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Zaslavsky e lo stalinismo nella sinistra

Publie le lunedì 29 marzo 2004 par Open-Publishing

L’ombra lunga dello stalinismo

di Antonio Moscato

Victor Zaslavsky, formatosi come docente di “marxismo-leninismo” a Leningrado, vive e insegna in
Italia ormai da decenni. Negli anni Ottanta ha contribuito utilmente alla conoscenza della realtà
sovietica con molti saggi apparsi soprattutto su diverse riviste, tra cui quella socialista
“Mondoperaio”, e alcuni libri: il primo di essi presentava efficacemente le contraddizioni della società
sovietica nell’epoca di Breznev (Il consenso organizzato, Il Mulino, Bologna, 1981). Il suo libro
più recente, Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori, Milano, 2004) è invece abbastanza
deludente.

I documenti trovati recentemente negli archivi dell’URSS a cui fa riferimento sono pochi e non
tali da modificare le interpretazioni più articolate della politica staliniana degli anni precedenti.
Tesi fondamentale del libro è che “esisteva in Italia la possibilità, assolutamente reale, di un
colpo di Stato effettuato dall’apparato paramilitare del Partito comunista, che avrebbe cercato di
instaurare un regime antidemocratico analogo alle «democrazie popolari» dell’Est europeo”. (p.
217).

La tesi si fonda su una premessa del tutto infondata: in Grecia Stalin avrebbe incoraggiato i
comunisti a insorgere, e solo dopo il loro fallimento avrebbe fermato gli italiani... Presentando
il suo libro a Lecce, Zaslavsky aveva retrodatato questo presunto appoggio addirittura al 1945, ma
si è corretto poi quando gli sono state ricordate le innumerevoli fonti che lo escludono
categoricamente almeno per quel periodo: in primo luogo gli elogi di Churchill (nella sua fondamentale
storia della seconda guerra mondiale) alla “lealtà” con cui Stalin applicò quanto deciso per la Grecia
negli accordi di spartizione presi a Mosca nell’ottobre 1944. Su questo rinvio al mio saggio su
Rivoluzione e guerra civile in Grecia in Il filo spezzato.

Appunti per una storia del movimento
operaio, Adriatica editrice, Lecce, 1996, pp. 189-206.
Per sostenere la sua tesi, Zaslavsky si basa quasi esclusivamente su un telegramma di Stalin a
Molotov nel settembre 1947 (quando la guerra fredda era già esplosa), che autorizzava a far pervenire
a Zachariadis modesti aiuti, come 60 (sessanta!) cannoni anticarro tedeschi (residuati di guerra),
invece dei 60 mortai da montagna richiesti. Zaslavsky dà inoltre per scontato che i comunisti
greci al momento del disarmo totale concordato negli accordi di Varkiza avessero trattenuto le armi
più moderne, cosa assai improbabile in un paese dominato da un governo anticomunista appoggiato
dagli occupanti britannici, giunti nel paese proprio per disarmare i partigiani.

D’altra parte egli
stesso ammette in una nota, basandosi su fonti statunitensi, che le armi trovate ai combattenti del
1947-1948 erano solo armi leggere di fabbricazione tedesca prodotte prima del 1944. Come nel
1936-1939 un Spagna, gli aiuti concessi dall’URSS consentivano a malapena di sopravvivere per un po’, e
non erano certo sufficienti per vincere.
Del tutto secondaria a Zaslavsky appare anche la testimonianza degli jugoslavi Kardelij e Djilas e
del bulgaro Traico Kostov sulla netta ostilità manifestata da Stalin nei confronti di quella che
egli definiva “l’avventura greca”.

La questione della datazione è essenziale: nel 1944 per i comunisti sarebbe stato possibile e
facile prendere il potere, in una Grecia che si era liberata da sola e in cui non c’erano ancora
truppe britanniche che furono fatte arrivare (col loro consenso, ottenuto grazie ai buoni consigli
degli ufficiali sovietici presenti ad Atene) proprio per disarmare i partigiani, ma invece non fu
fatto niente e il partito comunista si limitò a reagire localmente alla strage perpetrata il 2
dicembre 1944 dai britannici e dai filofascisti della gendarmeria, senza chiedere rinforzi alla notevoli
e ben armate forze partigiane presenti nel Peloponneso e in Epiro.

Nel 1947 l’insurrezione invece
ci fu effettivamente, ma tardiva e inopportuna, dettata da uno stato di necessità: la situazione
sfuggiva di mano al segretario del KKE, Zachariadis, da un lato per l’ondata di arresti e di
condanne durissime agli ex partigiani, dall’altra per le risposte sporadiche di singoli militanti che
tornavano in montagna alla spicciolata, con poca efficacia militare, contribuendo indirettamente a
giustificare l’inasprimento della repressione nei confronti di chi continuava a scegliere la
legalità.

Era inoltre cambiato il quadro internazionale, e soprattutto era diminuito il consenso al
partito comunista, che era fortissimo nel 1943 e 1944, ma si era ridotto rapidamente anche per il suo
comportamento nel dicembre 1944 e 1945, quando per reazione al massacro del 2 dicembre aveva
occupato Atene per un mese: i partigiani, che erano stati passivi nei confronti dei britannici, dai
quali si facevano disarmare senza reagire, furono feroci nei confronti di trotskisti e socialisti, e
della stessa popolazione, dalla quale prelevarono 15.000 ostaggi scelti a caso nei quartieri
borghesi, che portarono con sé nelle montagne quando lasciarono Atene (di essi 4.000 morirono di freddo
e di stenti, e la loro sorte inpressionò notevolmente l’opinione pubblica greca e internazionale,
soprattutto britannica).

Ci sono diverse domande a cui Zaslavsky non risponde: ad esempio, perché mai i britannici
avrebbero impegnato mezzi preziosi per far arrivare nei primi mesi del 1945 ad Atene Zachariadis, appena
liberato da un campo nazista, se non perché serviva (come Togliatti in Italia nel 1944) per far
ingoiare gli accordi di Varkiza a un partito recalcitrante? Zachariadis, forte dell’appoggio degli
occupanti, lo fece con efficacia, denunciando come traditore, e abbandonando alla repressione,
l’eroe della resistenza Aris Veluchiotis che rifiutava di cedere le armi...
Abbiamo già accennato che l’insurrezione del 1947 avvenne fuori tempo, senza un minimo di
strategia sensata, con caratteristiche avventuriste dettate dal presuntuoso e incompetente Zachariadis,
che sconfessò presto il ben più lucido comandante Markos, accusandolo di “titoismo” perché proponeva
una tattica prudente di guerriglia, in base all’esperienza jugoslava, anziché avventurarsi in
battaglie campali per proclamare una repubblica in qualche cittadina.

Se l’URSS avesse avuto interesse
alla conquista della Grecia, avrebbe fornito maggiori aiuti e ben altri consiglieri, e soprattutto
scelto un altro momento...
Anche in Italia d’altra parte nel 1946-1947 vi furono partigiani che tentarono di tornare in
montagna con le armi che avevano nascosto, e furono duramente sconfessati dalla direzione del partito.
Ci sembra che Zaslavsky faccia parecchia confusione tra le iniziative spontanee dal basso (come la
“giustizia proletaria” in alcune zone del nord dopo il ritorno dei fascisti e le prime
incarcerazioni di partigiani) e la politica ufficiale del partito comunista e di Mosca, attribuendo le prime
a un gioco delle parti.

Zaslavsky accenna alla “doppiezza” nel partito comunista, ma ci sembra che gli sfugga che serviva
a ingannare non il nemico di classe, ma la propria base inquieta e preoccupata: in primo luogo
voleva dire “lasciar fare qualcosa” per evitare di perdere del tutto il controllo (ho avuto
esperienze dirette di questo atteggiamento della direzione del partito al momento di alcune iniziative di
lotta contro il tentativo di Tambroni di portare i fascisti nella maggioranza di governo nel 1960).
Il libro rivela un certo appiattimento tra diverse fasi storiche, con una metodologia che richiama
un po’ quella delle scuole di storia “marxiste-leniniste” in cui Zaslavsky si è formato.

Gli anni
‘43-‘47 sono ben diversi da quelli successivi alla rottura della collaborazione sovietica con
l’imperialismo anglo-americano (rottura che provocò inizialmente in Stalin e nella sua cerchia,
Togliatti compreso, uno sgomento paragonabile a quello di fronte all’aggressione di Hitler del giugno
1941). Si innescò poi una reazione on un nuovo corso estremista che durò fino alla morte di Stalin.
In quel quadro si capisce il via libera a Kim il-Sung in Corea, che non corrispondeva però certo a
una scelta di “tornare alla via rivoluzionaria”...
Per Zaslavsky si direbbe invece che l’URSS sia sempre e solo un’entità maligna, “l’impero del
male”, in ogni fase.

Egli nega perfino il carattere vincolante degli accordi di Yalta (in realtà
abbozzati con Churchill a Mosca nell’ottobre 1944), e accusa l’URSS di aver tentato sempre appena
possibile di violarli. Si direbbe che Zaslavsky proietti su tutta la storia precedente l’esperienza
dell’avventurismo degli ultimi anni di Breznev (che ci fu, ma aveva ben altro segno, ed era il
riflesso di una crisi ormai profonda e irreversibile della società e del gruppo dirigente sclerotizzato
dell’URSS).
Altri storici, come Sergio Romano, Ennio Di Nolfo, Immanuel Wallerstein, per citarne solo alcuni,
sostengono invece che ben presto, subito dopo la morte di Stalin, la guerra fredda fu sostituita
da un rituale (un “minuetto”, lo definisce Wallerstein nel suo ultimo libro Il declino
dell’America, Feltrinelli, Milano, 2004) in cui ciascuna delle due maggiori potenze faceva quello che riteneva
utile nella propria area, e lasciava fare a quella rivale lo stesso nella sua (salvo sollevare a
scopo propagandistico dure proteste verbali).

La riprova è che non ci sono state sostanziali violazioni di Yalta dopo quella fatta da Tito e mai
perdonata da Stalin: la Jugoslavia negli accordi di Mosca doveva essere spartita a metà, cioè con
un governo di Tito sottoposto alla monarchia filobritannica, ma non accettò le imposizioni di
Stalin e Churchill d’altra parte si rese conto presto che la soluzione concordata a Mosca era
impraticabile in base ai rapporti di forza locali e fece buon viso a cattivo gioco.
L’assetto della Cina non era stato neppure discusso con Churchill, ma le indicazioni di Stalin
erano per la partecipazione dei comunisti al governo borghese del Kuo Mintang, e la sua irritazione
per il comportamento delle truppe di Mao si vide dallo scarsissimo rilievo dato sulla “Pravda” alla
loro entrata in Shangai, e poi dalle tensioni che portarono in poco più di un decennio alla
rottura tra i due grandi paesi.

Alla Corea Zaslavsky accenna solo di sfuggita, sottovalutando il senso
dell’incoraggiamento sovietico alla Cina per impelagarla in un conflitto pericoloso appena un anno
dopo l’arrivo dei comunisti al potere. Zaslavski non pensa mai al fatto che l’URSS staliniana è
sempre stata ostile a ogni vera rivoluzione, dalla Spagna 1936 alla Jugoslavia, alla Cina.
Quanto a Cuba, a cui accenna ancor più di sfuggita, non tiene affatto conto che la sua rivoluzione
è avvenuta del tutto autonomamente e anzi in polemica aperta con i filosovietici del PSP: così
Zaslavsky fa un’aberrante confusione tra la repressione della rivolta di Berlino Est nel 1953, e
quelle di Poznan e dell’Ungheria del 1956 (dovute al panico burocratico nei confronti del primo
manifestarsi di rivolte operaie, in Ungheria per giunta con l’organizzazione di consigli come nel
1919...) e l’invio di missili a Cuba nel 1962, scambiato per “tentativo di espandere la zona di
influenza sovietica”, mentre era la risposta imprudente e non meditata a un reale bisogno della
rivoluzione cubana concretamente minacciata dalla possibilità di nuove invasioni come quella di Playa Girón
dell’anno precedente.

Ma nella sua visione dell’impero del male moscovita non c’è posto per
immaginare che la controparte sia aggressiva.
Anche quando Zaslavsky utilizza documenti davvero nuovi pubblicati di recente in Russia ad opera
di pazienti ricercatori, raramente li utilizza in modo convincente: ad esempio, a proposito
dell’Iran, egli cita uno scambio di lettere con un dirigente comunista dell’Azerbaigian iraniano, Jafar
Pishevari, che fu dapprima autorizzato e aiutato a prendere il potere a Tabriz, poi abbandonato
(anche a episodi come questo si deve il discredito accumulato dai comunisti iraniani, che ha lasciato
tanto spazio agli ayatollah). Zaslavsky riporta una lettera di Stalin come esempio del suo
orribile linguaggio, ma senza soffermarsi sul significato di fondo: i comunisti di ciascun paese potevano
essere usati a volte come pedine su uno scacchiere e poi abbandonati cinicamente ad accordi con
l’imperialismo.

Altro che incitamento alla rivoluzione! (pp. 210-212. Su Pishevari e altre
esperienze analoghe si veda anche Farian Sabbahi, Storia dell’Iran, Bruno Mondadori, Milano, 2003, p. 102 e
sg.).
Una parte notevole del libro è dedicata alla ricostruzione dei finanziamenti sovietici al PCI e al
PSI o al PSIUP, o a singoli individui come Lelio Basso, ma senza mai domandarsi se non era,
ancorché immorale, un fenomeno diffuso anche dall’altra parte. Ad esempio, chi finanziò la scissione
socialista o quella sindacale? Che senso aveva il Piano Marshall? E soprattutto, che linea si voleva
incoraggiare con i finanziamenti sovietici? Una linea insurrezionale? Assurdo e clamorosamente
smentito dai fatti!

Da buon reazionario come è diventato, Zaslavsky elogia a volte persino Togliatti per aver
rifiutato l’insurrezione, ma ingigantisce il peso e l’autonomia della fronda secchiana.

..

Ad essa attribuisce tutte le strutture di autodifesa, presentando come insurrezionalista
l’atteggiamento di chi temeva, non infondatamente, un inasprimento della repressione e anche un vero e
proprio colpo di Stato (ad esempio in caso di legittima vittoria elettorale delle sinistre).
Prepararsi a difendersi da un’illegalità era un crimine?
Zaslavsky non capisce neppure il senso dell’atteggiamento Togliatti nel 1956, legato al suo essere
stato parte integrante del gruppo dirigente staliniano ristretto, e alla sua irritazione nei
confronti di un Chrusciov considerato (non a torto) un apprendista stregone.

Casomai è interessante notare che nel 1956 Togliatti era allarmato anche per la possibilità di
essere sostituito alla testa del partito da Di Vittorio (ma non c’entrava l’ala “insurrezionalista”,
tanto sopravvalutata da Zaslavsky, bensì l’irritazione di molti quadri per la sua reticenza sui
crimini staliniani).

L’esistenza di un sistema di vigilanza nel PCI viene scambiata sistematicamente da Zaslavsky per
una forza predisposta per l’insurrezione: fondandosi probabilmente sugli stati d’animo di alcuni ex
DC che ha frequentato in questi anni, egli sostiene incredibilmente che era comprensibile
“l’esasperazione degli avversari del PCI, il cui timore di un colpo militare comunista (...) non era tanto
infondato”.

Si riferisce agli anni di Stalin, ma mette in mezzo anacronisticamente legami veri e
soprattutto presunti di gruppi rivoluzionari di cui negli anni Settanta sarebbero stati “accertati
rapporti con i servizi segreti del blocco sovietico e con gruppi terroristici dei paesi arabi”.

E
i legami di settori delle BR col Mossad, allora, come li mettiamo?

Zaslavsky, accecato dal preconcetto, rifiuta perfino testimonianze insospettabili come quella del
moderatissimo Macaluso, e perfino quella di Giovanni Pellegrino, a cui rimprovera di contraddirsi
sostenendo che “con la svolta di Salerno il PCI abbandonò la via rivoluzionaria, perché non
percorribile in Italia, e scelse la via parlamentare”. A Zaslavsky tale opinione appare “non difendibile
storicamente”! (p. 252).

Condivisibili sono invece le sue critiche alle reticenze prolungate di alcuni storici comunisti
italiani sulla responsabilità sovietica nel massacro di Katyn (su cui pubblica un’impressionante
scambio di lettere tra Scelepin e Chrusciov, che si concluse nel 1959 con la decisione di eliminare
dagli archivi ogni documento in proposito), o sulla ostinazione con cui altri hanno negato
l’influenza di Stalin sulla scelta della “svolta di Salerno”.

Ma è grottesco che per documentare il
permanere dello stalinismo nella sinistra Zaslavsky si basi poi su una presunta “tolleranza” nei
confronti di un gruppuscolo di squilibrati che celebra ogni anno a Firenze il compleanno di Stalin con
manifesti...

Di utile nel libro c’è forse soprattutto la testimonianza sulla sua generazione, toccata dal 1956
e poi delusa e amareggiata: in fondo il suo accanito e irrazionale anticomunismo si capisce meglio
alla luce di quell’esperienza (e anche a questo ci riferiamo nel titolo dell’articolo).
Zaslavsky sfiora più volte dati interessanti che smentiscono le sue tesi di fondo, ad esempio
citando (solo come esempio di contraddizioni) la decisione del Politbjuro di non intervenire in
Ungheria presa il 30 ottobre 1956, poi capovolta il giorno dopo in un clima drammatico (perfino con
minacce di suicidio, cfr. pp. 187-188).

In questo egli differisce profondamente da Vladimir Bukovski,
il cui libro egli cita tre volte e non a caso non usa mai: Bukovski infatti, quando ebbe la
fortuna di essere chiamato a testimoniare al processo per lo scioglimento del PCUS e poté grazie a
questo scannerizzare molti documenti ufficiali del Politbjuro, li pubblicò limitandosi a segnalare il
suo stupore nello scoprire che contrariamente alle sue opinioni precedenti fino all’ultimo c’era
stata una maggioranza contraria all’intervento in Afghanistan, e che mai si era deciso l’intervento
in Polonia nel 1981 usato invece come alibi da Jaruzelskij (Vladimir Bukovskij, Gli archivi
segreti di Mosca, Spirali, Milano, 1999). Insomma Bukovski ammetteva apertamente di essersi sbagliato
nelle sue valutazioni della logica del gruppo dirigente sovietico, Zaslavsky invece denuncia come
inaccettabile e infondato ogni elemento che contraddice il suo schema mentale.

P.S. Dopo aver finito questa recensione leggiamo una garbata e puntuale recensione di Adriano
Guerra al libro di Zaslavsky (su “l’Unità” del 28 marzo 2004), che condividiamo in larga misura, e di
cui ammiro sinceramente la serenità nella polemica con molte delle stesse forzature che mi hanno
indignato.

Appendice

(da un mio articolo assai ampio Sull’uso politico della storia dell’aprile 2002, che posso
inviare a chi lo richiede).

Una testimonianza interessantissima sul dibattito interno al gruppo dirigente sovietico viene da
un ex dissidente, Vladimir Bukovskij, che dopo averne passate di tutti colori (dal carcere
all’ospedale psichiatrico), era stato espulso dall’URSS e scambiato nel 1976 con il comunista cileno Luis
Corvalán. A settembre del 1991, approfittando dell’atmosfera immediatamente successiva al golpe di
agosto, poté parlare alla televisione insieme al nuovo capo del KGB Vadim Bakatin, e si offrì di
collaborare a una ricerca negli archivi dell’URSS.

Scoprì presto che quelli del KGB erano
sostanzialmente inaccessibili (tranne nei casi in cui unilateralmente qualcuno decideva di far trapelare
qualche documento attraverso canali graditi), ma poté lavorare a lungo in quelli del PCUS. Ai
dirigenti della nuova Russia, tutti ex comunisti, serviva la testimonianza di un ex “oppositore doc” al
processo sulla incostituzionalità del PCUS, mentre Bukovskij (che rideva di quell’accusa, dato che
il PCUS faceva e disfaceva costituzioni a suo piacimento) approfittò dell’occasione per buttare
l’occhio nelle carte che lo riguardavano.

E grazie a un computer portatile con scanner incorporato
(una diavoleria ancora sconosciuta ai custodi degli archivi) riuscì a copiare un gran numero di
documenti e a portarli con sé.
Il risultato è di grande interesse, e largamente contrastante con le opinioni ormai nettamente
reazionarie e anticomuniste di Bukovkij (ma come stupirsene dopo le esperienze che ha fatto?).

Ad
esempio egli ha scoperto che il Polibjuro aveva più volte escluso categoricamente l’intervento
militare in Afghanistan, finendo per esserci trascinato dalla debolezza degli “amici afghani”; ma anche
che lo spauracchio di un’invasione sovietica usato da Jaruzelski per accreditarsi come “male
minore” si basava su un bluff, perché più volte i dirigenti sovietici, pur consigliandogli le maniere
forti, gli avevano ribadito che non potevano ripetere in Polonia quel che avevano fatto nel 1956 in
Ungheria e nel 1968 in Cecoslovacchia.

Il libro, di ben 850 pagine, è piuttosto sgradevole per gli sfoghi anticomunisti profusi
largamente dall’autore, ma la sua lettura è utile per i moltissimi documenti trascritti integralmente
(Vladimir Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca, Spirali, Milano, 1999).
Tra l’altro Bukovskij era interessato soprattutto a trovare le tracce della sua vicenda, e ha
scoperto con sorpresa che il massimo organo di direzione della seconda (allora) potenza mondiale aveva
passato giorni a discutere di lui (che invece negli anni in cui nessuno osava sostenere la sua
battaglia si sentiva isolato e sconfitto).

Idem faceva per Solženicyn, e perfino per il grande
violoncellista Rostropovic, colpevole solo di aver dato ospitalità all’autore dell’Arcipelago GULag. Per
forza è crollata l’URSS, se con tutti i problemi che c’erano i dirigenti perdevano tempo a
organizzare “spontanee manifestazioni di ripudio” nei confronti di pochi dissidenti…
Il libro ha faticato in tutto l’occidente a trovare editori interessati (e anche in Italia è
finito con una casa non molto prestigiosa e non ben distribuita), sia perché documenta anche come
venivano eterodirette molte iniziative dell’Internazionale socialista e dei movimenti pacifisti, sia
perché i grandi editori a cui lo proponeva gli rispondevano che sono cose vecchie che non
interessano più a nessuno.

Ma soprattutto del libro nessuno o quasi ha parlato. Eppure i documenti sono di
grande interesse, e almeno in molte parti in netta contraddizione con l’ideologia del curatore (a
testimonianza quindi della sua onestà). (a. m..)