Home > Truppe d’assalto
Suonano le trombe, rullano i tamburi, è venuta a galla tutta la retorica patriottarda. Come se non
si potesse tutelare l’idea di nazione senza clangori di fanfare e senza nazionalismi davvero fuori
posto in questa disgraziata occasione. Non ci è stato risparmiato niente, la destra italiana, nel
fondo del cuore, non è cambiata di molto dal fascismo in qua. La parola eroe è stata ammannita a
piene mani, a sproposito. Quella frase che sarebbe stata pronunciata dall’infelice Fabrizio
Quattrocchi prima di morire ha riempito di imbarazzanti entusiasmi anime intrise di campanilismi di
provincia, disturbate dalla normalità della vita ed è servita a coprire le nequizie quotidiane, le
omissioni, le menzogne, l’incompetenza dei governanti e dei loro piccoli servi, oltre che le
violazioni della legge e della Costituzione.
È un tempo schizofrenico, questo che stiamo vivendo. Sono spuntati i pentiti, un buon segno,
quelli che si sono resi conto di aver sbagliato nel valutare la necessità della guerra di Bush per
combattere il terrorismo. Quando mai si combatte il terrorismo con gli eserciti? Si potrebbe
infierire. La forza dei princìpi ora ha prevalso facendo mutare opinione a non poche persone di buona
volontà infinocchiate dalla propaganda. Ma come è potuto accadere che donne e uomini colti, se in buona
fede, non abbiano capito subito che la democrazia dell’Occidente non è esportabile in paesi con
differenti radici politiche e religiose che la rifiutano quasi geneticamente? Conoscevano così poco
la politica, la storia, la geografia? Non occorreva aver frequentato scuole di alti studi
strategici per rendersi conto che i corpi di spedizione partiti con la leggerezza dei cultori delle guerre
lampo andavano a infognarsi in uno dei punti più delicati e pericolosi del mondo. Un paese diviso
da etnie in conflitto tra loro che aveva sofferto sì per una dittatura sanguinaria, ma che
manteneva intatta la fierezza del suo spirito indipendente.
Ci sono poi, al contrario, gli altri, incattiviti, che seguitano a negare che questa dell’Iraq sia
un guerra. Dicono di no anche davanti all’evidenza, ai morti quotidiani, agli attentati, ai
combattimenti sanguinosi, alle stragi, ai segni della lotta di liberazione che sta saldando contro gli
eserciti stranieri anche antichi avversari e nemici. Non è vero, non è una guerra, dicono e
ripetono come automi le controfigure berlusconiane. E fanno venire in mente quella pagina in cui George
Orwell, nel suo 1984, descrive gli slogan incisi sulla facciata del Ministero della Verità: «La
guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza». O quell’altra scritta posta dai
nazisti sul cancello del lager di Auschwitz: «Il lavoro rende liberi». O ancora, per dar prova del
rovesciamento del significato consueto delle parole in uso in questi anni, si può scomodare persino
Tucidide che scrive così in una pagina del Libro terzo della Guerra del Peloponneso: «L’audacia
sconsiderata fu ritenuta coraggiosa lealtà verso i compagni, il prudente indugio viltà sotto una
bella apparenza, la moderazione schermo alla codardia, e l’intelligenza di fronte alla complessità del
reale inerzia di fronte ad ogni stimolo; (...)Chi inveiva infuriato, riscuoteva sempre credito, ma
chi lo contrastava era visto con diffidenza».
Si continua a proclamare che quella dell’Iraq è una missione umanitaria. Affermazione non vera,
priva di ogni scrupolo. Il contingente italiano non è in grado di svolgere quella missione ed è
indifeso. Quel che interessava ai governanti del centrodestra era sedere al tavolo della «pace» o
meglio al tavolino degli appalti dove, tra l’altro, hanno racimolato briciole. Subalterni, privi di
ogni orgoglio nazionale: il contingente italiano opera sotto il comando britannico, deve render
conto di tutto quel che fa. E se - per esigenze militari - gli viene ordinato di far fuoco, anche al
di là della legittima difesa, deve soltanto ubbidire. E si capisce come per gli iracheni in rivolta
non ci sia alcuna differenza tra le truppe dei diversi Stati che occupano il loro paese. E si
capisce meglio, se non lo si fosse capito prima, che l’invio del corpo di spedizione in Iraq viola
l’articolo 11 della Costituzione che vieta la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali». I soldati italiani devono tornare a casa.
Dopo l’annuncio del premier spagnolo Zapatero di ritirare le truppe, c’è stata una levata di scudi
non solo di Bush, ma anche dei pretoriani di Berlusconi, lieto invece per essere diventato l’unico
rappresentante Usa dell’area Europa. Un leader della maggioranza, Follini, ha citato, a paragone
di quella per lui improvvida decisione spagnola, l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943.
L’8 settembre, qui da noi - non fu, sessant’anni fa, la morte della patria, fu la catastrofe dello
Stato fascista - è andato in onda quella sera famosa alla tv, con il ministro degli Esteri
Frattini, convitato di pietra sulla sua poltroncina; Berlusconi in ispezione alle sue ville in Sardegna;
Fini a far la pesca subacquea nel Mar Rosso.
Questi inadeguati personaggi, dopo aver sbagliato tutto, trovano ora naturale, in un momento assai
difficile per il paese, che si crei in Italia un’unità di intenti, un clima di solidarietà
nazionale. In subordine, naturalmente, a un bell’inciucio - pasticcio, intrigo, accordo improprio,
pastrocchio - evocato anche da qualche anima bella dell’opposizione, in nome della Repubblica da
salvare. Naturalmente il centrosinistra, secondo il centrodestra, dovrebbe sottoporsi a qualche prova di
sottomissione e dare le dovute garanzie.
L’UNITA’