Home > Intervento di Alberto Burgio al VII Congresso nazionale del PRC

Intervento di Alberto Burgio al VII Congresso nazionale del PRC

Publie le martedì 29 luglio 2008 par Open-Publishing

Intervento di Alberto Burgio al VII Congresso nazionale del PRC

di Alberto Burgio

Care compagne e cari compagni,

sento dire ripetutamente che questo è un congresso molto difficile. Io penso che sia vero: è difficile. Ma come sono stati difficili anche gli altri che l’hanno preceduto. Ogni congresso ha la sua storia, presenta le sue sfide, impone le sue difficoltà.

Lo so bene: quando si pone l’accento sulle difficoltà di questo congresso, si pensa soprattutto alle nostre divisioni e a quello che esse hanno prodotto in queste settimane.
Io penso che questa prospettiva sia fuorviante e che ci impedisca di vedere come stanno le cose in realtà.

Penso che le vere difficoltà sorgano altrove.
Le vere difficoltà di questo congresso derivano dalla condizione del Paese e dalla politica di questo governo che è la punta avanzata della reazione antipopolare, antioperaia, razzista e autoritaria in Europa.
Le vere difficoltà derivano dalla nostra disastrosa sconfitta di aprile – che attende ancora un’analisi soddisfacente – e dall’inconsistenza delle risposte in campo alle politiche della destra, che incidono ogni giorno di più nella carne viva delle condizioni di vita e di lavoro (o di non-lavoro) di milioni di persone che davvero non arrivano alla fine del mese – e questo non è un modo di dire, non è uno slogan, è solo la descrizione di una dura, intollerabile realtà.

Questo è un Paese che sa essere feroce. C’è una ferocia particolare, che si impasta con la poca serietà, con lo scarso rigore, con il poco o nullo rispetto delle regole.
Del resto, la storia italiana è lì a rammentarcelo. Ci raccontiamo di un «bel Paese» popolato da «brava gente». E ci dimentichiamo allegramente che siamo stati il laboratorio del fascismo e il Paese delle stragi di Stato.

Poi, certo, ci sono anche le nostre responsabilità e ci sono anche i nostri errori. Ed è giusto parlare tra noi anche di questo, non voglio rimuovere il tema.
Ho sentito ripetere una frase in questi giorni. Ho sentito dire che «ci siamo fatti molto male tra noi» nel corso di questo congresso. Ecco, io vorrei dire che è vero, ma che è molto tempo che ci facciamo male tra noi. Non ci siamo fatti del male solo in questo congresso. Anzi, secondo me il discorso andrebbe capovolto. Ci siamo fatti del male in questo congresso perché abbiamo continuato a farci male anche nel tempo che l’ha preceduto. Questo è il punto, compagne e compagni, diciamoci la verità! Questo è il problema che dovremmo finalmente affrontare!

Io vorrei dire qualcosa su questo problema, su cui continuo ad arrovellarmi.
Perché facciamo tanta fatica a lavorare insieme? Perché stentiamo a costruire un contesto di ascolto reciproco, di stima, di messa a valore delle nostre rispettive capacità?
Parliamo sempre di «comunità».
Io credo che questo termine sia spesso pura retorica, e la retorica impedisce di vedere le cose come stanno. Noi non siamo – non siamo più, da tempo – una comunità. Il problema è precisamente capire perché, per vedere se riusciamo a ricostruire una modalità dello stare insieme nel segno del rispetto, dell’attenzione reciproca e dell’unità del partito.

Il problema è tutto politico. Ha a che vedere con la natura stessa di Rifondazione comunista, che è la confluenza di esperienze e di culture politiche diverse. Un microcosmo in cui convivono gli sviluppi di buona parte della storia della sinistra di classe di questo Paese. Questo ha consentito al nostro partito, a dispetto dei rapporti di forza, di essere il principale luogo di resistenza alla possente ondata distruttiva che aveva determinato la liquidazione del Pci.

Questa molteplicità di culture e di esperienze politiche era in potenza – ed è stata nei fatti, nei momenti migliori della nostra vicenda – una grande ricchezza. Era la materia prima con cui tentare la sfida della rifondazione comunista.

Abbiamo sempre rispettato questa molteplicità? Abbiamo sempre saputo metterla a valore?
No.
Anzi, in questi anni è spesso accaduto il contrario. Ha prevalso anche tra noi l’idea che per governare il partito fosse necessario «semplificare», cioè ridurre la complessità. E come si riduce la complessità? Escludendo, emarginando. Costruendo gruppi dirigenti che fossero espressione di una parte più o meno omogenea, che anzi diveniva tanto più omogenea quanto più veniva contrapposta al resto del partito.

Questa è stata la nostra principale malattia. È stato un errore di scarsa tolleranza e anche di scarsa fiducia in noi stessi, nelle nostre risorse e potenzialità, che non abbiamo saputo mettere pienamente a valore.
Abbiamo preferito dividerci piuttosto che accettare la sfida di cercare insieme la strada, ascoltandoci a vicenda.

E vorrei dire ancora qualcosa a questo riguardo.
Se unità e rispetto del pluralismo interno fossero soltanto questioni di democrazia, sarebbero già di per sé aspetti rilevantissimi. Ma non si tratta soltanto di questo. C’è un problema di intelligenza collettiva che dobbiamo sapere mettere a frutto, perché diversamente il rischio di commettere errori diventa insostenibile, e la politica si trasforma in un azzardo quotidiano.

Perché dico questo, cari compagni?
Perché le diverse posizioni che vivono dentro il partito non sono fantasie, non sono idiosincrasie stravaganti. In ciascuna di esse vivono ragioni, si riflettono esperienze, si esprimono letture della realtà. E allora tenerne conto è l’unico modo per ancorare le scelte del partito a un fondamento ricco di esperienza e di oggettività.
Se non si fa questo, si rischia di far prevalere prospettive personali e scelte discrezionali. Di imporre in modo arbitrario i propri soggettivi convincimenti. E questo – è facile capirlo – accresce enormemente il pericolo di sbagliare valutazioni, analisi, linea politica. Come è capitato anche a noi, soprattutto in quest’ultima parte della nostra storia.

Conosco l’obiezione che si suole avanzare a questo punto. Si dice: solo così, solo dividendosi, solo scegliendo una parte contro l’altra, si possono prendere decisioni coerenti, elaborare linee chiare. Io credo che questo discorso sulla chiarezza, che ho sentito ripetutamente in questi giorni, sia mal concepito.
Tutti noi, credo, amiamo la chiarezza, questa virtù cartesiana. Ma la chiarezza è una cosa, l’unilateralità un’altra. Si può essere unilaterali e molto confusi, e si può essere chiari anche costruendo una sintesi tra ipotesi diverse.
Capisco che la seconda strada è più difficile, chiede modestia, impone l’esercizio della pazienza, soprattutto impedisce a chiunque di pretendere di decidere da sé. Ma questa credo sia la sfida della politica, che comincia anche dentro il partito. È una sfida obbligata, che si vendica di chi la ignora e sceglie la strada della parzialità, dell’unilateralità, della violenza.

Dividere per dividere non è mai una buona pratica. Consegna soltanto vittorie effimere e illusorie, allontana dall’obiettivo che tutti noi ci poniamo: incidere nella società, difendere gli interessi e i diritti delle classi sociali più esposte, rappresentare il lavoro, affermare le ragioni della pace, dell’uguaglianza e della giustizia sociale, far prevalere una concezione più avanzata della libertà delle persone, quali che siano i loro convincimenti, le loro credenze, le loro preferenze, le loro speranze.

Vedete, care compagne e cari compagni, noi comunisti veniamo fuori da una storia fatta anche di divisioni. Il partito comunista nacque in Italia, oltre ottant’anni fa, da una scissione. E una delle sue figure più importanti, Antonio Gramsci, scrisse molte pagine sullo «spirito di scissione» come virtù rivoluzionaria.
Ma Gramsci non intendeva certo fare l’apologia delle divisioni. Sapeva bene che lo spirito di scissione (che non è sinonimo di settarismo e di supponenza, ma è figlio dell’autonomia, della coscienza di sé e della critica razionale delle posizioni altrui) non è distruttivo soltanto se si collega a una prospettiva certa di sviluppo e se è – come effettivamente fu, sin dalla sua nascita, il Partito comunista in Italia – espressione di una grande forza ideale e materiale, capace di trascinare con sé grandi masse di popolo e di aggregare l’intero campo delle classi lavoratrici.
Allora sì, introdurre distinzioni, far valere differenze, imporre alternative è giusto e necessario. Serve a liberare forze e a renderle più efficaci nell’iniziativa politica.
Ma se non ci si trova in questa condizione, se non si hanno dietro di sé e accanto a sé grandi forze, vasti strati sociali, allora il primo dovere politico è la ricerca dell’unità. E noi sappiamo molto bene che in questo momento siamo pochi, stentiamo a farci ascoltare e capire, rischiamo di rimanere isolati nella società.

Chiudo, compagne e compagni, dicendo che credo che proprio questo sia il tema del nostro congresso, e la vera ragione della sua difficoltà.
Noi siamo di fronte precisamente a questo dilemma: replicare la pratica della divisione o recuperare la pratica dell’ascolto e dell’unità.
Noi della prima mozione una scelta l’abbiamo fatta sin da subito. Abbiamo scritto a chiare lettere che siamo impegnati nella ricerca di soluzioni unitarie, che permettano una gestione effettivamente collegiale del partito. L’abbiamo scritto prima che il congresso cominciasse e ora possiamo dire che il congresso ha confermato che questa posizione è corretta.

Che cosa ci hanno detto infatti i congressi sui territori?
Ci hanno detto che il nostro partito è vivo e vuole continuare a vivere, preservando la propria autonomia culturale, politica e organizzativa per riprendere il cammino delle lotte in questo Paese che sembra aver smarrito persino la capacità di vergognarsi.
Ci hanno detto che questo nostro partito guarda con orgoglio alla storia del movimento operaio e dei comunisti, che con la Resistenza e la Costituzione repubblicana e antifascista hanno dato a questo Paese – alla nostra gente, al lavoro, alle masse dei subalterni – per la prima volta la dignità e la possibilità di decidere di sé.
Ci hanno detto che la ricerca necessaria dell’unità a sinistra non può essere il pretesto per mettere in discussione il Partito della rifondazione comunista, che – come dimostrano questi ultimi 17 anni di storia politica – è la sola base possibile per lottare contro la violenza e l’iniquità del capitalismo.

Ma i congressi ci hanno detto anche che dobbiamo imparare a stare insieme e a riconoscerci tra noi. Che dobbiamo ritrovare la strada della collaborazione unitaria.

È un monito severo rivolto ai gruppi dirigenti.
Il corpo militante del partito ci dice con forza di concludere finalmente questa nostra discussione, importante e necessaria, e di tornare presto alle nostre battaglie senza ripetere l’errore di lasciare inerte anche solo una parte delle nostre risorse.

Fuori di qui c’è un Paese ferito, nel quale da troppo tempo non facciamo sentire la nostra voce. E c’è il mondo «grande e terribile», fatto di guerre, di sfruttamento del lavoro, di violenza sui più deboli.

Dobbiamo ritrovare in noi stessi la forza per tornare lì, per riprendere la nostra lotta, come abbiamo saputo fare il 20 ottobre a Roma, a fianco di chi lotta contro l’ingiustizia sociale e per l’autonomia del lavoro, a fianco dei popoli che combattono per la propria libertà e dignità, come in Palestina e a Cuba, nel Kurdistan, in Venezuela e in Bolivia.

Compagne e compagni,
la strada dell’unità del partito non è facile ma è la sola che può salvarci. E non è un caso che quanti, variamente collocati, non hanno a cuore la sopravvivenza di Rifondazione comunista perché hanno altri progetti – legittimi, ma che prevedono altri scenari – escludano a priori e avversino una soluzione unitaria del congresso.

Le mozioni presentano linee politiche diverse, ma non inconciliabili. Va cercata una
direttrice condivisa che assuma le indicazioni emerse dal congresso e ponga fine a
una storia sciagurata di gestione maggioritaria del partito.

Compagne e compagni, la strada dell’unità del partito non è facile, ma è la sola che può salvarci. Facciamo buon uso di questo congresso e dimostriamo al partito e alla nostra gente di meritarci l’onore e la responsabilità di essere qui a scegliere, tutti insieme, la strada lungo la quale incamminarci!