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25 Aprile, oggi come allora
par Bianca Bracci Torsi
Publie le giovedì 25 aprile 2013 par Bianca Bracci Torsi - Open-Publishing
Oggi ricorre il 68° anniversario della cacciata dal nostro paese del regime fascista e dell’occupazione nazista e in tutta Italia vecchi partigiani, reduci degli anni 60 e giovani e giovanissimi “nuovi partigiani”, quotidianamente impegnati nelle scuole, nei quartieri e negli stadi a respingere le provocazioni e le aggressioni neofasciste e neonaziste, si preparano a partire per Milano, dove si terrà la manifestazione nazionale, o allestiscono striscioni e bandiere per le iniziative organizzate nelle loro città o nei loro paesi. Saremo in tanti domani, ma non ci saranno feste, perché questo è un 25 aprile di rabbia, di rimpianto, di preoccupazione per un oggi sempre più difficile e per un domani che appare oscuro e privo di promesse e sembra ogni giorno più vicino ai vari allarmi lanciati da un anno a questa parte: “la democrazia è a rischio”, “c’è un colpo di Stato istituzionale”, “nostalgie fasciste e pulsioni autoritarie”.
Caduta la candidatura di un Presidente sicuro difensore della Costituzione (o di quel che ne resta) e antifascista senza se e senza ma, Napolitano, riconfermato al Quirinale, ribadisce la scelta di un governo di larghe intese e ha comunque chiesto “la pace fra la piazza e il Parlamento” riscuotendo il plauso e il sorriso soddisfatto di Berlusconi. Rischia di avverarsi la previsione del compagno Ferrero di sabato scorso a proposito di un «golpe bianco, un’operazione reazionaria a favore dei poteri forti, propedeutica a un nuovo governo di larghe intese contro il popolo italiano e contro la democrazia»?
Sì, saremo in tanti domani, siamo stati in tanti sabato a protestare sotto il Parlamento, ma quanti disoccupati, cassintegrati, a rischio di licenziamento, quanti giovani senza neppure un’occupazione precaria, quanti pensionati passati da una dignitosa povertà alla impossibilità di sopravvivere, colgono il nesso tra la loro disperazione e l’attacco ai valori della Resistenza e alle conquiste sancite dalla Costituzione che ci ha cambiati da sudditi in cittadini? Quanti cercheranno aiuto da un potente (vero o presunto) o si affideranno a promesse palesemente false? Quanti penseranno che la democrazia e la sua difesa sono “roba da politici” che non riguarda chi fa la fame?
Quest’anno ricorre anche un altro anniversario, il 70° di un episodio che ci parla di fame e di libertà strettamente intrecciate nella coscienza di decine di migliaia di operai e operaie da ricordare con riconoscenza. Il 5 marzo del 1943 alle 10 del mattino in 217 fabbriche, a partire da Torino, Milano e Sesto San Giovanni, 150.000 operai scioperano chiedendo un aumento di salario e la fine della guerra. Il fascismo era al potere e le sue leggi erano leggi dello Stato, applicate con una durezza che la guerra aggravava. Da più di 12 anni lo sciopero era reato penale, punito con la galera da 2 a 4 anni, c’era la guerra e ogni contestazione e critica rischiava l’accusa di tradimento e il tribunale militare. Molti di quegli operai erano donne che la guerra aveva fatto diventare lavoratrici e capi famiglia in sostituzione di padri e mariti chiamati alle armi, uomini e donne che soffrivano la loro fame e quella tormentosa dei bambini, una fame che non poteva essere soddisfatta dagli alimenti previsti dalle “tessere annonarie”, scarsi, di pessima qualità e distribuiti saltuariamente, mentre i salari operai non consentivano di ricorrere al già florido mercato nero.
La guerra non era in lontane trincee ma nelle città, bombardate ormai quotidianamente, e costringeva la gente a lunghe permanenze in rifugi sotterranei o a sfollamenti in campagne lontane dal lavoro e dalla propria casa, seppure era ancora in piedi. “Pane e pace” gridavano operai e operaie consapevoli di quanto sarebbe stata labile la vittoria della sola rivendicazione salariale, anche se conoscevano tutti i rischi di una protesta che da puramente sindacale si era allargata alla politica, rischi che molti e molte di loro, bollati come “sovversivi e traditori della patria” dalle autorità fasciste, avrebbero subito di persona. Quello che alcuni speravano e molti non sapevano era il susseguirsi di scioperi, sempre più grandi, sempre più politici, sempre più pericolosi (e sempre più rovinosi per i fascisti nelle nuove vesti salodine e per gli invasori nazisti), che avrebbero seguito quel 5 marzo 1943 fino ai grandi scioperi insurrezionali del 1945.
Non avevano armi quei primi resistenti, anche se molte delle loro fabbriche le producevano, ma la loro determinazione e il loro coraggio erano uguali a quelli dei partigiani combattenti e delle loro “retrovie”, fatte di contadini, artigiani, donne e ragazzini che portavano ordini e esplosivi, sorvegliavano le mosse dei nazisti e repubblichini, nascondevano e sfamavano partigiani in difficoltà, curavano feriti, davano false informazioni al nemico sfidando consapevolmente gli stessi rischi di deportazione, di tortura e di morte dei combattenti.
Oggi non c’è la guerra nelle nostre città e sulle nostre montagne anche se paghiamo tutti i costi di una guerra lontana, non c’è il fascismo al potere ma alla cancellazione dei diritti di cittadini e lavoratori segue l’approvazione di leggi molto simili a quelle di Mussolini, ma la crisi che morde chiunque viva, abbia vissuto o voglia vivere del proprio lavoro è provocata e gestita da un capitalismo diverso ma anche uguale a quello che negli anni ’20 del ‘900 scelse come difensore e adottò come figlio prediletto il fascismo, mai rinnegato davvero anche se riproposto con nomi e uomini diversi.
Domani impegniamoci tutti a ricordare i partigiani che cacciarono fascisti e tedeschi 68 anni fa e quelli che 70 anni fa li sfidarono, agli sfiduciati, agli stanchi, ai rassegnati ma anche a tutti quelli impegnati nelle tante lotte in difesa del proprio territorio e del proprio lavoro. Tante lotte, tutte giuste, convinte, coraggiose, con obiettivi che si ritrovano nella aspirazione comune a un lavoro sicuro, a una vita serena e libera, al diritto di decidere sul proprio destino, a discuterne e verificarne ogni passaggio, sono già una sola grande battaglia in grado di risvegliare e trascinare anche chi ha smesso di credere che il futuro di tutti dipende anche da lui. Basta che gli uomini e le donne protagonisti di quelle lotte tornino a ricordare ciò che hanno sempre saputo: che non si può vincere da soli.