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fra aprile e roma

Publie le martedì 6 aprile 2004 par Open-Publishing

Fra Madrid e Roma

11 aprile - Pasqua - , Vaticano (o Termini, o Campidoglio… Roma è grande): quanti morti, quanti feriti?
La guerra fredda si chiama così perché non è stata combattuta sul terreno… non sul nostro, almeno (sebbene sia costata all’Italia una quasi-guerra civile...); ma su quali e quanti altri campi di battaglia, in Africa, Asia, America latina… quanti milioni di persone si son trovati al centro di una scacchiera di influenze e finanziamenti e forniture militari, quanti leader che avrebbero potuto guidare il proprio popolo verso una vera indipendenza e una cosciente autodeterminazione son rimasti schiacciati in un gioco più grande di loro… La chiamiamo fredda, quella guerra, perché ci sembra che se non l’abbiamo vista, se non l’abbiamo subita in prima persona, è come se non ci fosse stata. È comodo, e oh quanto, causare le guerre e scegliere di combatterle a casa d’altri.
Dall’11 settembre (2001; non è il primo 11 settembre della storia, nel 1973 ce n’è stato un altro, molto meno pubblicizzato e mediatizzato…) non è più così: virtù della globalizzazione, ora chiunque - o almeno qualcuno in più - può scegliere di portare la guerra a casa di chiunque altro. Perché questa è una guerra, e le maschere verbali non nascondono nulla. Non basta chiamare guerra il nostro terrorismo, nell’intento di "legittimarlo": le connotazioni del termine evocano immediatamente l’idea di uno Stato, democratico naturalmente, che dichiara guerra ad un altro, in un processo trasparente e ordinato, civilizzato, laddove il terrorismo è opera di fuoriusciti, marginali che si situano al di fuori di ogni regola; ed infatti la guerra che gli altri ci portano in casa, in nome non di uno Stato ma di un’appartenenza internazionale, lo chiamiamo terrorismo, squalificandolo, perchè non sopportiamo l’idea di essere vulnerabili, e la sola idea che qualcuno ci voglia attaccare ci sembra un insulto alla civiltà. Ora, questa guerra, non ci è più consentito di scegliere dove combatterla. Voi venite in Iraq? Ebbene, lo faremo diventare il punto di ritrovo di tutti i mujahidin del mondo, e casa vostra sarà un campo di battaglia, proprio come casa nostra lo è stata per decenni. Qualcosa da ridire?
Ci si lamenta ora che le dichiarazioni di Zapatero riguardo all’imminente ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq possano suonare come una concessione, un riconoscimento politico di un atto di guerra. E che c’è di nuovo in questo?! A parte che si tratta di una falsità, di uno "scudo preventivo" (che suona tanto come una supplica da parte americana di non togliere ad una coalizione già in estrema difficoltà un altro po’ di credibilità e potenza) - dato che queste intenzioni erano ben manifeste già molto prima dell’attentato, tanto da costituire una delle promesse elettorali - la novità consiste nel fatto che anziché essere noi a determinare il corso politico di un qualunque cencioso stato del terzo mondo, con le nostre bombe intelligenti, i nostri apache, tomahawk, scud, ecc. ecc., è ora un manipolo di esaltati a far cambiare il corso delle elezioni nell’ambito della civilizzata Europa… Al di là di questo, niente di diverso dalla norma: una battaglia vinta può ben determinare dei cambiamenti in casa del nemico.
È un atteggiamento molto antipatico quello di chi di fronte a una disgrazia prevista dice a chi ci si è ficcato dritto dentro "hai visto? Te l’avevo detto". Eravamo milioni in tutto il mondo a dirlo, il 15 febbraio dell’anno scorso. E tra un mese, dopo i morti e i feriti di Roma, saremo milioni a subire l’invasione mediatica delle ipocrite dichiarazioni di dolore, le stigmatizzazioni della barbarie (peraltro, dopo i 120 morti civili in Afghanistan, bombardati perché durante un matrimonio facevano troppo casino, tanto da essere scambiati per pericolosi terroristi, non mi è parso di sentire nessun capo di Stato dire "siamo tutti afghani"; eppure eravamo lì - c’è bisogno di dirlo? - per il loro bene…), gli appelli alla "unità del paese", i "no alla strumentalizzazione politica del dolore delle famiglie", saremo milioni a dire "hai visto nano imbecille? Eppure te l’avevamo detto".
I nostri cugini di Spagna hanno appena fatto la stessa cosa con il vero responsabile di questi attentati, il loro capo di Stato, che ha trascinato il paese in guerra contro la volontà quanto mai esplicita della schiacciante maggioranza della popolazione. Il che merita forse una riflessione sul concetto di "democrazia all’occidentale", sempre più perniciosamente intesa come una sorta di dittatura della maggioranza parlamentare. Perché al di là di tutto, sta di fatto che Aznar aveva mentito, e gli elettori l’hanno sanzionato, esercitando veramente in pieno il proprio diritto ed utilizzando le regole della democrazia - salvo che in certi casi l’esercizio del diritto democratico non pare più ad alcuni così raccomandabile... Ed allora forse la spietata ironia di questa faccenda è che anche loro stanno esportando in casa nostra la "democrazia"; perché con questo termine dovremmo intendere una buona volta la reciprocità delle regole, e la corrispondenza tra diritti e doveri. Il dovere del capo di uno Stato democratico dovrebbe appunto essere, tra gli altri, quello di non mentire a fini elettorali, e cioé ai fini del mantenimento del proprio potere...
Si è molto discusso, e a lungo ancora si discuterà, a proposito della compatibilità tra democrazia e visione musulmana della società. Solitamente si assume che la società islamica non può accettare degli ordinamenti democratici. Il che è senza dubbio vero se si parla del modello occidentale di democrazia, quello rappresentativo e verticale. Ma esiste nel Dna delle società islamiche un concetto di democrazia molto diverso, un modello "orizzontale", in cui il leader è tale soltanto fintanto che è riconosciuta la legittimità della sua autorità, autorità che non prevede il potere di coercizione ma si affida unicamente alle capacità del leader di mediare tra fazioni in disaccordo. Il leader cioè conserva la sua posizione non tramite l’esercizio del potere ma attraverso le sue capacità contrattuali. Ciò che ci dà l’impressione di essere "sfuggente" è in realtà semplicemente "fluido", incontenibile nelle nostre troppo rigide gabbie concettuali. Così, le potenze coloniali, di fronte ad un apparente caos, a ciò che sembrava mancanza di regole chiare, hanno interpretato questa apparenza come manifestazione di inferiorità, come incapacità di organizzarsi ed autodeterminarsi. Ed hanno pensato bene di instaurare e rendere operativi dei modelli con i quali le popolazioni assoggettate non avevano alcun legame, che non avevano mai fatto comparsa nella loro storia ed erano perciò - secondo ogni logica non viziata da interessi di dominio e sfruttamento, e da false convinzioni di onnipotenza e superiorità - destinate a fallire. Questo fallimento porta spesso e volentieri ad esprimere l’opinione che queste popolazioni "non hanno saputo far buon uso della libertà che è stata loro concessa", e lungi dall’ammettere che forse ci si era sbagliati porta perversamente ad una conferma di quelle false convinzioni. Nessun mea culpa ufficiale è mai stato espresso a questo riguardo da alcuna delle "ex" potenze coloniali, in ogni caso niente a paragone dei continui mea culpa emessi riguardo alle sofferenze del popolo ebraico. Il che equivale a dire che non è mai stata sconfessata quella convinzione di superiorità, che potremmo anche chiamare razzismo. In ogni caso, i colonizzatori non si son fatti scrupolo di volgere a proprio vantaggio questa fluidità dell’esercizio del potere, sfruttando la fragilità dell’equilibrio che esprimeva, mettendo una contro l’altra le componenti di società eterogenee - "dividere per meglio regnare" - e costringendole entro dei confini che non avevano alcuna ragione - geografica, etnica e religiosa - di esistere, confini di entità - gli Stati - che agli occhi di chi da un giorno all’altro scopriva di farne parte non avevano alcun significato; entità che per poter essere mantenute in vita hanno dunque avuto bisogno di dittatori che livellassero le eterogeneità al loro interno e spazzassero via una tradizione plurisecolare di gestione in qualche modo ripartita del potere. I relitti di quelle società e di quegli Stati, e i resti scarnificati delle nostre democrazie, stanno affrontando in questo periodo - che non si sa quando e come si concluderà - un tornante epocale. In casa nostra, in particolare, sta franando precisamente il concetto di rappresentanza politica - dato che non è più capace di esprimere in tempo reale la volontà del popolo elettore e si scopre costretto a ricorrere ad un esercizio superiore di autorità, vanificando così tutte le intenzioni e i presupposti del sistema occidentale di democrazia - oltre a quel modello economico per cui "sviluppo" e "competitività" hanno valore di locuzione liturgica, e che dopo il crollo dell’URSS non ha fatto che glorificarsi e considerarsi come autoreferenziale, salvo ritrovarsi, dopo essere rimasto senza avversari, ad essere il più temibile avversario di se stesso. Perchè è un sistema destinato ad autodivorarsi. Lo vediamo in contesto europeo, dove il processo è brillantemente illustrato dalle riforme del sistema pensionistico, che tutti gli Stati sono costretti ad affrontare "se vogliono restare competitivi": se uno dei problemi principali è la disoccupazione, resta davvero inspiegabile come sia possibile aumentare i posti di lavoro se la gente dovrà lavorare di più...
Ma aspettando il crollo - imminente? - ci distraiamo con le teorie sullo "scontro delle civiltà", e per rendere il tutto più avvincente, ne facciamo uno dei protagonisti della vita nazionale. Abbiamo paura, innanzi tutto. Paura del cambiamento - di ogni cambiamento, e pensare che il nostro stile di vita possa essere modificato, che "le nostre tradizioni" possano, in casa nostra, avere lo stesso diritto di cittadinanza che le tradizioni di chiunque altro, ci terrorizza ("terrorismo" può significare anche questo?). Ma ciò che dobbiamo temere è soprattutto il terrore di chi ci governa, e di coloro che da tutto l’establishment, dai poteri e dalle loro relazioni reciproche, traggono vantaggio. Molti di coloro si dichiarano d’accordo quando si parla loro della necessità di procedere in un altro modo, di cambiare perchè tutto questo non è sostenibile; si mostrano accomodanti e ragionevoli, ma arriva un certo momento in cui ti inchiodano con una domanda: "va bene, ma qual è la soluzione?". Siccome, non c’è bisogno di dirlo, nessuno è in grado di rispondere con una formula che esprima la soluzione ai problemi del mondo, ecco che questi poteri e chi li incarna procedono più o meno indisturbati per la propria strada. Il principio sembra essere questo: visto che non riusciamo a trovare una soluzione, continuiamo a sguazzare nei problemi; visto che nessuno ha il potere di ridurre le disparità, continuiamo ad accumulare privilegi. Tutto questo comincia a diventare estremamente pericoloso. Tanto più che questo "potere inerziale", per esercitare la propria forza di trascinamento, deve mettere in opera tutta una serie di strategie per discreditare e rendere inoffensivi coloro i quali vi si oppongono.
Riporterò un piccolo aneddoto per illustrare il modo in cui queste strategie vengono attuate. Aix-en-Provence, Francia, marzo 2004. È annunciata una conferenza-dibattito, che dovrebbe tenersi in un anfiteatro della facoltà di Lettere, sulla laicità - tema caldo di questi tempi, in Francia: le "leggi sulla laicità" (che si traducono soprattutto nel divieto per le giovani musulmane di indossare il velo nelle scuole) stanno sollevando, da mesi (ma è un problema vecchio di anni), un polverone, con qualche scivolata nel ridicolo. La conferenza è organizzata da un’associazione di studenti musulmani, in collaborazione con giovani comunisti, femministe, militanti della lega per i diritti dell’uomo. All’ora prevista per l’inizio, viene annunciato che il dibattito è stato annullato. La presidenza ha negato l’uso dell’aula. Nessuna motivazione particolare viene fornita. Non è la prima volta: pressappoco la stessa cosa è successa già qualche mese fa (nell’occasione avrebbe dovuto partecipare Tariq Ramadan, luminare di filosofia islamica e occidentale, che uno schiacciasassi mediatico ha ormai fatto diventare agli occhi dei più "un piccolo Le Pen arabo").
È un piccolo episodio, ma a voler leggere oltre il dato immediato, si può immaginare che qualcosa di più grande sia sottinteso. Chi ha impedito lo svolgimento di un incontro del genere lo ha fatto perché si rende conto che rappresenta qualcosa di ingestibile: un’alleanza, anche su piccolissima scala, tra musulmani, per di più giovani, e giovani francesi, per di più comunisti. Gli esclusi di fuori - o una tra le comunità più escluse del paese, in ogni caso la più "problematica" - con gli esclusi di casa propria - o almeno chi dovrebbe esserne portavoce. I due capri espiatori di sempre e di ora. Su scala più grande, accade più o meno lo stesso: il potere si è premurato di organizzare i musulmani di Francia, di dar loro una credibilità... i musulmani che parlano senza far parte del novero di quelli autorizzati, semplicemente non vengono riconosciuti. Perché, in buona parte, si oppongono a quei regimi autoritari con i quali per il governo è lucroso collaborare, mentre ci si erge a popolo civilizzato e civilizzatore, patria della democrazia, e quant’altro...
Curioso: storicamente il "terrorismo" viene essenzialmente da due aree (tralasciamo per comodità di sintesi le matrici nazionaliste e comunitarie): l’estrema sinistra occidentale e il radicalismo islamico... E c’è un’altra analogia tra queste, nelle loro declinazioni violente come in quelle moderate: nei due gruppi è compresa una certa componente, che resta moderata ma è potenzialmente violenta, e questo accade quando i tentativi di procedere per via pacifica vengono ripetutamente frustrati, quando a queste componenti viene negata la parità di diritti politici. Che la Francia (ed eventualmente l’Italia, o un qualsiasi paese europeo, ma le tradizioni laiche della Francia rendono la sua situazione in qualche modo estrema) voglia escludere dal proprio panorama istituzionale un qualunque progetto politico a connotazione religiosa, è più che accettabile; è persino augurabile, nella misura in cui anche molti cittadini francesi originari di paesi musulmani temono un’islamizzazione della Francia - e degli altri paesi europei - dato che proprio per vivere diversamente hanno lasciato il proprio paese d’origine. Ma nel caso dell’aneddoto riportato, niente del genere era in programma. Semplicemente, le forze antagoniste volevano usufruire di uno spazio pubblico, finanziato con contributi fiscali, per discutere di un qualcosa che interessa la comunità. E ciò che è successo dimostra che il potere non è assolutamente disposto a lasciare che il dialogo sia sviluppato da qualcuno che si situa fuori o contro di esso, seppure con metodi civili, pacifici e democratici. Oltre ad avere il monopolio dell’uso della forza, lo Stato-padrone vuole anche quello della parola e del dialogo. "Fuori dalle istituzioni non c’è dialogo", quasi come "extra ecclesiam salus non est". Da questo atteggiamento dei poteri forti è più che mai necessario difendersi, ora, finché siamo in tempo. Ora che i poteri sono in difficoltà su tutti i fronti, ora che l’alternativa non solo non è ancora definitivamente squalificata ma si trova in qualche modo in posizione avvantaggiata, a causa del malcontento e del disagio sociale; ora che c’è lo spazio per incontrarsi con antagonisti di posizione diversa. Prima che il sentirsi esclusi degeneri in una volontà di esprimersi con altri mezzi che non siano il dialogo e la parola; e prima che il Potere, nella sua cieca strategia di autoconservazione, metta l’una contro l’altra le componenti civili che gli si oppongono, per poi spacciarsi come unica forza in grado di gestire il conflitto mediando tra le parti che ha diviso. È un qualcosa che abbiamo già visto. Abbiamo già dato.

L.L.
marzo-aprile 2004