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Uniti su un nuovo patto di lavoro

Publie le sabato 14 febbraio 2004 par Open-Publishing

Forum Sociale Movimenti Vittorio Agnoletto

Com’è possibile che il movimento dei movimenti, dopo il grande successo ottenuto a Mumbay, attraversi in Italia un momento di difficoltà come sembrerebbe emergere dalla lettura dei giornali e dalle tante email che hanno invaso le mailing-list dei fori sociali?

E’ sicuramente questa la principale domanda che agita la mente delle tantissime persone che si considerano, a pieno titolo, parte integrante del movimento, ma che non hanno potuto partecipare all’assemblea di Bologna.

La responsabilità che pesa su di noi, militanti ed attivisti, è enorme se, come penso, siamo tutt’ora convinti che questo movimento rappresenti la principale speranza per l’umanità di costruire un altro mondo non fondato sulla dittatura del mercato e sull’idolatria del profitto.

La mia convinzione è che non stiamo attraversando una crisi strutturale del movimento italiano; non vi è dubbio infatti che le nostre posizioni di critica alle grandi istituzioni liberiste e alla guerra infinita, militare ma anche sociale ed economica, hanno conquistato fette amplissime della popolazione italiana.

Inoltre la capacità di mantenere una nostra autonomia, fondata sulla centralità dei contenuti, ha avuto la forza di innestare non poche proficue contraddizioni anche sul terreno della politica istituzionale e del dibattito sindacale. Le vicende di questi ultimi giorni ne sono solo un ennesimo esempio: in assenza di un grande movimento di massa la contestazione alla guerra non avrebbe certo attraversato e diviso, anche drammaticamente, le formazioni politiche dell’opposizione.

Un movimento quindi che fa politica, con forti radici nelle lotte sociali, geloso custode della propria autonomia, ma altrettanto severo critico di una qualunque supposta autonomia della sfera politica dalle dinamiche sociali. Un movimento che non si divide al suo interno sugli schieramenti e sulle scelte tattiche o strategiche delle forze politiche, ma che ripropone costantemente, come unico terreno di confronto la centralità dei propri contenuti.

Non dobbiamo mai dimenticare che la somma delle varie organizzazioni è sempre immensamente inferiore alla vastità del movimento stesso. Così come la capacità di penetrazione delle nostre idee nella società italiana va ben oltre la somma delle specifiche superfici di contatto delle forze presenti nel movimento. L’azione di leadership collettiva, alla quale siamo chiamati, comprende la continua costruzione di connessioni sociali e la realizzazione di uno spazio stabile di confronto fondato su un nuovo patto di lavoro, in grado di definire obiettivi comuni, da costruire attraverso campagne articolate nel tempo.

In questa prospettiva l’unità del movimento attorno ad un patto di lavoro rappresenta, per tutti noi, un innegabile punto di forza, così come il pluralismo rappresenta per noi un’indubbia ricchezza.

Abbiamo, forse per la prima volta dopo decenni, l’opportunità di costruire nella società un consenso di massa attorno alle nostre proposte. Tale consenso passa anche attraverso la capacità di offrire terreni d’azione comune in grado di avvicinare (e non di allontanare) chi a noi guarda con interesse e di stimolare le più ampie forme di partecipazione, sfuggendo alla proliferazione delle tifoserie e all’estetica del gesto fine a se stesso. La scelta delle forme di lotta, al di là di qualunque altro dibattito, non può prescindere da simili valutazioni.

Il percorso verso questi obiettivi rischierebbe di essere vanificato se dovesse prevalere nel movimento la convinzione che la fase di crescita sia ormai terminata, che è giunta l’ora di misurare il successo della propria organizzazione e la capacità di costruire la propria egemonia sul movimento stesso. Produrremmo solo rotture, molte persone si allontanerebbero dal movimento, deluse e convinte di aver perso la possibilità di vivere in una casa comune seppure con tante stanze ma anche con tanti spazi di uso collettivo.

Per dirla (scriverla) schematicamente: un’eventuale rottura, anche se vissuta soggettivamente a sinistra, innesterebbe una deriva in direzione opposta di ampi settori del movimento (se con questo termine non ci rivolgiamo solo all’importante, ma limitata, area di coloro che hanno fatto della militanza la scelta della propria vita). E sappiamo bene che dentro il movimento, così come ad esempio nella stessa Cgil, vi sono organizzazioni e aree che, non condividendo la radicalità espressa in questi anni (garanzia di un’unità costruita non sulla mediazione al ribasso), stanno solo aspettando il momento opportuno per rilanciare una prospettiva moderata finalizzata ad un’impossibile gestione riformista della globalizzazione liberista.

Penso che sia bene non fare nulla per accorciare la loro ancora lunga e, ci auguriamo, infinita attesa.