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Marco Bellocchio racconta ’Il regista di matrimoni’, il suo ultimo film

Publie le martedì 17 gennaio 2006 par Open-Publishing
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Dazibao Cinema-video - foto

Gattopardo innamorato

Passione. Giallo. E un film nel film. Marco Bellocchio racconta ’Il regista di matrimoni’. Che unisce Fellini, Visconti e videocamere

di Alessandra Mammì

Come raccontare il nuovo film di Marco Bellocchio? Si comincia dalla storia d’amore di un regista fallito per una principessa triste? Dalle tante citazioni di film che punteggiano il suo film? Dalla frammentazione della visione fatta di un montaggio a volte dilatato e all’improvviso serrato, tra immagini digitali e la più classica delle inquadrature? Dai paesaggi siciliani scolpiti con lo sguardo austero di un uomo nordico o dalle frasi che squarciano i dialoghi come sentenze improvvise tipo: "L’artista è una specie di idiota che vede ciò che gli altri non vedono. Ha senza alcun merito questo dono".

E il genere, qual è? È un melodramma d’amore e mistero, commentato da sapiente scelta di vecchie canzoni e brani lirici? O prevale la suspense del giallo con l’inquietante principe gattopardesco che prepara lo scenario di un delitto? O ancora, cosa è più forte: la favola della principessa chiusa nel monastero, il dramma esistenziale della mezza età, il film politico sul potere?

Quello che di certo c’è nel ’Regista di matrimoni’ scritto, diretto e prodotto da Marco Bellocchio con la sua Filmalbatros insieme a Rai Cinema, è la volontà di spezzare ogni schema, compresi quelli più consolidati del cinema di Bellocchio. Perché qui si narra di un uomo (Sergio Castellitto) che entra in crisi quando la figlia decide di sposare un fervente cattolico. Si narra della sua fuga in Sicilia e dell’incontro con un altro regista (Gianni Cavina) che si è finto morto pur di vincere il David ("Perché in Italia sono i morti che comandano"). E si dipinge letteralmente fra gli stucchi e i marmi delle ville, l’ambiguo rapporto fra il nostro e il principe Ferdinando Gravina di Palagonia (Sami Frey, ma il rimando al Burt Lancaster viscontiano è inevitabile) e la passione d’amore per la sua bellissima figlia Bona (Donatella Finocchiaro). E così dopo ’Buongiorno Notte’ - il patricidio, la colpa, il passato e la compattezza di una pagina di storia - ecco un film sul presente, sull’attuale frammentazione, sulla visione multipla del mondo e sullo sguardo futuro: quello di Bellocchio e quello del nostro cinema.

Un regista che non riesce a fare il suo film, il cinema nel cinema e persino un carosello sulla spiaggia con sposa, sposo e suocere con cappello. ’Il regista di matrimoni’ è il suo ’8 e 1/2’?

"Prendo subito le distanze. Sia come autore che come spettatore. Questo non è né un film di affettuosa morbosità verso il cinema. Né appartiene a quella serie di capolavori come ’8 1/2’ e ’Effetto notte’ di Truffaut, dove il cinema e la macchina del cinema erano al centro di tutto il film. Non ha soprattutto quel gusto di nostalgia da cinefilo alla Philippe Garrel, che è un ottimo regista ma non mi somiglia. Volevo esprimere un amore per la ricerca, un entusiasmo che apra nuove strade".

Eppure la storia inizia in una casa di produzione in panne, i provini degli attori, la difficoltà dell’autore di fare un film sui ’Promessi Sposi’...

"Appunto qui si inizia dove ’8 e 1/2’ finisce. La vicenda parte dal regista che abbandona il progetto e si lancia in un’avventura sentimentale con una donna fuori dal comune. È una storia d’amore".

Amore verso il cinema, però: lei cita Fellini, il ’Gattopardo’ di Visconti e usa frammenti dei ’Promessi Sposi’ di Camerini. Non è un omaggio ai grandi maestri del cinema italiano?

"Assolutamente no. Io non cito Camerini cito i suoi ’Promessi Sposi’, un film devastante per me che lo vidi da bambino".

Perché devastante?

"Perché è un film sulla paura: la peste, la morte, l’inferno. Ero bambino alla fine degli anni Quaranta, anni in cui l’educazione cattolica era fondata sul terrore: della minaccia comunista e della morte. Non ricordo momenti di esaltazione del credente, ma solo una richiesta di martirio. Il messaggio che arrivava a noi bambini era questo: il comunismo avrebbe scristianizzato il mondo e l’unica salvezza sarebbe stata trasformarsi in martiri. Il film di Camerini allora coincideva perfettamente con questo terribile scenario".

Almeno Camerini il film l’ha fatto mentre il suo protagonista abbandona.

"Abbandona per mancanza di passione, per una crisi personale, per un fondo di indifferenza che si insinua in ogni rapporto con gli altri esseri umani. Finché una donna che chiede di essere salvata lo travolge in una passione inaspettata. La conquista finale di questa donna, la sua prima vera conquista con cui finisce il film, è un messaggio di sincero incoraggiamento".

L’indifferenza iniziale la riguarda?

"Tutti i miei film mi riguardano. Vengono sempre dopo ciò che è stato vissuto. È il primato della vita con le sue passioni e i suoi fallimenti. Certamente il film svela quello che sono, anche perché al centro c’è il rapporto uomo-donna che è ineliminabile nella mia vita".

Ma c’è anche il rapporto con il cinema. Nel film sembra questa la vera crisi d’amore. Lei frammenta la più classica delle visioni con le immagini digitali o il bianco e nero delle videocamere dei sistemi di sorveglianza...

"Come la vita del protagonista, anche il modo di fare cinema deve essere reinventato, per trovare nuove passioni. Siamo in un periodo di crisi dove sempre di più s’impone la domanda sul ’come fare le immagini’. Anche chi, come me, si è formato con apparati tecnici molto pesanti, capisce che deve imparare a lavorare con mezzi più agili per arrivare a miniaturizzare lo sguardo. L’innovazione tecnologica ha cambiato l’approccio alla realtà, ci ha regalato uno sguardo fulmineo. Non possiamo non tenerne conto".

E allora perché lei fa dire al principe che "l’importante non è il supporto, ma il film"?

"Certo che non è il supporto: altrimenti dovremmo pensare che con tutte le videocamere e telefonini, l’Italia abbia 20 milioni di registi. Fare cinema è qualcosa che riguarda un processo mentale e visivo, è un problema di originalità, di idee, di linguaggio e costruzione delle immagini che sono sempre al primissimo posto. La tecnologia da sola non dà cinema, al massimo pura fotografia dell’esistente".

Comunque questo suo film visivamente è molto diverso dai precedenti.

"Ha una complessità maggiore, la ricerca delle immagini è multipla, come se gareggiassero in varie situazioni le immagini video e quelle della macchina da presa. In qualche modo riprende la tecnica del film giallo. Ma a differenza dei gialli, dove le immagini video sono necessarie alla coerenza del plot, qui sono state scelte semplicemente quando erano più belle delle immagini in pellicola. Valgono come le altre, non sono funzionali alla rivelazione di qualcosa che è nascosto nella trama. Ho puntato su una essenzialità e su una forza che si è rivelata didascalica, al punto che in sede di montaggio sono cadute molte parole, sostituite dalle immagini".

E dalla musica. Un vero melò, con la presenza continua di canzoni anni Trenta, cori di chiesa, brani della ’Cavalleria Rusticana’, diverse versioni di ’Solo me ne vo per la città’ e persino il tema di Satie per ’Entr’acte’...

"Il melodramma è la mia musica di formazione e la ’Cavalleria Rusticana’ assomiglia al mio sguardo nordico sulla Sicilia: in fin dei conti è stata scritta da un livornese. E la musica, compresi i temi originali di Riccardo Giagni e Carlo Crivelli, è essenziale contrappunto di un film che lavora tanto sull’immagine".

Ma lavora anche sulle parole, su sentenze come: "In Italia sono i morti che comandano", ripetuta per due volte nel film. È così?

"Rispondo da cittadino prima ancora che da artista. Sì, è così. Nella vita sociale e politica non c’è niente di nuovo e non avendo più idee, il vuoto trova ospitalità naturale nei principi della carità, dell’assistenza e del soccorso. Tutta la classe dirigente non ha il coraggio di esprimere autonomia verso il potere clericale. Le conversioni si moltiplicano, è stato sepolto persino il ’Libera Chiesa in libero Stato’ di Cavour e finanche un Bertinotti non ha il coraggio di dichiararsi ateo. Il ritorno al potere clericale è il ritorno dei morti che comandano".

Anche nel cinema comandano i morti?

"Comandano in tutta la cultura quando non si ha il coraggio di investire sulla ricerca di un nuovo pensiero, quando si è ancorati al vecchio e ancor peggio al restauro del vecchio. Quando nel cinema dettano legge film vecchi come ’Natale a Miami’. Non vedo annunci di primavera nel cinema italiano. Di fronte a noi solo un lungo inverno".

http://www.espressonline.it/eol/fre...


http://www.edoneo.org/

Messaggi

  • Ciao Marco! Sono Barbara, una Tua ammiratrice da sempre. Ho visto quasi tutti i Tuoi film.

    Tu ci metti davvero l’anima!

    La cosa che mi piace di più è che il lunedì ci incontriamo ai Seminari di Massimo.

    Tu sei tornato, io sono lì soltanto da un mese. Che fatica! Eppure è questa la strada, l’unica strada della ricerca.
    Anche la mia vita, come per te è imprescindibile dal rapporto uomo donna!

    Spero al più presto di vedere il Tuo film e anche di poterTi salutare.

    Mille baci.

    Barbara