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“Non sono le leggi che producono i cambiamenti, sono i cambiamenti che producono

Publie le lunedì 22 febbraio 2010 par Open-Publishing
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La legge Biagi ( come il ddl “collegato lavoro”, attualmente in discussione al Senato ), non fa che prendere atto della junglizzazione del mercato del lavoro, implementando regole e legalizzando ciò che di fatto sussiste celato in altre forme o attuato in modalità illegittime. Per il mercato, imporre leggi restrittive attraverso lo Stato, è un sostanziale fallimento, perché mostra quanto non sia in grado di farlo da solo, attraverso una sua presunta autoregolamentazione ed autosufficienza.
Le leggi ( precarizzanti ) inerenti il mercato del lavoro, prevedono lo “snellimento” del medesimo, anche attraverso l’annientamento della contrattazione, che comunque obbligherà i lavoratori a trovare forme alternative di lotta, sicuramente più efficaci, che si legheranno inevitabilmente ai territori ( intesi come luoghi socialmente caratterizzati ), piuttosto che nelle aziende/settori di lavoro, destinati, nel nostro continente, a continue delocalizzazioni, destrutturazioni, trasformazioni e trasferimenti. I giovani, non vengono più “fidelizzati”; gli anziani, vengono espulsi dal mercato del lavoro; alla precarietà lavorativa, si aggiunge la precarietà sociale che, a sua volta, provoca divario tra coloro i quali vogliono difendere ciò che hanno raggiunto e quelli che nulla possiedono ( l’immigrazione ne è solo un esempio ). Il pericolo sovversivo che scaturisce dall’instabilità sociale ( che esiste ), genera ( di conseguenza ), nuove norme atte al controllo ed alla repressione ( quando non diviene preventiva con cariche di polizia ingiustificate ) dei cittadini.
Riepilogando: al mercato del lavoro occorre una normativa, che giustifichi il suo estrinsecarsi sociale. Ma non basta: alla sovrastruttura, è necessaria una struttura che reifichi, almeno formalmente, quelle che sono le disposizioni legislative, spesse volte concertate trasversalmente. La compravendita della merce forza-lavoro e la gestione dei rapporti di lavoro, è demandata ad apparati e figure professionali, che divengono riferimenti “necessari” per i cittadini: centri per l’impiego, agenzie di somministrazione lavoro, consulenti, avvocati giuslavoristi, fondazioni universitarie e professionali, agenzie di collocamento private…
Oggi, i servizi per l’impiego, gestiti dalle province, vengono individuati dai cittadini, come luoghi di offerta lavorativa, ma essi non sanno quanto siano lontani dalla realtà. Basta rileggersi un passo del Libro Bianco sul lavoro del 2001:” E’ urgente una massima semplificazione delle procedure di collocamento attraverso la competizione tra strutture pubbliche e private. Alla funzione pubblica vanno affidate residue attività ( anagrafe, scheda professionale, controllo dello stato di disoccupazione involontaria e della sua durata, azioni di sistema ); mentre vanno affidate al libero mercato le attività di servizio…..”. In quella data viene formalizzata la futura struttura dei servizi per l’impiego, che già prevedeva lo smantellamento di una parte della P.A., situata in un contesto dove il mercato del lavoro, sarebbe stato normato dalla legge Biagi.
Gli assessorati al lavoro provinciali e regionali, per anni, hanno finto di non comprendere ciò, reiterando banali formule rituali ( “ i Centri per l’Impiego sono sempre più strutture snelle che sviluppano servizi personalizzati e specialistici” ) e producendo ridondanti statistiche sul loro operato, per altro poco verificabili. Spesso, con occhio attento alle tornate elettorali. Come oggi, con le elezioni vicine… molto vicine.
Le elezioni, ci dicono, sono simbolo di democrazia. Spesso, per taluni, le elezioni hanno rappresentato la possibilità di colloquiare con un “governo/giunta amici”. La P. A., rappresenta (è) la società in cui essa opera, dal suo più alto “boiardo”, al più modesto dei dipendenti. La P. A. sa premiare alcuni suoi “fidi” figli: li coccola e li protegge, li nutre e li appaga. La P. A. non rinnega chi alleva con tanto amore a propria somiglianza: denoterebbe fallimento, equivarrebbe ad una sconfitta. Ma la P. A. è antropofaga e pur non rinnegando, quando all’orizzonte si profila nuova e conveniente merce di scambio, adempie con naturalezza a quelli che sono i fondamenti economici: acquisire ciò che produrrà maggior profitto. Arroganza, alterigia, presunzione, tracotanza, strafottenza, parzialità, faziosità, nepotismo: sintomi di inettitudine, incapacità, incompetenza. Già, perché “conoscere”, non significa saper governare, possedere ascendente o avere autorevolezza. Chi governa, ama spesso essere adulato e rassicurato, a che il suo amministrare ottenga ecumenica consonanza, e trova facile sponda da chi potrebbe perdere le sue benevolenze.
Sono decine di anni che ascoltiamo presunti esperti dissertare riguardo i Servizi per l’impiego. I governi avvicendatisi negli ultimi anni, hanno costantemente ribadito la necessità di ovviare ad un mercato del lavoro troppo rigido: renderlo più flessibile, avrebbe favorito l’occupazione, e le imprese avrebbero stabilizzato i lavoratori una volta rilanciata l’economia. I risultati non sono tardati a farsi vedere Quante volte è mutata la P.A. nel suo estrinsecarsi esteriore, pur mantenendo inalterati i suoi geni. Tutto cambiato, ma nulla mutato, nonostante i colori sempre più sbiaditi dei suoi amministratori.
In compenso la P.A. sopravvive, non solo grazie agli opportunisti rapporti di lavoro privatistici implementati, ma soprattutto alla massa dei residuali lavoratori a tempo indeterminato, che sono costretti ad operare in ambienti fatiscenti, privi di mezzi strumentali ed alla mercé di direttive inconcludenti e falsamente innovative.
Chi avesse l’insano desiderio di accostarsi alla bibliografia concernente il mercato del lavoro e ciò che ad esso afferisce, impiegherebbe dei mesi per catalogare studi, ricerche, saggi, articoli, trattati, analisi, indagini, progetti, approfondimenti, documenti, raccomandazioni, monitoraggi, statistiche, programmi, pianificazioni e…tanti proponimenti. Su di esso hanno scritto, e lucrato, esperti, specialisti, consulenti, economisti, sociologi, psicologi, politici, chi con competenza e chi meno. Per lui, si sono attivati governi, istituzioni, enti, associazioni e l’Europa tutta, prodigandosi, affinché da tanta grazia, ne traesse beneficio almeno una sparuta pattuglia dei soggetti interessati: i disoccupati, a cui sono rimaste tonnellate di carta ed illusorie politiche del lavoro. Gli altri, le aziende, le imprese, il capitale, che avrebbero comunque ignorato tali attenzioni, ancora una volta sono stati ascoltati nelle richieste di flessibilità, precarietà e compressione salariale, fagocitando fondi pubblici ( ma non chiamateli aiuti di stato: piuttosto, sostegni all’occupazione! ). Ma allora se, aldilà dell’attuale crisi, la disoccupazione dagli anni ’80 è andata aumentando, nonostante riduzioni salariali, accordi sindacali al ribasso e la flessibilità del lavoro, perché riproporre stantie e rancide ricette?
In molti documenti ( vedi POR e Masterplan Regione Lazio ), ancora si argomenta sull’ ”innovazione dei centri per l’impiego” ( a tredici anni dalla loro nascita ! ), della SEO ( “strategia europea per occupazione”, datata 1997! ) e si dichiara di aver “recepito gli orientamenti di valore e le politiche per l’occupazione stabiliti a livello comunitario”, avviandosi, “... lungo un percorso di riforma dei servizi per l’impiego attivi sul suo territorio”. Non solo, si reiterano e si propongono azioni già implementate da tempo in altre regioni ( che richiedono ulteriori anni per la loro applicazione ), utilizzando linguaggi, che al profano possono apparire innovativi, ma facenti parte di un glossario obsoleto, dettato dalla defunta strategia di Lisbona ( 2000! ): “potenziare i servizi di incontro domanda offerta di lavoro”, “promuovere l’inserimento e il reinserimento di inoccupati o disoccupati ”, “rafforzare l’accesso all’occupazione”, “la partecipazione sostenibile al mercato del lavoro da parte delle donne”, “promuovere… la creazione di impresa, rafforzare opportunità e servizi a sostegno della creazione di impresa e promuovere la cultura imprenditoriale” e bla… bla… bla. Chiediamo: è mai possibile, che non ci si accorga, dopo tante “raccomandazioni”, “linee guida”, “indirizzi”, che una politica occupazionale non esiste? O facciamo male a pensare, che nonostante i fallimenti, a qualcuno convenga insistere e spartirsi la torta. Ma veramente vogliamo far finta, che le politiche del lavoro non siano legate a più ampie politiche macroeconomiche? La realtà dei Servizi per l’impiego è ben diversa da quella che traspare da dispendiosi, autoreferenziali convegni ( i FSE tornano comunque utili ) e clandestini reportage televisivi. Nonostante si affermi il contrario, essi, non possono essere in grado di far muovere un mercato del lavoro gestito da altre istituzioni ( Stato, Comunità europea, capitale e finanza internazionale ), le quali stabiliscono parametri di politica socio-economica, che spesso, confliggono con ipotesi di “programmazione” territoriale. Tali conflitti, prodotti anche dalle contraddizioni del mercato, più volte si tenta di risolverli localmente garantendo alle imprese lauti benefit, qualora manifestino“ ravvedimenti ” ( ad es. l’emersione dal lavoro nero ) o garanzie di assunzioni ( con sgravi di varia natura o contributi economici ).
Rimane una certezza: la precarietà permanente, nonostante l’attivazione di inutili patti di servizio, bizzarri piani individuali ( ambedue utili a gonfiare inattendibili statistiche ), liberiste politiche di workfare, ( già da anni, inutilmente, avviate in altri paesi ) e via blaterando. La realtà è diversa: stato ed enti locali, divengono strumento del libero mercato ed insieme a loro, tutta la pletora di un “variopinto” sottobosco di polimorfi personaggi ( reali fruitori del workfare ). Le politiche del lavoro e le ripercussioni sulla disoccupazione, dipendono da ben altro, che non dal coinvolgimento gerarchico delle istituzioni pubbliche. Attualmente, siamo partecipi di una grave crisi economica che investe ampi settori della società e che consolida ulteriormente una sorta di “darwinismo sociale”: distruzione del welfare; mercificazione/privatizzazione di servizi e beni pubblici ( contro cui molti, quando erano al di fuori delle istituzioni, urlavano ); precarizzazione e marginalizzazione sociale; immiserimento delle condizioni esistenziali; posti di lavoro falcidiati e stipendi non pagati; ulteriori ore di cassa integrazione ( che è finalizzata all’aiuto delle imprese ) e mobilità; sostegno alle aziende tramite tirocini pagati con FSE, le quali troveranno utile non rinnovare regolari e meglio retribuiti contratti a tempo determinato.
Nella Provincia di Roma, le cose non cambiano, anzi. Tramite i FSE, entità eteree, di cui ben poco il cittadino-utente-“cliente” conosce le consistenze, si implementa l’implementabile: nella “formazione”, per la cassa integrazione e mobilità in deroga, per inutili corsi di formazione, per “sostegni occupazionali” ed incentivi di vario genere, per ristrutturazioni ambientali, per decine di “progetti”, di cui ci piacerebbe conoscere l’esito. Milioni di euro tracimano verso Capitale lavoro spa ( soc. in house ) non legata da nessun “lacciuolo” per l’assunzione di personale. E tutti sappiamo cosa significhi. Di tale società ben poco si conosce, e precisamente: ha alle dipendenze del personale a part-time, ma ne assume altro a tempo determinato, con orario superiore rispetto ai lavoratori stabili, alcuni vengono utilizzati “ a progetto” ( ed i “progetti” non mancano mai, anche dovesse trattarsi di stilare dei copia-incolla ), altri come “consulenti”. Sicuramente, sostituiscono la carenza di personale in alcuni Centri per l’impiego. Spesso, a qualcuno, viene offerta l’opportunità di travalicare il proprio ruolo: figli privilegiati, rispetto a figliastri, che sgobbano insieme agli operatori dei Servizi. La privatizzazione dei Centri per l’impiego della Provincia di Roma è realtà. Alla formazione del personale, si è preferito privilegiare il consolidamento della spa, con tutte le conseguenze nefaste, più volte ribadite e con qualche complicità di troppo, che ha favorito ulteriore terreno di conquista e clientelismo. Si è preferito non valorizzare le professionalità presenti, a favore di “nuove leve”, prima ricattabili perché precarie, poi perché “educate” ad una diversa “progettualità” del lavoro che andavano a svolgere: privatistica ed “insensibile” alle richieste rivolte ad un servizio pubblico.
Oggi il risultato è evidente: nelle assegnazioni di incarichi non vengono valutate professionalità e capacità in relazione agli uffici da gestire: lo smantellamento della P.A., passa anche attraverso le scelte di chi non garantisce dignità e professionalità.
I conti tornano: creazione di un apparato dissipativo e parassitario, mortificazione delle professionalità interne, dissoluzione della P.A. attraverso l’utilizzo di società che impiegano personale mal retribuito, reiterazione di attività “consulenziali”, sperpero di denaro pubblico, scarsa trasparenza nella gestione amministrativa, erogazione di servizi pubblici soggetta al mercato. Produzione di plus-valore.
“Tali considerazioni sono utili per capire la proletarizzazione dei “colletti bianchi” anche in altri settori. Soprattutto in quei settori che vengono aperti, con le privatizzazioni e le varie controriforme dell’istruzione e della sanità, alle possibilità di investimento del capitale. In tal modo, i lavoratori salariati di questi settori divengono produttivi di merce (per quanto immateriale) e di plusvalore. Invece, i lavoratori dei servizi “pubblici”, pur non essendo direttamente sottoposti all’accumulazione capitalistica, visto che non producono né vendono merci, lo sono in forma indiretta, in quanto permettono la riproduzione a costi più bassi della forza lavoro impiegata dalle imprese. Quanto più il loro salario viene compresso tanto più si riducono i costi di riproduzione (istruzione e servizi sociali in genere) o di “riparazione” (sanità) della forza lavoro per il capitale complessivo. Inoltre, quanto più il salario dei lavoratori “pubblici” è compresso e il loro rapporto di lavoro diventa privatistico (e precario), tanto più cessa di essere punto di riferimento per i salari dei lavoratori del settore privato”.( Domenico Moro )
Luciano Di Gregorio
RdB - P.I.

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