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A che ora è la guerra in tv?

Publie le lunedì 1 marzo 2004 par Open-Publishing

Vi state sbagliando, amici. Tanto casino per nulla. La guerra non c’è, punto e basta. La vedete,
voi? No. Zappettate nervosamente col telecomando, passate qui e là tra zombi chiusi in una casa e
signorini prigionieri su un’isola, schizzate a volo radente su un telegiornale piuttosto servile e
magari approdate alle trasmissioni «di approfondimento», dove trovate un po’ di tutto, alla
rinfusa. Ma la guerra no. Certo, c’è la notizia quotidiana dell’americano che salta su una mina, della
bomba tra la folla - un flash d’agenzia, quasi sempre senza immagini - ed ecco che la guerra
diventa un fatto teorico e virtuale. Attualmente mediaticamente in ribasso, la guerra ha nei
telegiornali italiani un po’ meno spazio delle ricette di cucina e molto meno delle previsioni del tempo.

Non
è nemmeno più guerra: è buoni poliziotti anglo-italo-americani che costruiscono scuole e avviano
corsi di cucito (giuro!), ostacolati da cattivi terroristi assetati di sangue (achtung, banditen!).
Ci accontentiamo, è una spiegazione. Ed è anche la dimostrazione che il manuale della
disinformatsjia viene applicato alla lettera: un terzo di retorica, un terzo di bugie e un terzo di (finto)
dibattito interno. La guerra? Quale guerra, scusi?

Ogni tanto si incappa in stazioni straniere. Cnn (bel reportage della Amanpour), Cbs, varie ed
eventuali. Lì la guerra c’è. Si vedono gli ospedali alleati con dentro i feriti stufi che vogliono
tornare a casa, gente orrendamente ferita, gente con gli incubi. Pochi iracheni, d’accordo, degli
oltre diecimila diventati cadaveri prima di riuscire a diventare democratici. Ma si capisce comunque
che non è una faccenda asettica, lavata con l’ammorbidente.

La tivù (pubblica) tedesca Ard mostra filmati in cui soldati americani ammazzano nemici già a
terra feriti, in cui rimbomba l’ordine «hit him!», seguito da spari e festeggiamenti. Lo vedremo, in
Italia? In un telegiornale? Seguirà dibattito? Altro caso: apprendo da questo giornale che i nostri
ragazzi a Nassiryia non se la passano per niente bene e nonostante siano tanto amichevoli e
positivi vengono asserragliati minacciosamente e rischiano lo scontro. Un altro giornale parla di una
taglia di seimila dollari per ogni morto italiano. Strano, però. I nostri ragazzi, sui quali è stata
spalmata così tanta retorica e melassa, sono sotto affettuosa osservazione dei media, gli si porta
la partita in diretta.

Ma poi, quando vanno davvero alla guerra - o a qualcosa che le somiglia -
tutto tace, le immagini sono «di repertorio», la diretta non c’è, in qualche modo conviene parlarne
un pochino meno. Non è soltanto una questione di priorità della notizia, o di moralismo catodico
scandalizzato. E’ piuttosto l’assistere a uno scivolamento lento verso una normalità della guerra,
la sua quotidianità. Un po’ come se anche la guerra - persino la guerra - debba essere a suo modo
rassicurante, presentata in modo soft, «pettinata», come si dice delle trasmissioni con gli
ospiti-patacca che «abbelliscono la realtà».

La manifestazione contro la guerra dovrebbe dare uno scossone, si spera almeno. Ricordare a tutti
che la situazione non è proprio normale, ribadire la semplice domanda «che ci stiamo a fare, noi,
lì?», dire agli indifferenti la gravità del momento e chiedere di riportare a casa i ragazzi così
astrusamente mandati (anche a morire) in prima linea.

Tutto giusto e sacrosanto, se ci fosse una guerra. A leggere Ferrara, ad esempio, pare che sia in
corso in Iraq uno straordinario New Deal capitanato dai marines: sono loro i veri pacifisti che
aggiustano gli oleodotti per il bene del popolo. Manca solo lo zucchero a velo. Perché la guerra non
c’è, sia chiaro. Ma se proprio qualcuno dovesse ricordarcela, conviene averne nel cassetto una
versione soft, niente di preoccupante, la guerra-light, possibilmente senza briciole, possibilmente
senza farlo sapere troppo in giro e naturalmente a fin di bene. Una guerra a bassa (mica troppo)
intensità a cui partecipiamo con l’audio abbassato e il video fuori fuoco.