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8 marzo 2004: dove si parla di guerra e di pace, di Leyla Zana e di noi

Publie le lunedì 8 marzo 2004 par Open-Publishing

E’ da nove anni che Silvana Barbieri, per conto dell’Associazione Culturale
Punto Rosso, porta avanti la campagna per la scarcerazione di Leyla Zana.
Una donna, come dice Silvana, di straordinaria qualità. Leyla è curda.
Appartiene cioè a uno di quei popolo sfortunati ai quali le ragioni
superiori degli equilibri internazionali ha negato un territorio, una
lingua, una storia. Accadde nel Novecento. Il 1918 sancisce la resa
incondizionata dell’Impero ottomano. Il trattato di Sèvres, del 10 agosto
1920, ridefinisce i nuovi confini della Turchia, crea la Repubblica di
Armenia e riconosce il diritto al popolo curdo all’indipendenza. I curdi
potranno, rivolgendosi alle Società delle Nazioni, chiedere l’indipendenza
dalla Turchia. Se la SdN accetterà la Turchia si impegna a rinunciare a
tutti i diritti sul territorio, il vilayet di Mossul, che sarà la base
territoriale del Kurdistan. Firmano le 9 grandi potenze tra cui Impero
britannico, Francia, Italia, Giappone.

Ma a Losanna il 23 luglio del 1923
gli stessi firmatari cancellano il precedente trattato e cancellano ogni
speranza di un Curdistan indipendente. Cosa era successo? In quell’area già
rilevante da un punto di vista strategico militare c’era e c’è il petrolio.
Risorsa strategica per eccellenza. La Gran Bretagna era la maggiore
azionista della Turkish Petrolium Company e i curdi “ fieri e indipendenti”
erano certamente meno affidabili per le grandi potenze occidentali di Kemal
Ataturk, abile stratega della nuova Turchia. Così un popolo che conta oggi
circa 40 milioni di persone sarà smembrato entro cinque stati (Turchia,
Siria, Iran, Irak più una comunità che vive in Armenia) creati sulla basi di
equilibri decisi dall’imperialismo internazionale.

Mi scuso per questa breve
riassunto di storia ma mi sembrava necessario ripassare gli eventi del
passato visto che questo presente mi pare replicare, diabolicamente, gli
stessi progetti, gli stessi interessi, le stesse precarietà, gli stessi
rischi. Ne parlo perché è il primo 8 marzo in cui mi sento di vivere nelle
retrovia di una guerra che non ho voluto e che non ho saputo prevenire.
Impigliata voi e io come i curdi, come la stessa Leyla Zana, in progetti che
trascendono le decisioni delle persone e addirittura dei popoli. Ma torniamo
a Leyla Zana, condannata a 15 anni di carcere nel 1994, dopo essere stata
arrestata insieme ad altri quattro parlamentari di origine curda. Aveva
detto appena eletta in pieno parlamento turco, "Io lotto per la fraterna
convivenza del popolo curdo e del popolo turco in un quadro democratico". Ma
l’aveva detto in lingua curda. Una lingua proibita. Poi naturalmente
l’accusano di terrorismo, parola magica, che alla fine significa
semplicemente, che tutti quelli che non sono d’accordo con il nuovo ordine
mondiale sono nemici senza diritti.

Esposti alla televisione come animali,
rinchiusi nelle molte Guantanamo che sognano a Washington e dintorni. Così
infondata l’accusa che nel 1996 viene insignita dal parlamento Europeo col
premio Sakarav e così improprio il processo che il 17 luglio del 2001 la
stessa Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ne sancisce l’illegittimità
e la sua immediata revisione. Ma il processo che si sta rifacendo e che è
ormai alla dodicesima udienza sembra procedere con le stesse identiche
modalità di allora. Dal che si deduce che soltanto i più forti hanno diritto
a una identità gli altri si devono rassegnare all’assimilazione o, comunque,
a sparire.

Leyla Zana è una donna che chiede il diritto di vivere libera tra la sua
gente, con pari diritti tra curdi e turchi. Ma ormai la guerra è una forma
della politica, e ce ne sono ovunque più o meno dissimulate, più o meno
note, più o meno dispiegate, ad alta o a bassa intensità. E allora vorrei
dedicare questo 8 marzo a quei milioni di donne straordinarie impegnate in
un lavoro tremendo che non conosce gloria. Perché, da che mondo è mondo, gli
uomini hanno fatto la guerra e le donne, con una tenacia inspiegabile, hanno
tenuto in piedi la vita. Hanno fatto figli sotto le bombe, hanno continuato
a spazzare le case crivellate dalle mitragliatrici, sono morte sotto i colpi
dei cecchini per comprare qualcosa da mangiare. Costrette persino a mettere
al mondo il figlio del nemico, violate sempre e ovunque, da una parte e
dall’altra di tutte le barricate. Sbandierate come bandiere da chi vuole
toglierci il velo o da chi ce lo vuole mettere. Che poi si chiami chador, o
la taglia 42 che ci vorrebbero imporre i diktat della moda poco importa. Mi
pare che non siamo mai noi a decidere se ci piacciamo grasse o magre, sempre
giovani o sempre mamme ma che troppo spesso inseguiamo i sogni ingordi, le
ossessioni, le visioni di un qualche maschio amato.

Perché noi donne, almeno
in questo occidente dove sono nata, siamo purtroppo quasi sempre complici
ossequiose del fascino dell’eroe. Qualcosa ci frega sempre noi donne: sogno
d’amore, paura o chissà. Anche oggi, dopo anni di femminismo, l’unico
riconoscimento che sembra conti davvero per molte di noi è lo sguardo,
l’approvazione, il riconoscimento di un uomo. Una sorta di maledizione
chimica e di condizionamento culturale ci condanna al legame affettivo. Noi
donne invece di strizzare dalla nostra biologia la saggezza della vita
quotidiana ci siamo fatte imbrigliare da quella sorta di erotismo che ci
lega alla vita. Oggi poi che dicono che il patriarcato è morto e le donne
sono nei parlamenti e nella università, sempre come infima minoranza
naturalmente, ci hanno convinto che il massimo dell’uguaglianza è indossare
la divisa e andare a fare la guerra. Possiamo morire travestite da
Terminator oppure con una bomba allacciata alla cintura. Adesso siamo
davvero come gli uomini.

Possiamo anche noi essere eroi. E allora mi è
venuto da riflettere su un paradosso. E se decidessimo tutte noi di
dedicarci al successo, alla guerra, al potere chi farebbe i figli, chi
spazzerebbe la casa, che lavorerebbe per tenere al mondo il mondo? Non che
mi piacerebbe essere la mamma italica tutta casa e famiglia, io non ho
neanche fatto figli nel terrore di quella servitù volontaria in cui era
rinchiusa mia madre. Ma non ho seguito la mia strada, sedotta dal mito
dell’eroe, mi sono innamorata di eroi e ho cercato di essere eroica. Non
rinnego la mia vita ma neanche ne vado fiera. Mi giustifico pensando che le
cose si capiscono facendole. E mi pare di aver capito che gli eroi sono i
nostri nemici e poco m’importa di quale etnia siano e neanche se sono donne.
Condoleeza Rice, nera cattolica e potente, è, in fondo, solo una donna
sedotta dalla monomania del potere. Ossessionata dunque dai nemici, dal
diverso, dall’altro.

Scrive dal carcere Leyla Zana in una lettera indirizzata al Presidente del
Parlamento Europeo che la invitava a Bruxelles alla assegnazione del Premio
Sakariov per il 2003, "Credo che, quando riusciremo a considerare ogni
persona che muore, senza alcuna differenza per etnia, religione, lingua,
genere, razza, come una parte di noi stessi che perdiamo e quando
trasformeremo questa percezione in un comportamento consapevole e quindi ad
organizzarlo, si potrà realizzare la pace nel mondo e coloro che difendono
la guerra saranno marginalizzati. Dobbiamo soltanto avere la volontà di
dividere le nostre sofferenze per trovare insieme una soluzione. Credo che
violenza e guerre non siano le soluzioni ai problemi che abbiamo di fronte".
E io mi permetto di aggiungere che la diversità è bella, che mi piace il
suono di lingue diverse anche se non le capisco, amo le architetture che mi
sono estranee, le filosofie che mi sorprendono e le etnie diverse dalla mia.
E mi piace viaggiare per incontrare lo straniero, per esporre a rischio di
catastrofe e di invenzione i miei modelli e il mio modo di pensare.

Mi
piacerebbe parlare di soglia invece che di confini, e detesto ogni modello
omologante perché solo nella diversità c’è vita. Per me etnia vuol dire
popolo, genti, persone, vuol dire uomini e donne fatte di carne e sangue,
nati tutti da un corpo di donna simile al mio. Donne capaci di comprendere,
per destino biologico, ma alla fine anche per raggiunta consapevolezza, la
diversità. Di metterla al mondo e di lasciarla andare. E non importa se si
tratta di figli o di opere. Come quelle bellissime donne che erano al Forum
Sociale Mondiale di Mumbay. Chi c’è stato ha raccontato che era soprattutto
un luogo di donne e di bambini. Di donne coraggiose che non temono il
conflitto ma che aborrono la guerra, determinate a far crescere figlie e
figli coraggiosi, autonomi e giusti. A difendere i loro diritti e la terra,
non solo la loro ma quella di tutti. Puntiamo su di loro e su di noi. Credo
che la loro grande forza sia propria quella di mettere in discussione
concetti che nascondono dentro di sé micce detonanti come identità,
appartenenza, etnia e persino cittadinanza. Perché presuppongono sempre un
meccanismo di inclusione e esclusione, chi è dei nostri e chi non lo è.
Incominciamo da noi, da noi donne, spogliandoci da ideologie che non abbiamo
pensato con la nostra pancia, con questa carne irriducibile che è un corpo
di donna. Ripensiamo i pensieri, i concetti e le parole. Cosicché almeno la
parola pace non sia un velo per nascondere nuove guerre.