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Afghanistan: l’iniziativa di Rifondazione può impedire il coinvolgimento diretto dell’Italia nella guerra

Publie le mercoledì 5 luglio 2006 par Open-Publishing

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di Franco Ferrari

L’esito del dibattito politico nell’Unione sul rifinanziamento della missione in Afghanistan deve essere valutato nell’ambito del contesto politico-militare che caratterizza il conflitto nel Paese asiatico. L’accordo raggiunto nel Governo, se sarà confermato, prevede il mantenimento e se possibile una riduzione della presenza militare italiana nonché la conferma dell’attuale dislocazione e dell’attuale mandato.

Si tratta di una intesa che si limita a garantire la continuità dell’impegno italiano, voluto dal governo di centro-destra ma condivisa anche da buona parte del centro-sinistra? Questa è l’interpretazione che fornisce il Ministro Parisi. In realtà parlare semplicemente di continuità non rende chiara qual è l’effettiva portata della scelta compiuta.

La decisione interviene all’interno di un percorso già delineato che prevede un mutamento sostanziale del ruolo della missione ISAF (International Security Assistance Force) con una più diretta partecipazione al conflitto militare tra le forze occupanti e i talebani. Questo impegno si deve realizzare attraverso l’ampliamento dei militari presenti, che passerebbero dai circa 9.000 attuali ai 16.000 previsti e uno spostamento dell’area di intervento nelle province del sud dell’Afghanistan dove da oltre un anno è in corso una ripresa della guerra.

L’ISAF comprende militari di 37 paesi, della NATO e non, ed è stata costituita per affiancare l’intervento militare americano (denominato Enduring Freedom) sulla base di una decisione del Consiglio Permanente delle Nazioni Unite. A differenza dell’intervento armato in Iraq, questa iniziativa militare gode di un più ampio consenso internazionale. E’ sostenuta dalla Cina e al suo interno sono attivi paesi che hanno criticato la decisione degli USA di scatenare la guerra in Iraq, come la Francia e la Germania.

I militari dell’ISAF ufficialmente non partecipano direttamente al conflitto, ma di fatto svolgono una funzione di supporto agli Stati Uniti, i quali sono impegnati in prima linea nelle operazioni militari (bombardamenti che spesso colpiscono i civili, rastrellamenti, scontri a fuoco, ecc.). E’ evidente che la presenza delle forze militari ISAF, tra le quali quelle italiane, consentono agli Stati Uniti di poter impiegare un maggior numero di propri soldati e mezzi concentrandosi nella guerra vera e propria, non dovendosi occupare del controllo del territorio a Kabul e nelle provincie più tranquille.

Il piano di sviluppo dell’ISAF prevedeva già da tempo per il 2006 un ampliamento del ruolo militare. I nuovi contingenti militari dovrebbero essere collocati in zone dove è attiva la guerriglia. Anche se formamente viene mantenuta la distinzione tra operazioni di guerra condotte nell’ambito di Enduring Freedom e operazioni di controllo e ricostruzione gestite dall’ISAF, l’allargamento dell’area di operazioni di quest’ultima nelle zone più calde non può che sancire nei fatti un mutamento del carattere dell’operazione guidata dalla NATO. Viene a cadere il fragile velo della missione di pace.

Il ruolo italiano va collocato in questo contesto. Finora i militari italiani, divisi fra Kabul e la provincia di Herat, non hanno realmente partecipato ai combattimenti. Come risulta anche dai resoconti forniti dal Ministero della Difesa e confermati da altre fonti, il ruolo del contingente italiano è stato soprattutto quello di controllare il territorio. Finora la partecipazione alla guerra è stata indiretta e ha avuto soprattutto un significato politico.

Nel corso del 2006 tutto questo avrebbe dovuto cambiare impegnando direttamente l’Italia nel teatro di guerra. La decisione era stata formalizzata nella riunione dei Ministri degli Esteri della Nato tenuta l’8 dicembre scorso nella quale venne approvato il nuovo Piano Operativo.

Nel febbraio scorso, intervenendo ad un convegno dell’UDC, il generale Fabrizio Castagnetti anunciava l’impegno del’Italia ad inviare in Afghanistan sei cacciabombardieri ricognitori del’Aeronautica italiana AMX. Per la prima volta dalla guerra del Kosovo, aerei di combattimento italiani sarebbero stati schierati all’estero. Ufficialmente gli aerei avrebbero dovuto "fotografare i campi d’oppio". Una spiegazione che non ha convinto in primo luogo gli esperti di cose militari. Questi aerei avrebbero dovuto sostituire gli F-16 norvegesi per i quali era previsto apertamente un impiego militare. Questi aerei avevano come compito anche di fornire assistenza alle forze terrestri USA di Enduring Freedom.

L’espansione del ruolo della Nato in Afghanistan attraverso l’operazione ISAF è stato confermato in una riunione dei Ministri della Difesa dei 37 Paesi che ne fanno parte, quindi anche dell’Italia, che si è tenuta a Bruxelles l’8 giugno scorso.

Questa trasformazione operativa della presenza militare italiana in Afghanistan può venire bloccata dall’iniziativa di Rifondazione Comunista sostenuta anche dai Verdi e da settori pacifisti dei DS, con la cancellazione dell’invio degli aerei AMX, il mancato invio di nuovi soldati per partecipare al radoppio delle forze dell’ISAF e il rifiuto di procedere ad una ridislocazione di parte delle truppe nelle zone di guerra.

Dal punto di vista politico questa decisione, anche se non raggiunge l’obbiettivo del ritiro completo, può aprire una dinamica importante. La scelta di inviare le truppe in Iraq è stata un atto di subalternità e di allineamento acritico del governo Berlusconi nei confronti degli Stati Uniti. Il loro ritiro, che costituisce un indubbio successo del movimento pacifista, ricolloca l’Italia nell’alveo della maggioranza dei Paesi europei che non hanno condiviso la guerra (Germania, Francia, la Spagna di Zapatero). Una svolta pacifista sulla "questione afghana" apre contraddizioni tra l’Italia, la Nato e quello stesso blocco autonomista dell’Unione Europea in dissenso con gli Usa sull’occupazione militare dell’Iraq.

Questa è una delle ragioni dell’opposizione delle forze moderate dell’Unione ad uscire dal teatro afghano, ma anche dell’importanza della partita che si sta svolgendo. Impedire l’allineamento dell’Italia alla Nato in Afghanistan è il primo ma necessario passo per mettere in discussione il ricorso allo strumento militare per il controllo dei conflitti politici, economici e sociali a livello internazionale.