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"Pensiero unico", il bilancio di Ignacio Ramonet

Publie le sabato 3 settembre 2005 par Open-Publishing

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Neo-con alla riscossa, moderati al palo del mercato, movimenti sociali potenti ma ancora inefficaci. Il direttore di "Le Monde Diplomatique" fa il punto sulla globalizzazione

di Claudio Jampaglia

Circa dieci anni fa Le Monde Diplomatique, storico mensile francese di politica internazionale, ha inventato il termine "pensiero unico" per spiegare cosa significasse mai la globalizzazione. Approfittando della sua presenza al Festival Carovane di Piacenza, abbiamo intervistato Ignacio Ramonet, direttore dell’autorevole testata, chiedendogli in primo luogo se quella definizione può essere considerata ancora valida.

«Nonostante una stagione marcata da movimenti sociali vincenti sul terreno culturale, dice Ramonet - l’impedimento a pensare altrimenti corrisponde ancora a quello che chiamiamo oggi la globalizzazione e al momento in Europa non vedo al potere partiti che abbiano come riferimento culturale la critica alla globalizzazione. Esiste un dibattito nelle società europee su questi temi e alcuni partiti ne sono attraversati; basta guardare la divisione del Partito socialista francese sul referendum sul trattato costituzionale europeo o la novità in Germania di un nuovo partito a sinistra formato da ex-comunisti e da una parte della sinistra della Spd. Ma, al momento, queste tendenze non sono al potere, mentre i socialisti spagnoli, che invece lo sono, non hanno al centro della loro politica questa sensibilità. Le sinistre continuano a governare in maniera "realista" nel continuo scambio tra necessità della politica e realtà del mercato».

In Francia questa schizofrenia potrebbe portare i socialisti francesi alla scissione e alla nascita di altre aggregazioni?

Il congresso appena concluso ha dimostrato che il dibattito interno è tutto da svolgere. Il partito socialista è talmente preoccupato dal potere che pur di guadagnarlo e essere rispettato accetterà molte concessioni. Ciò che abbiamo imparato in tutte le recenti lotte, soprattutto in America latina, è che non bisogna essere impazienti di arrivare al potere. Bisogna mantenere la discussione viva e condurre le lotte dove si presentano: con i lavoratori immigrati, sulle privatizzazioni, sulla difesa del potere d’acquisto o dello statuto del lavoro, senza avere una prospettiva di potere con la quale comincia il dovere del compromesso.

In un’epoca globale la più potente eredità del secolo scorso non è il colonialismo, l’imperialismo o il totalitarismo, ma il nazionalismo. Perché?
Di tutte le energie politiche il nazionalismo è la più potente perché terribilmente semplice. Fare politica suppone un’analisi della situazione, un confronto sulla realtà, mentre il nazionalismo si presume "naturale": si fa politica perché si è nati in un luogo, con una lingua, una religione, dei miti fondatori. Uscire da questa prospettiva è un percorso politico. L’abbiamo visto in tutto il XIX secolo e voi oggi siete testimoni di un processo che sembra venire da quel passato con l’invenzione artificiale della Padania. Qui, sul Po, tra cinquant’anni, ci sarà gente che crederà che la Padania era un antico Stato medievale. I Paesi baschi sono stati inventati così nel secolo scorso.

Dove si giocherà la partita per l’egemonia del mondo?

Esistono tre elementi centrali per comprendere lo scacchiere internazionale: il primo riguarda la dimensione strategica delle riserve di idrocarburi da cui dipende il modo di vita dell’Occidente. Queste riserve sono globalmente concentrate tra Golfo, Mar Caspio e Asia Centrale. Il secondo elemento è ciò che possiamo chiamare "l’elemento perturbatore del mondo": a ogni epoca corrisponde una zona di turbolenze e conflitti maggiori. Nel XX° secolo è stata l’Europa con le due guerre mondiali, oggi è il mondo islamico con le guerre in Medio Oriente, Iraq, Afghanistan, il terrorismo... Il terzo elemento sono i nuovi attori come la Cina e l’India, usciti dalla sotto miseria e in crescita imperiosa che cominciano a stabilire accordi tra loro con la fine delle rivendicazioni di frontiera, per anni il migliore affare per Usa e Russia. Il contesto ci dice che in tutti e tre gli elementi l’Asia, da Gerusalemme a Vladivostock, è centrale e dovremo prestarle maggiore attenzione per comprendere il domani.

La storia guarda a Oriente, mentre in Italia viviamo un rigurgito di occidentalismo ...
Esiste una trasposizione europea del dibattito sullo "scontro di civiltà" innescato da Samuel Huntington. Lo abbiamo visto sulla questione del velo in Francia e sulla limitazione dei diritti e il controllo sociale dopo gli attentati di Londra. Oggi l’Occidente è qualcosa che possiamo definire solo politicamente e strategicamente. Ciò che chiamiamo Occidente è essenzialmente un’alleanza militare tra Stati europei, Stati Uniti e Giappone (con Taiwan e Corea del Sud). E’ un concetto figlio della Guerra fredda difficilmente definibile culturalmente. Anche perché il cuore dell’Occidente, la nazione centrale, politicamente ed economicamente, è figlia di un meticciato. Gli Usa sono un paese culturalmente e demograficamente multiculturale anche nella loro componente bianca. Con buona pace della "fine della nazione" americana per colpa degli ispanici prospettata da Huntington nel suo ultimo libro.

I neo-con, che piaccia o meno, rilanciano il conservatorismo, mentre dal campo social-riformista non arriva ancora una rinnovamento teorico...

Nel campo conservatore esiste un dinamismo notevole, mentre mi ha sorpreso nell’ultima campagna presidenziale americana l’assenza di dibattito sul ruolo dell’impero americano da parte dei democratici. La tesi a favore dell’impero ha rivinto e di fronte a questa l’Europa è rimasta divisa. La guerra in Iraq è ancora lo spartiacque europeo e con il terrorismo che colpisce Madrid e Londra, le società coltivano la paura e non sono pronte ad abbandonare la forza come strumento di risoluzione dei conflitti. I neo-con sono i partigiani della forza e finché non si supereranno conflitti come l’Iraq o la Palestina, la forza contaminerà tutto. Ci vorrebbero altre politiche.

E i movimenti?

Gli argomenti dei movimenti sociali avanzano ovunque e sono sempre più importanti, perché figli di competenza sul terreno. La stessa idea di una tassa internazionale sui capitali che sosteniamo dal 1998 ha fatto strada ed è evidente la sua urgenza (passerà quando la destra comincerà a invocarla per interesse e necessità di sopravvivenza e in alcuni paesi sta succedendo). Quello che chiamiamo movimento sociale nel mondo è una galassia di costellazioni, senza possibilità di costituire alcuna organizzazione matriciale. Ogni volta che si riunisce sembra enorme ma è formato da tante individualità che per paura e senso della propria storia non riescono a unirsi. Ogni volta che la sinistra si è organizzata ha avuto davanti l’esperienza leninista con i suoi limiti di democrazia e libertà. Allo stesso tempo questo movimento non si pone la questione del potere. Penso che il movimento è talmente internazionale ed ha accumulato così tanta esperienza che potrebbe fare di più. Siamo in grado di organizzare manifestazioni ed eventi mondiali come contro la guerra in Iraq, ma bisognerebbe affrontare anche altri temi, senza dimenticare le lotte locali da cui nasce la competenza e la forza del movimento. Mi sembra manchi una nozione di contropotere e di come costruirlo. La forza è grande, ma il cammino è ancora lungo.

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