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Via dal Vietnam

Publie le domenica 11 aprile 2004 par Open-Publishing

L’Antica Babilonia è insorta. Antica Babilonia è il nome che incautamente è stato dato alla nostra
missione in Iraq, che non è una missione archeologica. Antica Babilonia ci ricorda che lì c’è una
civiltà alquanto precedente la nascita degli Stati Uniti; il Codice di Hammurabi è in anticipo di
3400 anni sulla Costituzione americana.

Antica Babilonia è oggi semplicemente l’Iraq, che sta cercando di scacciare gli eserciti stranieri
che la stanno occupando. Impresa generalmente considerata nobile; anche noi l’abbiamo compiuta,
contro gli austriaci prima, contro i tedeschi poi. Fatta invece dagli iracheni, che appartengono a
quell’Islam che secondo Oriana Fallaci dovremmo distruggere, essa non gode in Occidente di buona
stampa; e perciò non si pensa che l’Eufrate non sia per gli italiani un buon fiume per combatterci
sopra, come non lo era per gli austriaci il Piave, che infatti giustamente mormorava contumelie
contro di loro.

I bollettini di guerra da Nassiriya ci hanno informato che i nostri soldati, con una battaglia di
cinque ore, hanno conquistato tre ponti su quattro. Undici bersaglieri sono rimasti feriti, uno è
stato colpito da stress da combattimento, i morti tra gli iracheni secondo le prime notizie erano
dodici maschi adulti, una donna, due bambini, i feriti una trentina. In realtà la strage sembra
sia stata di maggiori proporzioni, ma dei veri e propri "miliziani" i morti sarebbero solo tre.

Il ministro della Difesa Martino, parlando al telefono col comandante del Settimo reggimento dei
carabinieri di stanza a Laives (Bolzano), giustamente preoccupato perché ha 90 dei suoi uomini a
Nassiriya, ha detto che «per la missione in Iraq non è cambiato nulla e tutto continua come prima»;
per non parlare di Berlusconi a Porta a porta. Ciò vuol dire che per i nostri governanti è stato
tutto regolare, e che le forze italiane di occupazione non hanno fatto altro che applicare le
cosiddette "regole d’ingaggio". Le regole d’ingaggio sono quelle con le quali i governi mettono dei
paletti alle azioni consentite alle proprie forze armate all’estero; sono quelle regole per le quali,
ad esempio, i contingenti di alcuni Paesi presenti con l’Onu in Kosovo, non possono essere
impiegati per controllare manifestazioni di protesta. Così ora sappiamo che nelle regole d’ingaggio delle
nostre forze di spedizione in Iraq c’è anche la conquista dei ponti sull’Eufrate.

Ma a chi li hanno dovuti strappare? Sappiamo che si trattava di civili armati e di popolazione
civile disarmata. Ma da quando si è deciso che la reazione irachena all’occupazione straniera non può
essere chiamata "resistenza" (che è riservata solo alle nazioni democratiche e civili; come la
guerra, del resto, ormai attribuita come legittima a una parte sola, tutti gli altri sono
"combattenti illegali") non si sa più come chiamare gli insorti; la Repubblica li chiama "estremisti" e
"radicali sciiti"; ma così non si capisce niente, perché anche i sunniti, quegli stessi che avevano
aperto le porte agli americani, ora si sentono traditi e si uniscono agli sciiti nel reclamarne il
ritiro; e il furore che l’invasione e il dominio americano hanno scatenato in tutti gli strati della
società irachena è tale che l’altro ieri si potevano leggere, in una cronaca da Baghdad del
Corriere della Sera, le seguenti informazioni: «Gli americani sono caduti in un’imboscata. Arrivati a
Sadr City con 5 camion, a bordo dei quali viaggiavano anche soldati del nuovo esercito iracheno,
erano stati accolti da una grandine di pallottole. E mentre cercavano di rispondere al fuoco, hanno
cominciato ad essere bersagliati anche dai soldati iracheni che avevano viaggiato con loro. Un
repentino e preoccupante cambio di casacca, che ha fatto finire i marines tra due fuochi. Sono dovuti
intervenire gli elicotteri per salvare la compagnia sotto assedio, mentre i rivoltosi e i militari
iracheni provvedevano a incendiare i camion».

Questo a Baghdad. Quanto a Bassora, fino a ieri «considerata la città più tranquilla dell’Iraq,
ieri i miliziani di Al Sadr - (l’imam sciita ricercato dagli americani come "fuorilegge") - hanno
occupato a sorpresa il palazzo del governatore, unendosi festanti ai poliziotti iracheni che
avrebbero dovuto proteggerlo. Nel pomeriggio è iniziata una sparatoria tra le due parti, che si è
conclusa con una prudente ritirata dei militari britannici».

A Falluja si era vista invece la folla infierire contro i quattro americani uccisi, che però non
erano soldati, ma "guerrieri aziendali", ciò che ci ha permesso di scoprire che ci sono società
quotate in borsa che forniscono forze militari private, a cui i governi belligeranti, per risparmiare
i soldati "pubblici", fanno ricorso per esternalizzare il servizio di guerra ricorrendo al lavoro
in affitto.

Ora, secondo Bush, poliziotti, militari, imam, popolazione civile, sunniti, sciiti che combattono
contro l’occupazione, sono tutta gente che vuole impedire all’Iraq di avere la democrazia. Il
sillogismo è molto semplice: l’America è la democrazia, è lei che la porta, come San Cristoforo. Chi,
non essendo americano, non vuole l’America è contro la democrazia.

La spiegazione di quell’inferno è invece molto più semplice. La guerra tra la coalizione
anglo-americana in versione antiaraba e l’Iraq non è finita, e gli Stati Uniti non l’hanno vinta. Il
tentativo di Bush di trasformare all’ultimo momento una sconfitta in vittoria, il 30 giugno, è quello di
ritirare le truppe americane nelle basi costruite nel deserto e tenersi il petrolio e le basi. Ma
per questo, che era il vero scopo della guerra, ci vuole ancora molto sangue. Non si può
consentire.

Questa è la ragione del ritiro immediato. Ormai nemmeno cambiare casacca ed elmetto con la casacca
e il casco blu dell’Onu può correggere una situazione che è insanabile in radice. Occorre chiudere
questa pagina ed aprirne un’altra, che riparta dal punto in cui il diritto internazionale è stato
violato e ristabilisca una condizione di diritto, nella quale riaprire un processo di pace in
tutto il Medio Oriente, che giunga fino a comprendere e a ridare speranza di vita anche a Palestina ed
Israele.

Come dice il senatore Edward Kennedy, l’Iraq è il Vietnam di Bush. Quella guerra gli Stati Uniti
la persero. Noi non la perdemmo, perché in Vietnam non c’eravamo. Non ce lo chiesero, e in ogni
caso l’art. 11 valeva allora anche per il nostro governo. Invece questa guerra la stiamo facendo e la
stiamo perdendo anche noi, ma con la guerra perderemo anche l’anima, cioè il tratto più alto della
nostra civiltà, che la nostra Resistenza ci aveva riguadagnato. Chiedere di uscire subito da
questa guerra, caro D’Alema, non è estremismo irresponsabile; è, oltre tutto, istinto di conservazione.

da LIBERAZIONE