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Donne, Globalizzazione e il Movimento Internazionale delle Donne

Publie le giovedì 12 gennaio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Donne Movimenti Internazionale

di Silvia Federici

Introduzione

Immagini di donne che stringono a sé i propri bambini tra macerie che un tempo erano le loro case, che lottano per ricrearsi una vita al di sotto dei tendoni dei campi profughi, o che lavorano in condizioni prossime alla schiavitù (lavoro nero, case di tolleranza, lavoro domestico all’estero) sono da anni ormai una miniera di risorse per notiziari e titoli di stampa.

Le cifre relative alla condizione femminile, in primo luogo nei paesi del "Terzo Mondo", supportano la storia di vittimizzazione raccontata da tali immagini (1) al punto tale che la "femminizzazione della povertà" è divenuta una vera categoria sociologica ( Jackson 1992-1993: 137-139; Lindsay 1997:144 ). Tuttavia, i fattori determinanti una simile deteriorizzazione delle condizioni di vita delle donne- che ironicamente coincide con un accesissimo intervento istituzionale inteso a migliorarne il destino (2) -non risultano del tutto comprensibili neppure in molti circuiti femministi.

Tra i sociologi femministi si è andata consolidando la convinzione che le donne paghino un "costo sproporzionato" per l’entrata dei loro paesi nel sistema economico globale. Ma le cause di tale situazione non vengono discusse con altrettanta prontezza, oppure vengono sbrigativamente attribuite alle attitudini patriarcali delle agenzie internazionali che presiedono la globalizzazione.

Per questo, alcune organizzazioni femministe hanno proposto una nuova "marcia attraverso le istituzioni" per influenzare lo sviluppo globale e sensibilizzare le agenzie finanziarie alle questioni di genere ( Wichterich 2000: 153-154, 159-160; Porter and Judd 1999: 196 ); mentre altre si sono invece trasformate in gruppi di pressione affinché i governi aderiscano alle raccomandazioni delle Nazioni Unite o delle ONG riconosciute dall’ONU, partendo dall’assunto di base che la strategia più efficace sia la "partecipazione".

In questo saggio si intende criticare quest’analisi, sostenendo invece che la globalizzazione è così catastrofica soprattutto nei confronti delle donne non tanto perché manovrata da agenzie dominate da uomini, sordi ai bisogni delle donne, quanto piuttosto in virtù dei traguardi che essa si prefigge di raggiungere. Lo scopo della globalizzazione consiste infatti nel conferire al capitale corporativo un controllo totale sul lavoro e le risorse naturali espropriando i lavoratori di qualsivoglia mezzo di sussistenza che possa fornire una piattaforma di resistenza a tale sfruttamento.

In quanto tale, non può realizzarsi se non attraverso un sistematico attacco alle condizioni materiali di riproduzione e ai soggetti che ne sono principalmente interessati: nella gran parte dei paesi, le donne. Inoltre, le donne vengono vittimizzate in quanto colpevoli dei due reati capitali che la globalizzazione è chiamata a debellare. Sono loro infatti, che con le loro battaglie hanno contribuito per prime a "valorizzare" il lavoro dei propri figli e delle proprie comunità, lanciando una sfida alle gerarchie sessuali su cui l’accumulazione del capitale ha prosperato, e forzando lo stato ad espandere i propri investimenti nella riproduzione della forza-lavoro (3).

Sono state sempre loro le principali sostenitrici di un uso non-capitalistico delle risorse naturali (terra, acqua, foreste ) e di un’agricoltura di sussistenza, ostacolando una totale commercializzazione della "natura" e la distruzione delle ultime "comuni" sopravvissute (Steady 1993; Shiva 1994; Kuma 1997; Matsui 1999 ) (4) .

E’ per tali motivi che la globalizzazione in tutte le sue forme- riadattamenti strutturali, liberalizzazione del mercato, guerra fredda - è nella sua intima essenza una guerra contro le donne, particolarmente accanita contro quelle del Terzo Mondo; una guerra che mina l’esistenza e l’autonomia delle donne proletarie di tutte le regioni della terra, incluse sia quelle dei paesi ex-socialisti, che di quelli a "capitalismo avanzato".

Ne consegue che qualunque miglioramento della posizione sociale della donna debba precedere la lotta contro la globalizzazione e la delegittimazione delle agenzie e dei programmi che sostengono un’espansione globale del capitale ( a partire dal Fondo Monetario Internazionale ( FMI) della Banca Mondiale ( BM ) e dell’Organizzazione del Mercato Mondiale ( OMM ) ).

In contrasto, ogni tentativo di potenziamento della condizione della donna attraverso riforme o "sessualizzazione" delle agenzie internazionali non è soltanto destinato al fallimento, quanto ad avere un effetto mistificatore, permettendo a tali agenzie di cooptare alle battaglie che le donne stanno conducendo contro il programma neo-liberale, per la costituzione di un’alternativa non-capitalista (5).

Globalizzazione: un attacco alla riproduzione.

Per comprendere il perché la globalizzazione vada intesa come guerra alle donne è necessario innanzitutto interpretare "politicamente" tale processo in qualità di strumento utilizzato per sconfiggere la resistenza dei lavoratori attraverso l’espansione globale del mercato del lavoro. In altre parole, si deve guardare alla globalizzazione non in quanto processo autonomo, ma piuttosto come risposta al ciclo di lotte che, a partire dal movimento anti-colonialista, per continuare poi con il Black Power e il Movimento Femminista, ha sfidato tra gli anni ’60 e ’70 la divisione internazionale e sessuale del lavoro, conducendo non soltanto ad una crisi storica dei profitti, ma ad una vera e propria rivoluzione sociale.

Le battaglie delle donne - contro la dipendenza dagli uomini, per il riconoscimento del lavoro domestico come lavoro vero e proprio, per l’espansione dei propri mezzi di sussistenza, contro le gerarchie razziali e sessuali - hanno rappresentato un aspetto cruciale della crisi - ragione per la quale la donna è stata uno speciale bersaglio della ricostruzione economica globale.

Non è un caso, infatti, se tutti i programmi associati alla globalizzazione ( adattamenti strutturali, liberalizzazione del mercato, distruzione degli assetti economici e delle risorse naturali ) hanno riportato effetti particolarmente negativi proprio sulle donne. I Programmi di Adattamento Strutturale (PAS), ad esempio, sebbene promossi come mezzi di ripresa economica, sono stati per queste estremamente deleteri, in quanto non c’è quasi nessuna clausola dei PAS che non abbia leso la vita delle donne, e non le abbia inabilitate a riprodurre sé stesse e le proprie famiglie.

Uno dei principali obiettivi dei PAS consiste nella "razionalizzazione" dell’agricoltura, ad esempio con la sua commercializzazione e riorganizzazione sulle basi dell’esportazione (Caffentzis 1995). Ciò si traduce in un’ ulteriore conversione di terra coltivabile in lotti in vendita, e lo sradicamento delle donne che nel mondo sono le principali coltivatrici dirette ai fini della mera sussistenza.

Anche qui le donne hanno pagato il prezzo più caro, non solo perché tristemente note come le prime ad essere licenziate, ma anche perché un limitato accesso alle cure mediche e all’educazione dei figli può significare per loro la differenza che intercorre tra la vita dalla morte ( Thurshen 1991; Iyun 1995 ). Anche la costituzione della cosiddetta linea d’assemblea globale, la quale si alimenta del lavoro di giovani donne assunte da compagni fuggiaschi in cerca di facili guadagni, s’inserisce di fatto in questa guerra alle donne e alla riproduzione. Ciò non vuole necessariamente significare che il lavoro industriale per il mercato globale non può rappresentare un’opportunità per una maggiore autonomia, come suggeriscono infatti alcune scrittrici femministe ( Susan, Joekes 1995).

Ma non andrebbe neppure dimenticato che quando questo è vero, considerati gli estenuanti orari e le condizioni coercitive, se non pericolose, del lavoro, si tratta molto spesso di un’autonomia acquistata al caro prezzo di condizioni di salute precarie, e di una definitiva distruzione delle possibilità per una donna di avere una famiglia. Quindi, l’idea che lavorare nei Porti Franchi o nelle maquilas possa costituire una soluzione temporanea soddisfacente per giovani donne prima del matrimonio si tramuta spesso in una crudele illusione, in quanto non solo la maggior parte di esse trascorrerà il resto dei propri giorni relegate in vere fabbriche-prigioni, ma anche quelle che rinunceranno, scopriranno presto che i loro corpi avranno già subito danni irreparabili.Emblematico il caso delle giovani che lavoravano nell’industria floreale in Kenya o Colombia, che dopo anni, o addirittura mesi, diventano cieche o contraggono malattie mortali in seguito all’esposizione costante ai suffumigi e ai pesticidi velenosi ( Wichterich 2000: 1-35 ).

L’ennesima manifestazione di questa guerra intrapresa dalle agenzie internazionali ai danni delle donne s’incarna nel fatto che in tutto il mondo, molte di esse sono costrette ad emigrare .
Di nuovo, ciò non implica una svalutazione dell’emigrazione in quanto rifiuto di soccombere per la disperazione,e che riflette sempre la determinazione a seguire il percorso del danaro che agenzie internazionali come la Banca Mondiale stanno travasando dal Terzo Mondo.

Sta di fatto che una vasta popolazione di donne provenienti dall’Europa orientale, dalla Russia, dal Messico, dai Carabi, così come dalle Filippine, può sopravvivere solo cessando si vivere con le proprie famiglie e collaborare alla perpetuazione di queste ultime, per andare invece a riprodursi in altri paesi, spesso in condizioni di illegalità ed estrema vulnerabilità all’abuso.

Tuttavia gli esempi forse più rappresentativi in assoluto dell’attuale guerra alle donne sono lo sviluppo dell’industria del turismo sessuale ( Asia watch 1993; Gabriela 1997 ) e del mercato internazionale dei neonati ( Federici 1999).

Testimoni di una vera disintegrazione dei vincoli sociali di pari passo alll’affermarsi della "globalizzazione", entrambi i fenomeni dimostrano il ruolo, all’interno della contemporanea economia globale, assegnato alla capacità delle donne di procurarsi da vivere, e alle future generazioni: categorie entrambe talmente screditate da possedere come unica valenza riconosciuta quella di beni d’esportazione (6).

Talmente cruciale è la svalutazione governativa della riproduzione del lavoro ai fini del consolidamento del Nuovo Ordine Mondiale che laddove debito e riadattamento non siano bastati, si è ricorsi alla guerra come strumento per la distruzione delle varie economie di sussistenza, soprattutto in regioni ( come l’Africa ) in cui queste sono maggiormente radicate.

Già in altri lavori si è voluto dimostrare in che misura le varie guerre ingaggiate negli ultimi anni sul continente africano siano connesse con le politiche di riadattamento strutturale che hanno acutizzato i conflitti locali e precluso ogni possibilità di arricchimento per le élite locali al di fuori del saccheggio puro e delle razzie ( Federici 2000).In questa occasione si vuole enfatizzare quanta parte della guerra odierna, pur diversamente manifesta ( sia attraverso la "guerra alla droga" in America Latina, che in pratica implica la distruzione dei raccolti dei contadini tramite incendio doloso, sia con la "guerra a bassa intensità e gli "interventi umanitari" ) miri alla distruzione di ogni sistema agricolo di sussistenza e, non a caso, i suoi obiettivi primari siano soprattutto le donne e i bambini.

Altri fenomeni che hanno preceduto il processo di globalizzazione dimostrano effetti devastanti sulle donne e la riproduzione: tra questi la privatizzazione di risorse di beni primari come ad esempio l’acqua ( l’ultima sortita della Banca Mondiale è stata un’aperta dichiarazione che le guerre del ventunesimo secolo saranno condotte proprio per l’acqua ); la distruzione di risorse ambientali ( come le foreste, ora massicciamente convertite in legname esportato da molti paesi "riadattati" ) tradizionalmente alla base delle colture curate da donne ( Shiva ed. 1994 ).

Ciò che tutti questi esempi dimostrano è che si è promossa una politica di svalutazione della riproduzione della forza-lavoro globale per far sì che il posto di lavoro venisse sempre più a somigliare a quelli che prevalevano nelle piantagioni degli USA e delle piantagioni coloniali nei Carabi ( almeno fino alla fine del mercato degli schiavi nel 1807), dove i lavoratori si consumavano producendo per il mercato globale, e non per riprodurre sé stessi.Che non si stia esagerando lo si evince dalla realtà quotidiana di gran parte dei paesi "riadattati", caratterizzata per l’appunto da:

 Un’impennata nel tasso di mortalità e un crollo delle probabilità di vita ( cinque anni dalla nascita, per i bambini africani ) (ONU 1995b:77).
 L’atomizzazione delle famiglie e delle comunità, fenomeno che conduce inevitabilmente i bambini a vivere per strada o ad essere costretti a lavorare come schiavi ( Schlemmer 2000 ).
 Un incremento nelle stime dei rifugiati, soprattutto donne, allontanatisi a causa di guerre o politiche economiche ( Cohen e Deng 1998 ) (7).
 L’aumento della violenza contro le donne per mano dei loro stessi parenti maschi, delle autorità governative e degli eserciti armati ( Neft e Levine 1997:151-163 ).

Persino nel "Nord", la globalizzazione ha devastato l’economia politica nella vita delle donne. L’aumento ( sempre negli Stati Uniti, in teoria l’esempio più spettacolare e riuscito del neo-liberismo ) del numero di donne impegnate in più di un lavoro testimonia lo smantellamento dello Stato assistenziale negli Stati Uniti - che colpisce soprattutto le madri con figli a carico (Abramovitz 1996). Lo testimoniano anche l’assoluto impoverimento delle famiglie portate avanti unicamente da donne, lo scarto costantemente in aumento tra i salari percepiti dagli uomini rispetto a quelli delle donne, e la politica d’incarceramento di massa coerentemente annesso al ripristino della tipologia economica della piantagione persino nel corso di una piena industrializzazione

Le rivendicazioni delle donne e il Movimento Femminista Internazionale.

Quali le implicazioni di una tale situazione per il movimento femminista internazionale? La risposta immediata è che le femministe dovrebbero non solo richiedere la totale cancellazione del debito del Terzo Mondo e l’abolizione della Banca Mondiale e del FMI, ma dovrebbero inoltre sostenere un’ampia politica di riparazioni, restituendo alle comunità devastate dalla "ricostruzione" le risorse di cui sono state private. A lunga scadenza, se quanto detto finora è vero, si potranno dunque trarre le relative conclusioni.

Tra esse, la prima sarebbe che le donne non potranno aspettarsi alcun tipo di miglioramento, tanto meno la propria liberazione, dal capitalismo. Questo perché le politiche delle ultime due decadi hanno senza alcun dubbio dimostrato che il sistema capitalistico non è affatto compatibile con la soddisfazione dei nostri bisogni. Come si è potuto osservare, non appena i movimenti anticolonialisti, per i diritti civili e femministi hanno forzato il sistema per delle concessioni, quest’ultimo ha reagito con l’equivalente di una bomba nucleare.

In secondo luogo, se non ci si può permettere il capitalismo, e se la distruzione dei nostri bisogni base di sussistenza è indispensabile per la sopravvivenza dell’ultimo, è proprio questo il terreno su cui concentrare i nostri sforzi. I modelli provengono dalle lotte che le donne hanno combattuto soprattutto nel "Sud" dove sono le basi dei movimenti che hanno marciato lungo le strade di Seattle, Washington, Praga e Seoul. Hanno mostrato che le donne possono far tremare persino il più repressivo dei regimi, e confermato tre principi che dovrebbero guidare il movimento femminista.

1. Poiché i rapporti più saldi sono intrattenuti proprio dalle madri con i figli,le famiglie, e le comunità, le donne sono le principali deputate alla gestione dei rapporti sociali al di fuori di quelli gestiti dal mercato, e a sfidare la globalizzazione (8).

Un esempio-chiave qui sono le Madres de la Plaza de Mayo, in Argentina, le quali, per difendere i loro bambini, hanno sfidato uno dei più repressivi regimi dei nostri tempi, arrivando a svelare il segreto dei piani di sterminio della junta, nonostante la mancanza d’esperienza politica, in tempi in cui nessun altro nel paese avrebbe osato compiere una sola mossa ( Fisher 1993: 103-115 ).

Un caso simile è rappresentato dalle donne cilene che, poco dopo il colpo di stato militare del 1973 e l’applicazione della "terapia d’urto" al paese ( modello per tutti i successivi PAS ) si organizzarono per assicurare cibo alle proprie famiglie costituendo cucine sociali, e prendendo coscienza, lungo il processo, dei loro bisogni e della loro forza in qualità di donne ( Fisher 1993: 17-44; 177-200 ). Ancora oggi, sono le donne che provvedono alle principali risorse di resistenza all’impoverimento, non solo tramite duro lavoro e attivismo politico, ma anche ( come già affrontato sopra ) emigrando.

Sebbene sia una risposta alle necessità economiche, e venga tradizionalmente riconosciuta come strategia maschile, l’emigrazione si traduce oggi per le donne in una piattaforma di lancio per le loro rivendicazioni. A dispetto degli immensi ostacoli che sono chiamate ad affrontare ( separazione dalle loro famiglie e parenti, adattamento a condizioni di vita durissime, persecuzione poliziesca ) le donne emigranti riescono con successo ad esportare non solo il loro lavoro, quanto soprattutto la loro combattività, ed infatti in molti paesi in Europa e negli Stati Uniti sono a capo delle battaglie in tema di riproduzione ( dal diritto alla casa, all’istruzione, all’assistenza sanitaria, alle colture urbane)

2. Il potere delle donne non viene dall’alto, né dispensato dai trattati né dalle istituzioni globali come le iniziative dell’ ONU, ma deve costituirsi dal basso, perché solo attraverso l’autorganizzazione le donne potranno rivoluzionare le proprie vie. In tale contesto, le femministe farebbero bene a considerare che le iniziative promosse dalle Nazioni Unite in favore di un avanzamento dello status delle donne hanno spesso e volentieri coinciso con i più devastanti attacchi alla donna su scala mondiale- attacchi la cui responsabilità va attribuita alle agenzie aderenti al sistema delle Nazioni Unite, ovvero la Banca Mondiale, il FMI, l’OMM, e soprattutto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

In contrapposizione con lo pseudo-femminismo dell’ONU, con il suo retaggio di ONG,i progetti di creazione di guadagni e rapporti paternalistici con i movimenti locali- si stagliano le organizzazioni autorganizzate che le donne hanno recentemente formate in Africa, Asia, e America Latina ( Jelin 1990 ) per lottare per i servizi sociali ( come strade, scuole, cliniche ), per resistere agli attacchi governativi contro il commercio ambulante ( Andreas 1985)- una delle principali risorse di guadagno per le donne- e per difendersi reciprocamente dagli abusi perpetrati dai propri mariti.

3. Come ogni altra forma di autodeterminazione, la liberazione della donna richiede condizioni materiali specifiche, di cui la prima è il controllo sui mezzi basilari di riproduzione e sussistenza.

Come discutono Maria Mies e Veronica bennholdt-Thomsen in The Subsistence Perspective (2000), tale principio non è valido soltanto per le donne del Terzo Mondo- protagoniste incontrastate della lotta per la riappropriazione delle terre usurpate dai grandi proprietari terrieri (Alvarado 1987) ma anche per le donne dei paesi industrializzati.

Ne sono testimoni le lotte che le donne oggi conducono nella città di New York per difendere dai bulldozer i giardini pubblici che loro stesse hanno costruito - prodotti di un lavoro collettivo che ha spesso riunito intere comunità e rivitalizzato quartieri fino ad allora considerati alla stregua di zone disastrate ( Cozart 1999, Fergusson 1999 ). Eppure la repressione che persino progetti di questo tipo hanno dovuto incontrare indica l’urgenza di una mobilitazione femminista contro l’intervento armato dello stato nella vita quotidiana così come negli affari internazionali. Ciò implica che anche le femministe devono organizzarsi contro la brutalità delle forze dell’ordine, l’apparato militare e, prima tra tutti, la guerra.

Il passo in assoluto più importante da compiere è opporsi all’arruolamento delle donne negli eserciti- già avanzato negli USA e recentemente introdotto in altri paesi dell’Unione Europea nel nome della parità e dell’emancipazione femminile. Molto va imparato da tale politica. L’immagine della donna in uniforme, infatti, che conquista la parità con gli uomini grazie al diritto di uccidere, è l’immagine di quanto la globalizzazione può offrirci, ovvero il diritto di sopravvivere alle spese di altre donne e dei loro bambini, i cui paesi e le cui risorse il capitale corporativo ha bisogno di sfruttare.

NOTE:

(1) Nell’Africa sud-sahariana, tra il 1980 e il 1985, la disoccupazione femminile cresceva del 10% ogni anno; in altri paesi il tasso di disoccupazione per le giovani donne al di sotto dei 20 anni si aggirava intorno al 44%, mentre era del 22% per gli uomini ( Jackson 1992: 38). In Nigeria, 75.000 donne muoiono ogni anno per cause collegate alla gravidanza (ibidem 139 )- una donna ogni sette minuti. In tutte le aree "in via di sviluppo" tra il 1983 e il 1988-prima fase della ricostruzione strutturale- le morti puerperali sono lievitate dalle 500.000 alle 509.000 all’anno (Nazioni Unite 1995b: 77 ).

(2) Ci si riferisce alle attività sponsorizzate dall’ONU in favore dell’emancipazione femminile, incluse le cinque Conferenze Globali sulla Donna, e la Decade della Donna ( 1976-1985 ). Consultare i seguenti testi: Nazioni Unite (1995° ); Nazioni Unite ( 1995 e 1996 ); e Meyer e Prugl (1999).

(3) Si vedano, ad esempio, le rivendicazioni delle madri per lo Stato sociale negli USA negli anni ’60, che hanno rappresentato il primo terreno di negoziati tra le donne e lo stato sul piano della riproduzione. Con tali battaglie le donne del Soccorso alle Famiglie con Bambini a Carico furono capaci di tramutare lo stato sociale nei primi "salari per il lavoro domestico". Si veda l’Organizzazione della Contea del Milwaukee per i diritti dello stato sociale ( 1972 ).

(4) Per le rivendicazioni delle donne contro la deforestazione e la commercializzazione della natura, si vedano ( tra gli altri ) Kumar ( 1993: 183-186 ); Shiva ed. ( 1994 ); Matsui ( 1999:pp. 87-90 ).

(5) Per un resoconto sulle modalità in cui la Banca Mondiale ha accresciuto la propria "attenzione al genere" come risultante delle polemiche sollevate delle ONG si veda Murphy ( 1995 ).

(6 ) Il traffico di donne è portato avanti con la complicità, se non l’istigazione, della Banca Mondiale che preme sulle cosiddette "nazioni debitrici" a pagare il proprio debito ad ogni costo. Paesi come la Tailandia e le Filippine hanno appunto risposto a tale appello promovendo il turismo del sesso e, secondo le nostre conoscenze, la Banca Nazionale non ha mai protestato ( Mies 1986: 140-141; Gabriela 1996; Walden Bello e altri 1998 ).

( 7) Le persone internamente emigrate tra il 1985 e il 1996 sono raddoppiate, passando infatti dai 10 ai 20 milioni ( Cohen e Deng 1998: 32 ); per questa problematica si veda inoltre Macrae e Zwi (1994 ).

( 8) Secondo le nostre conoscenze non è ancora stato fatto uno studio che misuri il differenziale tra uomo e donna in rapporto alle cure familiari. Ciò di cui si è al momento in possesso è un’estesa letteratura esperienziale per ogni paese che testimonia il fatto che sono le donne che si occupano dei bambini e gli anziani, persino nei casi dell’impoverimento più brutale, laddove i partner maschili sembrerebbero più propensi a disertare le famiglie, bersi tutti i salari, persino di fronte ai bisogni pù impellenti, e, in cima a tutto ciò, a scaricare le proprie frustrazioni sulle loro compagne con l’abuso fisico. Un fatto interessante documentato dall’ONU è che in molti paesi, inclusi Kenya, Ghana, Filippine, Brasile e Guatemala, sebbene i salari delle donne siano decisamente più bassi di quelli degli uomini, nelle famiglie a conduzione prevalentemente matriarcale i casi di malnutrizione infantile sono decisamente più esigui ( ONU 1995b: 129 ).

dal sito www.noglobal.org