Home > Una Convenzione contro la guerra
Proseguire nella polemica sulla presunta "aggressione" a Fassino
rischia di farci perdere di vista le questioni importanti, quelle poste
dal milione di donne e uomini che hanno manifestato a Roma il 20
marzo.
Va anzitutto ricordato che le "ambiguità" dei dirigenti riformisti non
sono il semplice frutto di un "tatticismo politicista", ma il prodotto
della condivisione del "pensiero unico della difesa", naturale
corrispettivo del pensiero unico del mercato e del liberismo,
maturata nel corso degli anni 90. Questa condivisione li ha portati a
promuovere, in Italia e in Europa, la trasformazione delle Forze
armate e delle strategie militari in direzione della «tutela degli
interessi nazionali ovunque minacciati».
Questa concezione è stata interiorizzata ed applicata dai leader
del centrosinistra, in particolare con la "guerra umanitaria" della
Nato contro la Rfj, fino alla guerra in Afghanistan. Ora, ed è ancora
più grave, si preparano a condividerla nuovamente, richiamando le
posizioni analoghe di Blair, Chirac e Schroeder che intendono
lanciare una "difesa comune" europea, nel quadro della Nato e
subordinata alle stesse logiche e modalità di impiego. I dirigenti
"riformisti" hanno bisogno di accreditarsi non tanto di fronte ai loro
elettori - convinti evidentemente che comunque riceveranno il voto
"contro Berlusconi" - quanto dentro i gruppi dirigenti politici ed
economici europei e mondiali.
Per questo si dice che «non si può semplicemente venire via
dall’Iraq». A preoccupare non sono le condizioni del popolo
iracheno, che peraltro peggiorano quotidianamente proprio a causa
dell’occupazione militare, ma la ne cessità di fare i conti con una
situazione nuova, cioè l’occupazione, che li costringe a "venire a
patti". Naturalmente preferirebbero che questa stessa occupazione
cambiasse di mano (verso la Nato o l’Onu e la Ue), così da avere
maggior peso dentro il quadro della politica europea.
A questo punto occorre cominciare a chiedersi come si può
costruire un’efficace alternativa politica alla "deriva" dei riformisti e
al "pensiero unico" della guerra e delle "missioni di pace".
Siamo d’accordo che questa riflessione non debba concentrarsi
sulla possibilità o meno della nascita di un "nuovo soggetto
politico" pacifista, bensì sui contenuti e sugli obiettivi che vogliamo
darci per dare fiato a una proposta alternativa.
Crediamo possa essere utile discutere di un Patto o di una
Convenzione - ma i nomi non hanno davvero importanza - tra settori
sociali e politici che condividono questo percorso; un impegno di
reti nazionali ed esperienze locali del movimento contro la guerra e
di parlamentari e candidati alle elezioni europee, perché, qualsiasi
sia il governo in carica nei prossimi mesi e anni, si intraprendano
azioni concrete per sviluppare politiche di pace.
Una Convenzione che non abbia al centro delle sue preoccupazioni
il rapporto con le forze politiche, in particolare con il centrosinistra,
ma la capacità di iniziativa autonoma che imponga il terreno di
discussione e di i mpegno istituzionale.
Questo "patto" dovrebbe secondo noi contenere alcuni impegni
precisi (e questo è naturalmente il terreno della discussione): il
ritiro immediato dei militari italiani dall’Iraq e dall’Afghanistan e il
ripensamento della l ogica stessa delle "missioni di pace"; la
riduzione drastica delle spese militari; il ripristino di controlli rigidi
sul commercio di armamenti e il finanziamento di progetti di
riconversione dell’industria bellica, (smet tendo di operare come
piazzisti del "made in Italy" o "in "Europe"), anche per dare alle
lavoratrici ed ai lavoratori di quelle aziende un futuro occupazionale
differente e certo; rilancio delle iniziative per il controll o e la
riconversione delle basi militari, a partire dalla chiusura di quelle
immediatamente pericolose per la presenza di armi di distruzione
di massa o per l’uso di sostanze che mettono a rischio la
popolazione del terri torio (è il caso della Maddalena e dei poligoni
di tiro sardi); rilancio del «ripudio della guerra» dentro la
Costituzione europea e - ancora più importante - rifiuto di un
"esercito europeo" aggressivo e interventista.
Possiamo discutere di questo?
Il 20 marzo ha restituito visibilità - malgrado le manipolazioni
informative e le polemiche interessate - ad un movimento che in
realtà non era mai scomparso e deve oggi rappresentare
l’occasione per rilanciare una nuova stagione, che affronti con
consapevolezza, unità, radicalità ed efficacia la questione
dell’alternativa alle politiche di guerra del nostro paese, senza se e
senza ma.
Piero Maestri (Guerre&Pace), Luciano Muhlbauer (segr. naz.
SinCobas)