha
solo un significato «tecnico», militare: sappiamo contro cosa si resiste ma non per cosa. E non
basta la resistenza a un’occupazione militare illegittima per qualificare il senso di quel termine.
Anche il «come» si resiste è conseguente alle sue finalità. E in Iraq dimostra l’assenza totale di
autonomia dalle logiche di chi si combatte, diventa parte costituente della guerra preventiva. La
distinzione è solo sul terreno della disparità tecnologica, nel divario militare che separa
l’esercito più potente del mondo dai «barbari». Termine che suggeriremmo di evitare, se non altro per i
precedenti storici che hanno sempre visto i barbari conquistare, alla fine, gli imperi. Anche a
costo di seminare morte e terrore.