Home > Fausto Bertinotti : "Il berlusconismo è finito"

Fausto Bertinotti : "Il berlusconismo è finito"

Publie le sabato 7 gennaio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Partito della Rifondazione Comunista Parigi Fausto Bertinotti Rina Gagliardi

"La sfida si giocherà tra noi e Montezemolo". Ma se dovessimo definire in modo molto sintetico, quasi con uno slogan, la nostra prospettiva in questo ormai imminentissimo 2006?

di Rina Gagliardi

«E’ la nostra sfida a Montezemolo» spiega il segretario di Rifondazione comunista. Non c’è nessuna iattanza o megalomania, in questa affermazione: c’è, piuttosto, la consapevolezza della partita che si apre, anzi che è già ampiamente aperta nel terremoto italiano seguito alla fine del berlusconismo.

«Quello delineato dal presidente di Confindustria è il progetto più pericoloso: perché, attraverso la proposta di una nuova Costituente, concerne direttamente l’assetto del sistema politico e pone al suo centro il primato assoluto dell’impresa, della logica di merce, degradando il conflitto sociale a mera pulsione conservatrice».

Una filosofia molto apparentata alla Grosse Koalition di stampo tedesco. Una filosofia - mi viene da osservare - non poi così distante da quella che domina il gigantismo della Cina di Jintao, su cui Bertinotti si sofferma a lungo e propone alcuneriflessioni. In questa intervista, che vale un po’ come consuntivo di fine d’anno, il ragionamento spazia da Pechino a casa nostra, l’Italia anzi l’Europa, con una attenzione costante: la necessità strategica, ma anche, perfino, il “realismo” di un’opzione di alternativa, non limitata al cambio di governo e classe dirigente.

 Cominciamo proprio dal tuo viaggio in Cina. Che cosa ti ha più colpito, non solo dal punto di vista politico,ma da quello psicologico e culturale? Quali sono i veri punti di distanza tra noi e loro?

Se ci cimentassimo a scrivere adesso - riscrivere - un pamphlet politico intitolato “Delle divergenze tra i compagni cinesi e noi”, dovremmo dire, prima di tutto, che «la Cina è vicina». Nel senso che, davvero, ad occidente come ad oriente, siamo immersi nella globalizzazione economica ben più di quanto non crediamo.
E il punto centrale del dissenso concerne, infatti, proprio la natura della globalizzazione: per i cinesi, essa è un processo sostanzialmente neutrale, quasi come un fenomeno della natura. Come tale, immodificabile nelle sue leggi di base: al massimo, si può provare a correggerne alcune conseguenze, quelle che a lungo andare rischiano di accentuare l’instabilità e la governabilità sociale oltre ogni possibilità di controllo. Ma al di là non si può andare, un po’ come nella cultura socialdemocratica.

 Tu dici "globalizzazione", ed è chiaro che cosa vuol dire. Ma, nell’ottica di Pechino, c’è o no una differenza tra globalizzazione e capitalismo?

Ti rispondo così: proprio come il socialismo o è mondiale o non è, tutti i sistemi economici inseriti nella globalizzazione hanno una natura capitalistica. Nella visione cinese, questa è comunque l’unica alternativa praticabile alla povertà: il primato del mercato (e della logica d’impresa, dico io), che unisce est e ovest in una relazione stringente, costituisce per loro la leva portante per entrare nella modernità, nel progresso, nello sviluppo. Il mercato, insomma, viene considerato l’unico elemento dinamico, che ha consentito alla Cina un ritmo di crescita di quasi il 10 per cento all’anno e la fuoruscita dalla povertà per centinaia di milioni di persone.
Perciò parlano di se stessi come di “un Paese in via di sviluppo” - definizione solo in parte soddisfacente, dati i punti di eccellenza tecnologica raggiunti in molti comparti dall’innovazione cinese. Non si può, naturalmente, negare lo sviluppo che c’è stato e continua ad esserci in Cina, uno sviluppo che corrisponde a vera creazione di ricchezza. E nemmeno ci si può permettere, dall’alto della “pancia piena” di un occidentale, di impartire lezioni a chicchessia e a loro. Però, invece, non possiamo sottacere che, accanto e come conseguenza di questo sviluppo, c’è una grande diseguaglianza sociale e di classe. In Cina, temo, le distanze tra ricchi e poveri, tra zone sviluppate e ipersviluppate e campagne in crisi (ma non solo) sono enormi. Come tutto, in questo paese, è di dimensioni gigantesche.

 Questi problemi sono o no all’attenzione dei governanti?

Sì, sono consapevoli, mi pare, delle drammatiche storture sociali che lo sviluppo ha creato in più di vent’anni.
Solo che la natura del processo è tale da non accettare vere correzioni, come dicevamo.
Per la prima volta nella storia moderna, accade che nel punto più avanzato, nel luogo che possiamo definire come la “locomotiva” dello viluppo, il massimo dell’innovazione si coniuga con il minimo dei salari: insomma, si è spezzata del tutto una relazione “progressiva” tra boom economico e benessere sociale che pure il capitalismo, in altre epoche, ha comunque garantito - anche grazie, certo, alla lotta di classe e alla crescita dell’organizzazione sindacale.

 Perché questa involuzione?

E’ l’effetto obbligato della competizione economica mondiale, è cioè uno dei dati organici della globalizzazione: nello scontro che oppone tra di loro le borghesie di tutto il mondo, i salari divengono una pura variabile dipendente, e vengono inseguiti al loro livello, appunto, più basso, più “compatibile” con gli interessi immediati delle imprese.

 E il “mercato socialista”? Che senso ha in questo contesto?

Un ossimoro. Una contradictio in terminis che dice dell’intenzione del gruppo dirigente cinese di intervenire con correttivi sociali e politiche di tipo equitativo e in parte redistributivo.
Se non avessero messo in atto questo livello di Welfare, il paese sarebbe sprofondato in una crisi senza ritorno. Solo che, anche qui, gli effetti concreti sono relativi, rispetto alle dimensioni d’insieme: è un po’ come tentar di svuotare il mare con un cucchiaino.
Il fatto è che, in un contesto che assolutizza il primato della produzione e, alla fin fine, della merce, la tragedia vera è quella del lavoro: che scompare, letteralmente, nel suo ruolo protagonistico. In Cina, paese cardine della globalizzazione, il lavoro e il conflitto sociale sono privi di valore, non hanno spazio, sono tendenzialmente espulsi dal processo: nel senso che il cuore del processo stesso è il primato assoluto della merce e l’interesse dell’impresa. Non è neppure come ai tempi dello stakhanovismo, quando si trattava di versare lacrime e sangue per aumentare il più possibile produzione e produttività.
Non è neppure la logica di Mao del “grande balzo in avanti”. E’ la legge pervasiva e anzi totalizzante della strada imboccata.

 Da questo quadro, non mi pare che la democrazia cinese ne esca tanto bene. Non solo e non tanto la democrazia delle istituzioni liberali, di cui si può dare per “scontata” l’assenza, ma la democrazia che forse dovrebbe caratterizzare un paese che ancora dichiara il socialismo come proprio obiettivo - quella operaia, sindacale, partecipativa.O No?

Certo, anche per me questo è forse il punto più dolente. Non dico, naturalmente, che la democrazia borghese sia irrilevante, penso in proposito l’esatto contrario, dico che il metro giusto con cui guardare agli sconvolgenti processi in corso in Cina non può essere il suo grado di “democratizzazione liberale”. E’ la negazione radicale del conflitto, invece, e la repressione durissima e sistematica che lo accompagna, quando e se si manifesta, che mi fa sentire distantissimo da questa Cina, pur così “vicina” - pur, dentro tante e gigantesche differenze, così simile a noi. Se non puoi agire il conflitto, non riesci neppure ad avviare un percorso di liberazione, di autentica “messa in valore” delle persone, della loro autonomia e libertà. Senza di questo, la globalizzazione e la disuguaglianza non solo impongono la loro logica, come macchine inesorabili, ma diventano cultura, nel senso più profondo del termine. E nessuna civiltà è al riparo da questo pericolo, da un esito di mera omologazione - nemmeno la Cina, purtroppo. Nella quale è pur vero che è cresciuto - chiamiamolo così - un “ceto medio” anche molto ampio, che garantisce al sistema un certo consenso diffuso. Ed è vero che Shanghai è una vetrina dello sviluppo perfino fantastica. Ma è vero altrettanto che, se continuerà su questa strada, la Cina si troverà di fronte a contraddizioni sociali gigantesche, a tragedie di massa, sempre più drammatiche. Sempre “più vicina” al modello occidentale....

 Vogliamo trarre una prima pur parzialissima conclusione?

De te fabula narratur: ecco il pensiero fisso che ha accompagnato questo viaggio. A parte ogni altra considerazione, noi, Europa, non possiamo neppur vagamente sperare di farcela, a battere la Cina (e l’India): sul terreno della concorrenza e della competività la partita è perduta, non ne possiamo che uscire schiacciati. Anche per questo, è essenziale la prospettiva di un’alternativa economica e sociale - che del resto è fondativi dell’identità del Partito della sinistra europea - capace di sottrarsi al paradigma della globalizzazione. E la leva vera di questa alternativa - le sue gambe - è la democrazia partecipata, il dispiegarsi del conflitto maturo, la costruzione di spazi progressivi di libertà collettiva sottratti alla logica del mercato e dell’impresa.

 Un’alternativa che va intesa, luxemburghianamente, come una “necessità storica”?
Oppure una proposta anche in qualche modo eealistica?

Ma è la globalizzazione a non essere, più di tanto, “realistica”. A lungo termine, le contraddizioni esplodono dovunque, ad est come ad ovest, e le esperienze conflittuali sono destinate a moltiplicarsi - non solo quelle politicamente organizzate e organiche, come la Val di Susa o la lotta dei metalmeccanici, ma le rivolte “pure”, senza sbocchi e senza neppure obiettivi politici - come quella delle periferie di Parigi. In Cina, in un contesto dominato dall’ordine, ci sono state in questi ultimi anni più di settantamila rivolte contadine. Nel mondo, in forme diverse, c’è un’opposizione massiccia alla globalizzazione e alla sua natura socialmente regressiva: qui si colloca l’idea di un’altra Europa. Non un nobile ideale, o un’istanza utopistica, ma una proposta politica concreta. Del resto, quando parliamo di alternativa qui da noi, come possiamo pensarla se non un quadro europeo? Un quadro nel quale stanno prospettandosi battaglie di grande portata, come quella contro la direttiva Bolkenstein, o la miriade di esperienze “extramercantili”, i beni comuni, l’acqua, e così via. Un quadro che, domani, potrebbe riaprirsi anche a livello degli Stati: se in Germania va in crisi il governo Merkel, come molti segnali fanno pensare; se in Francia si riapre un processo a sinistra, sia pure tra molte ambiguità; se in Spagna l’era Zapatero prosegue e magari fa un salto di qualità, se in Italia, come speriamo, l’Unione batte il centrodestra, con una presenza significativa nostra e della sinistra radicale.... beh, allora, comincia una fase interessante.

 A proposito dell’Italia, non possiamo sfuggire da un bilancio del 2005.Un bilancio politico, intendo.

L’anno che finisce (a proposito, i miei auguri affettuosi a tutti i compagni e ai lettori di Liberazione) è stato in realtà l’anno della fine del berlusconismo. Il centrodestra ha subito un crollo, un echec, come dicono i francesi, non solo come politiche di governo, ma come blocco di consenso. Da molti punti di vista, noi stiamo già vivendo da un pezzo la transizione ad un’altra fase - siamo già ampiamente nell’era del postberlusconismo. Da qui, il terremoto, il movimento caotico a cui abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo: tutte le forze, e segnatamente quelle borghesi, sono investite dalla transizione, e si vanno riposizionando. Perché adesso, con Montezemolo, fanno finta di non aver mai avuto nulla a che fare con Berlusconi, ma non è certo stato così, fino a pochissimo tempo fa....

 Quali sono le questioni su cui il tonfo del berlusconismo si è rivelato “irresistibile”?

Intanto, la politica internazionale. Il centrodestra ha fatto una politica filoatlantica “perinde ac cadaver”, di fedeltà e sottomissione totale a Washington - insomma, ha scommesso tutto su Bush. E’ pur vero che Bush è ancora al potere, ma la crisi di consenso e di certezze di cui soffre questa amministrazione sono oggi molto evidenti: anche sulla guerra all’Iraq stanno cercando una via d’uscita. E, se non l’unipolarismo, l’unilateralismo non è più una carta vincente. Insomma: se non vuole rimanere isolata, l’Italia di domani non potrà più seguire una politica di alleanza con gli Usa senza se e senza ma. Secondo: la politica economica. Mai un fallimento fu così clamoroso: il nostro paese ha perso tutte le competizioni, pur avendo tutto puntato sul minimo costo del lavoro e la massima flessibilità. E dicevamo prima, siamo esposti più di chiunque alla concorrenza di Cina e India. Infine, si possono citare le “riforme istituzionali”: altro che classico topolino partorito dalla montagna! Non si sa neppure se è meglio indignarsi, o non prenderle sul serio.... Insomma, sono queste le basi sulle quali mi sembra difficile che l’Unione perda l’occasione elettorale del prossimo aprile.

 Ma sono anche le basi di quella complessa operazione - chiamiamola neocentrismo, “terzismo”, futuro Partito democratico - che punta a condizionare da destra la politica dell’Unione,e a caratterizzarla in senso moderato. E i leader non sono solo Rutelli,Veltroni o altri politici, ma esponenti diretti del mondo imprenditoriale, come Carlo de Benedetti e Montezemolo...

Sì, in questo riposizionamento d’insieme, il presidente di Confindustria si è spinto molto sulla strada del progetto di un nuovo partito della borghesia: ha lanciato la Costituente, un’idea politicamente molto ambiziosa, e punta a ridisegnare l’intero assetto politico. E a rendere il sistema tutto funzionale al primato del mercato, all’assolutizzazione della merce, dove il conflitto sociale è derubricato a forza obsoleta o conservatrice. Da questo punto di vista, possiamo dirla così: nella prossima fase, la sfida si giocherà tra noi e Montezemolo. Non noi, povero piccolo partito. Noi sinistra, noi sinistra di alternativa, noi che non abbiamo messo nel cassetto l’idea di un futuro socialista. E se vogliamo avere un ruolo non testimoniale, non possiamo che lanciare la sfida al partito neoborghese, comunque si chiamerà e comunque sarà composto, in costruzione.

 Non ti sembri una domanda naive:ma perché è così pericoloso questo progetto? In fondo, tutti i suoi leader sono sinceri democratici, senza ironia alcuna.

La pericolosità non nasce dalla vocazione non democratica dei diversi soggetti che lavorano per questo obiettivo, o sono pronti a convergere su di esso, ma dai suoi contenuti: per un verso, un assetto politico che esclude organicamente la sinistra, qualsiasi istanza della sinistra, forse dalla rappresentanza e certo dal governo, per un altro verso, la centralità delle merci e la svalorizzazione del lavoro, nel nome della competività e dell’“unità dei moderni”. Il pericolo che io vedo, insomma, è che il partito neoborghese che si accinge a governare l’Italia non solo si limiti a razionalizzare, “ripulendola”, l’era del centrodestra, ma si spinga su una strada di sostanziale “totalizzazione” della politica. Rivedo ancora il sogno della “Grande coalizione” tedesca: tutto per l’impresa e contro il ruolo sociale dello Stato. Perché Montezemolo e gli altri capitani coraggiosi dell’impresa non dicono mai che uno dei fattori del declino italiano, e forse non uno dei più irrilevanti, è stato l’abbandono dell’intervento dello stato nell’economia? E’ anche la fine della grande impresa pubblica, oltre che i disastri della grande impresa privata? Perché, certo, se lo dicessero, smentirebbero se stessi, le scelte che hanno appoggiato ieri e appoggeranno domani, l’ideologia che hanno predicato e vanno predicando. Perché diventerebbero palesi le loro responsabilità, e l’inefficacia del neoliberismo.

 Infine: dalle tue parole vedo una certa inquietante somiglianza tra la politica del governo cinese e i propositi di Montezemolo. Sbaglio?

Forse non sbagli. E comunque ancora auguri a tutte e a tutti.

Liberazione, 31 dicembre 2005