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Affinché Porto Alegre non segni la partenza di un viaggio nel nulla

Publie le sabato 4 dicembre 2004 par Open-Publishing
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Dazibao Internazionale


Per un mondo migliore

di Paolo Barnard

PER I LETTORI
George W. Bush ha vinto. Questo è un fatto. Ha vinto nonostante un fuoco
di sbarramento forse senza precedenti nella storia del movimento progressista
moderno, e cioè nonostante sia stato bersagliato da ogni sorta di critica,
scandalo, fallimento, da proteste, film, documentari, scoop giornalistici,
nonostante milioni di attivisti nel mondo abbiano dato il meglio di sé per
rendere pubblica l’iniquità delle politiche neoconservatrici. Nonostante
tutto questo, e di più, egli ha vinto. Esattamente 30 anni fa, un altro presidente
americano fu costretto a dimettersi per molto meno. Richard Nixon aveva tramato
e mentito agli americani, G. W. Bush ha tramato, mentito, trascinato il suo
Paese in due guerre, causato la morte di almeno 104.000 persone, ha fallito
nell’intento di rendere l’America e il mondo più sicuri, è implicato in scandali
domestici colossali fra Enron e Halliburton, ed è protagonista di un conflitto
di interessi da far impallidire il peggior Berlusconi. E ha vinto.

E mentre il Presidente americano trascina verso nuovi orizzonti
di impunità l’ideologia che sta così penalizzando la collettività planetaria
di uomini, donne, animali e piante, con danni forse irreparabili, altri continuano
a perdere: i poveri, l’ambiente, la pace, e la stessa intelligenza umana.
Continuano a perdere.
Ora, se questo, e la colossale mole di altre evidenze, non ci scuote, se
non è sufficiente a farci aprire gli occhi e ad ammettere che stiamo perdendo,
cosa altro lo farà? Stiamo perdendo, e riconoscerlo deve essere il primo,
traumatico passo che il Movimento deve fare per non soccombere per sempre.
Il documento che segue riconosce la vitale importanza dell’esistenza oggi
di un Movimento, identificato nelle rappresentanze riunitesi a Porto Alegre
e nei Social Forum, ma anche altrove nel mondo, capace di proporre modelli
alternativi di esistenza e di sviluppo umano. Tuttavia, io vedo il suddetto
Movimento ricalcare alcune delle modalità di azione che hanno portato altre
esperienze, come il Pacifismo o la lotta al Neoliberismo, al sostanziale
fallimento di cui sopra. Le righe che seguono vorrebbero essere un contributo
affinché le falle che si stanno aprendo nel grande vascello salpato da Porto
Alegre non portino al naufragio di un’altra grande, quanto vitale, speranza.
Nel 1869 nasceva il Mahatma Gandhi. Sono passati più di centotrent’anni di
Pacifismo attivo, attraversati da figure straordinarie come Bertrand Russell
o Martin Luther King, e da noi Aldo Capitini o Lorenzo Milani e gli altri
che li hanno seguiti.

Oggi il Pacifismo si fraziona in mille gruppi, decine di migliaia
di aderenti, infinite iniziative, che singolarmente hanno prodotto piccoli
(grandi) miracoli. Ma complessivamente il fallimento è devastante. Non si
sono fermate le guerre, le occupazioni, non si è bloccata una singola guerra
sporca, e il ricorso alle armi ha carattere di pandemia. Ma peggio, la spesa
militare mondiale sta rapidamente riguadagnando salute: aveva toccato nel
2001 gli 839 miliardi di dollari e dopo l’11 di settembre è destinata ad
aumentare vertiginosamente. Fra gli aumenti di spesa maggiori, oltre a quello
degli USA (48 miliardi di dollari previsti per l’anno fiscale 2003) c’è quello
dell’Africa, nonostante tutti gli appelli al contrario. Negli ultimi dieci
anni, a dispetto degli sforzi pacifisti, tutte le principali industrie belliche
hanno aumentato le vendite, fra cui si segnalano: Lockheed Martin da 16,7
a 18,6 miliardi di dollari - Boeing da 6,7 a 16,9 - BAE Systems da 11,8 a
14,4 - Raytheon da 7,2 a 10,1 - Thales da 4,0 a 5,6. (1)
E ancora peggio: le guerre scoppiano con una facilità spaventevole, perché si
fanno e basta, che si tratti della Palestina, dell’Afghanistan, dell’Iraq
o della Costa D’Avorio non importa, con la scioccante aggiunta che oggi,
forse per la prima volta nella storia moderna, le grandi democrazie si possono
permettere di lanciare guerre in totale spregio delle loro stesse opinioni
pubbliche, come è stato il caso dell’occupazione dell’Iraq nel 2003 che vide,
anche fra i cittadini occidentali, ampie maggioranze contrarie. Mentre scrivo,
infuriano da 24 a 62 diverse guerre nel mondo, a seconda della definizione
che si dà di conflitto. L’11 di Settembre 2001 ha segnato la fine dei residui
di speranza, sicuramente per decenni a venire, nelle lotte ai conflitti armati,
nella battaglia contro la tortura politica, e nelle campagne per il disarmo.

E’ imperativo a questo punto essere onesti con sé stessi: complessivamente,
il Pacifismo ha fallito.

Nel 1818 nasceva Marx. Sono passati quasi 200 anni di critica
moderna al capitalismo, alla sperequazione della ricchezza, allo sfruttamento
del lavoro e dell’ambiente, e una parte del mondo ne ha certamente beneficiato.
Ma nel 1975 Milton Friedman ed altri pensatori economici, su ispirazione
di Friederich Von Hayek e sostenuti dalle fondazioni e/o lobbies che li finanziavano,
hanno pensato bene di iniziare a smontare pezzo per pezzo centocinquant’anni
di progressi e ci hanno scodellato il Neoliberismo. E’ l’ideologia del libero
regno del mercato sulla società degli umani, che trovò subito una certa (anche
se limitata) opposizione. Ma anche questa ha fallito e dopo ventinove anni
di contestazioni il Neoliberismo ha vinto. Oggi, come mai prima, i lavoratori
di tutto il mondo sono ostaggi di una bolla speculativa che sposta un trilione
e mezzo di dollari al giorno (3 milioni di miliardi di lire) cancellando
centinaia di migliaia di posti di lavoro in qualunque Paese le capiti a tiro,
e che si fa beffe della volenterosa ma esile Tobin Tax. Infatti, il numero
di disoccupati nel mondo ha raggiunto il livello record di 180 milioni, secondo
l’ILO (2) Oggi il prodotto interno lordo dell’intero pianeta ammonta a 31,4
Trilioni di dollari annui (circa 63 milioni di miliardi di vecchie lire)
e una manciata di istituti finanziari internazionali ne possiedono la metà (!),
che equivale anche a più del doppio di quanto l’intero pianeta vende e acquista
in un anno, e non esiste più governo che li possa fronteggiare. (3) Dopo
decenni di mobilitazioni contro la fame nel mondo ancora abbiamo: 30 milioni
di morti per fame all’anno - il debito dei Paesi poveri è cresciuto dal ’96
a oggi di 400 miliardi di dollari mentre la loro fetta di commercio estero
si è ridotta del 40% - ogni 15 secondi un bambino muore per mancanza di servizi
igienici - dal Summit di Rio a oggi il numero di poveri è solo cresciuto,
e dopo il Summit sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg, alla faccia
di trent’anni di opposizione, il Neoliberismo ci ha riscodellato: 1) no alla
punibilità delle corporazioni per danni all’ambiente, 2) solo impegni volontari
delle multinazionali per il rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori,
3) ulteriore spinta al nucleare e al petrolio nell’accordo finale, 4) nessun
target fissato per le energie rinnovabili, neppure quell’1% proposto in un
ultimo disperato tentativo dalla UE, 5) nessun aumento degli aiuti al Sud
del mondo e nessuna nuova cancellazione dei loro debiti. (4) (5) Persino
lo storico accordo del 31 luglio 2004 al WTO a Ginevra si è rivelato un inganno:
annunciato come "una vittoria dei Paesi Poveri contro l’ingiustizia dei sussidi
occidentali alla (nostra) agricultura e al (nostro) export.." esso è stato
una beffa fraudolenta. Infatti la promessa riduzione americana del 20% dei
propri sussidi all’agricoltura è solo teorica, poiché per lasciare i sussidi
al livello di oggi è stato semplicemente alzato il tetto massimo consentito
(49 miliardi di $ annui) così che una riduzione americana del 20% di quel
tetto artificioso non intacca assolutamente quanto oggi percepiscono i contadini
USA (23 miliardi di $).. così è per la UE, stesso trucco.

L’evidenza del fallimento su larga scala dell’opposizione al
Neoliberismo è schiacciante, e la sua marcia inarrestabile è accompagnata
dal tripudio dei nostri consumi. Infatti durante gli stessi ventinove anni
di opposizione al mercato senza freni i nostri consumi sono raddoppiati:
con una mano abbiamo tentato di frenarlo mentre con l’altra lo abbiamo ingrassato
a dismisura. (6)

Tutto ciò è realmente accaduto purtroppo, a dispetto di una
colossale mole mondiale di manifestazioni, marce, sit-in, contestazioni,
iniziative culturali, pubblicazioni, reportage televisivi, occupazioni, disobbedienze
civili, e tant’altro. E’ imperativa qui una riflessione radicale sui nostri
metodi di lotta, cui accennerò più sotto.
A questo punto, immagino che a molti lettori il pensiero corra spontaneo
al Nuovo Movimento, e cioè al variegato popolo di Porto Alegre e dei Forum
Sociali mondiali, che è visto oggi come una grande svolta inedita, dove riporre
la speranza. E questa speranza riempie l’animo dei suoi sostenitori con l’effetto
inebriante di un miraggio, e il miraggio diviene certezza: il mondo si può cambiare,
un Altro Mondo è in Costruzione.
Sarebbe bello se fosse così, ma la mia sensazione è che anche Porto Alegre
sia destinato a un assai probabile fallimento, e per ragioni precise, che
formano il contenuto di questo scritto.

Prima di continuare, preciso, a scanso di fraintendimenti,
che il Forum Sociale Mondiale e le sue mille derivazioni sono fenomeni di
una importanza straordinaria, oserei dire imprescindibili per il nostro futuro,
ma proprio per questo vanno tutelati con grande attenzione critica.

Una premessa.
Per cominciare, sottolineo che la presente realtà spazza via gli entusiasmi,
i buonismi, gli slanci egualitari, gli ottimismi e, permettetemi, gran parte
dei piani di riscatto mondiale lanciati da Porto Alegre, se solo la si vuole
vedere con occhi aperti.

Cosa stiamo cambiando? Forse il nostro mondo ricco e iniquo?
Ma guardiamolo: siamo una colossale struttura socio-economica che ha cementato
da millenni le sue abitudini nel vivere e nel dominare, ma che è soprattutto
caratterizzata da un tremendo conservatorismo, che abbraccia tutte
le sfere del nostro vivere, dai macro sistemi alle abitudini quotidiane dell’individuo,
fin nei dettagli più sciocchi, e tutto questo forma il più formidabile muro
di resistenza al cambiamento - combattiamo perennemente una guerra apocalittica
(sia in termini morali che per numero di vittime innocenti) per l’accesso
alle risorse che pretendiamo da secoli - le nostre economie, anche le più forti,
sono sempre sull’orlo del tracollo con la spada della recessione che ci pende
sul capo - la povertà è in aumento anche da noi ricchi (come negli Usa o
in GB o in Italia) - la nostra disoccupazione è una cancrena mai sconfitta
e sempre in crescita - l’accaparramento dell’ energia che ogni giorno pretendiamo
viene ormai fatto di routine a colpi di missili Cruise - e la nostra gara
per stare a galla nel club dei Paesi ricchi richiede una assoluta spietatezza
col resto del pianeta, perché il nostro standard di vita non è negoziabile.
Sono in guerra fra loro i nostri ipermercati a colpi di offerte speciali,
i nostri sindacati, i nostri industriali, è guerra cercare un affitto decente,
ottenere una TAC in tempi utili a non morire, o ripagare i nostri mutui.
In altre parole, noi occidentali siamo 800 milioni di persone sempre più impaurite
che difendono con unghie e denti ciò che hanno ottenuto col sangue di miliardi
di poveracci, i cui fantasmi e i cui discendenti sempre più ci tolgono il
respiro. Il fatto è, ed è noto, che se si pretende uno standard di vita all’occidentale
su questo pianeta non ce n’è per tutti, e noi ricchi, che lo abbiamo capito
da un pezzo, abbiamo già scelto: soccombano gli altri, e non si discute.
E il Movimento cambierà ciò? Vogliamo cambiare un mondo che è in rapidissima
evoluzione, dove tutto muta.. eccetto noi. Noi siamo statici, fermi nelle
stesse modalità di lotta di decenni fa, proprio mentre i nostri avversari
lavorano 24 ore su 24 con mezzi economici colossali e cervelli fini, con
strategie sempre nuove per rimodellare tutta la nostra esistenza, e lo stanno
facendo da 30 anni. E noi? E’ incontestabile che nel suo complesso il Movimento
fa sostanzialmente poche cose riconosciute, certamente utili, ma di cui una
ci assorbe il 90% dell’energia: manifestare.

Finora quello che il Movimento ha fatto è di lanciare un’utopia.
Questa utopia è condivisa, nel senso di ‘messa in atto’, sul pianeta
terra forse da qualche centinaia di migliaia di persone (che sappiamo esserci),
ma per ciò che riguarda il consenso e soprattutto i comportamenti degli
altri miliardi di abitanti, non sappiamo nulla, ma soprattutto loro non sanno
quasi nulla o addirittura nulla di noi: l’Altro Mondo in Costruzione non è noto
né condiviso dal 99,99% dell’umanità. Porto Alegre è ancora un’inezia della
storia, non ce lo dimentichiamo mai, il cui potere rappresentativo è ancor
meno definibile. La domanda è: chi esattamente rappresenta questo movimento?

Alla vigilia del G8 di Genova un comunicato di un Social Forum
italiano recitava: "..noi ci facciamo carico delle istanze degli sfruttati
e dei poveri della terra..
". Ma di quali istanze si parla? I poveri della
terra troppo spesso non hanno i mezzi né la ‘cultura’ per pensarle. Chiunque
abbia fatto esperienza diretta nelle piantagioni di caffè della Tanzania,
nelle raffinerie della Nigeria o fra i lustrascarpe di Santo Domingo sa che
le parole sindacato, sicurezza sociale o sfruttamento occidentale lasciano
i volti di chi ti ascolta indifferenti. E’ la violenza profonda di secoli
di indicibile miseria che muove le loro mani e che guida i loro desideri:
mangiare, accaparrarsi tutto quello che si può, e domani, se possibile, di
più. Punto.

Per noi le multinazionali del petrolio sono mostri, nelle baracche
di Luanda o di Jakarta l’illusione è che la Total e la Exxon Mobil magari
un giorno gli porteranno la luce elettrica, o chissà, forse anche il gas.
A Luanda o a Jakarta pochissimi le contestano (quei pochi li conosciamo bene
e sono degli eroi), e i dati ce lo confermano: la richiesta di energia crescerà del
40% nei prossimi 15 anni e i tre quarti di quella richiesta verrà dal Terzo
Mondo. Vorranno soprattutto petrolio: nel 1972 le nazioni ricche consumarono
il 75% del petrolio prodotto, quelle povere il 25%. Nel 2010, e cioè fra
poco, le percentuali saranno 50% a 50%. Dal 1970 al 2010 gli Usa avranno
registrato un aumento di consumo di petrolio del 42%; nello stesso periodo
l’aumento di consumi per Cina e India sarà stato rispettivamente del 567%
e 510%. (7) Da notare che a Johannesburg (WSSD del settembre 2002) sono stati
proprio i delegati dei Paesi poveri ad appoggiare Usa, Giappone e OPEC nella
soppressione dell’accordo per le energie rinnovabili; a Johannesburg i poveri
chiedevano a gran voce "tecnologie per combustibili fossili". (8)

I poveri vogliono energia, ne hanno una sete infinita e ne
hanno diritto oggi, e non fra trent’anni quando, forse, sarà disponibile
l’idrogeno.

La nostra sostenibilità e le energie alternative sono belle
cose, ma se un giorno, come sarebbe giusto, finalmente toccasse a loro poter
volare per andare in ferie o accendere il forno a microonde o innaffiare
il giardino o avere l’airbag nell’auto, mi chiedo se Porto Alegre, che oggi
vorrebbe rappresentarli, sarà in grado di condurli sulla strada della moderazione
dei consumi (e della non violenza nel difenderli). Dopo secoli di privazioni?
Improbabile.

Ma le ragioni del fallimento annunciato di Porto Alegre stanno
soprattutto altrove, e sono identiche a quelle che hanno contribuito a far
naufragare sia il Pacifismo che la critica al Neoliberismo. Eccole.

L’ "Impero" lavora per noi. Noi lo finanziamo. L’ "Impero" siamo
noi.

Dal volume ‘Un Altro mondo in Costruzione’: "La disubbidienza sociale
deve essere riprodotta, magari in mille forme diverse... contro la violenza
dell’Impero, di chi comanda.
" Luca Casarini

Prima ragione. L’Impero siamo noi. Abbiamo
sempre identificato i nemici da combattere - il capitalismo selvaggio, la
politica ad esso asservita, il complesso militare industriale, le multinazionali,
l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il Fondo Monetario Internazionale
(FMI), la Banca Mondiale (BM), il G8 ecc.- all’esterno di noi stessi, e gli
puntiamo in dito contro mentre gli addossiamo la responsabilità per le ingiustizie
del mondo. In ciò si denota un nostro bisongo personale e impellente di affrancarci
dal ‘male’, di vederlo fuori da noi stessi e ben identificato in altri o
altro, contro cui iveire e per cui sdegnarsi. Questo è non solo semplicistico,
ma è soprattutto falso. Queste entità infatti siamo noi, poiché rappresentano
noi, servono noi, garantiscono il nostro standard di vita, quello di tutti
noi, e cioè degli 800 milioni di consumatori-elettori del Primo Mondo, a
cominciare dal caffè che beviamo la mattina. E chi le comanda siamo sempre
noi, col consenso che garantiamo loro anche se poi scendiamo in strada a
contestarle.

Cito l’autorevole opinione di Joseph Stiglitz, l’ex capo economista
della Banca Mondiale, secondo cui il vituperato Fondo Monetario Internazionale è sempre
stato il braccio armato delle nostre banche di investimento nel Terzo Mondo.
Gli fa eco Noam Chomsky: "Il FMI ha sempre garantito che gli investimenti
occidentali ad alto rischio nel Terzo Mondo fruttassero alti profitti
".
(9) Ma quei profitti sono stati intascati soprattutto da noi, i milioni di
cittadini/aziende/gruppi occidentali che sono la vera anima delle banche
d’investimento. Quei profitti, in altre parole, hanno nutrito la nostra economia,
dalla quale noi, seppure in diversa misura, abbiamo tutti attinto, che nessuno
si escluda, e da cui attingiamo e attingeremo.

Ed è altresì noto come il FMI abbia lavorato sodo per garantirci
le cose anche più semplici. Chiunque di noi abbia mai bevuto un caffè o indossato
una maglia di cotone non può chiamarsi fuori. E’ il Fondo Monetario che per
decenni ha incoraggiato i Paesi poveri a intensificare l’agricoltura da export,
di cui caffè e cotone sono due esempi, col miraggio di alti ricavi in moneta
forte per le loro casse statali. Questo ha portato quei Paesi a sottrarre
terre all’agricoltura di sussistenza (quella che produce cibo quotidiano)
per piantarvi le cosiddette ‘commodities’ (caffè, cotone, semi oleaginosi
ecc..). Risultato: i mercati sono stati inondati da questi prodotti, il loro
prezzo è crollato, i Paesi poveri non hanno incassato quel che gli era stato
promesso, e sulle nostre tavole o nei nostri negozi appaiono caffè e cotone
a prezzi contenuti (nonostante il lucro dei vari intermediari e la speculazione
delle Borse occidentali). Un esempio recentissimo è quello del cotone: super
produzione mondiale nell’anno 2001/02 con crollo del 35% dei prezzi sui mercati,
e guai grossi per i Paesi africani produttori. (10)
Dunque il Fondo Monetario siamo anche noi, tutti noi.

E lo stesso vale per il WTO. Un esempio fra tanti: chiediamoci
perché nelle Conferenze Ministeriali di Doha e Cancun sia gli Stati uniti
che l’Unione Europea hanno concesso quasi nulla sull’Agreement on Agriculture
(Accordo sull’Agricoltura, su cui non è stato concesso alcunché neppure dopo).
I Paesi in via di Sviluppo chiedevano che quell’accordo fosse modificato
al fine di obbligare noi ricchi a smantellare il sistema di ‘Protezione’ (il
Protezionismo) che offriamo alla nostra agricoltura (un miliardo di dollari
al giorno di sussidi), poiché esso è causa di orrenda povertà fra i contadini
del Sud del mondo. La risposta non va cercata nei corridoi del WTO a Ginevra
o della UE a Bruxelles, bensì fra i banchi frutta dei nostri ipermercati
e soprattutto fra i nostri agricoltori, che dal 1962 in Europa sopravvivono
grazie a questo sistema. I nostri, noi, ancora noi.
A Doha l’ Italia ha fatto muro perché i mercati tessili non fossero più di
tanto liberalizzati, e questo per proteggere non solo gli interessi dei ‘padroni’ del
made in Italy, ma anche dei loro lavoratori del settore, operai, tecnici,
autisti, che godono delle nostre protezioni doganali, le quali però penalizzano
drammaticamente gli sforzi di tanti artigiani esportatori dei Paesi poveri.
O noi o loro, e il WTO ha scelto noi.
Anche noi siamo il WTO. (11)

Sono questi due esempi del famigerato Protezionismo commerciale
con cui i governi dei Paesi ricchi sostengono i propri mercati. Il nostro
Protezionismo (per esempio, ogni anno 50 miliardi di dollari di sussidi per
i combustibili fossili che consumiamo e, ripeto, 360 miliardi di dollari
di sussidi per la nostra agricoltura) costa al Sud il doppio di quanto ricevono
in aiuti. Con una mano gli diamo un pezzo di pane mentre con l’altra gliene
togliamo due, e questo per ‘proteggere’ in nostri mercati, che sono i nostri
posti di lavoro che sono la nostra economia. Noi, sempre noi.

I governi dei G8 sono giganti coi piedi d’argilla, arroganti
all’apparenza, ma dentro tremebondi all’idea di perdere i consensi dei loro
elettori, cioè noi. Sanno bene, i Bush, Blair, Putin, Chirac, Berlusconi
ecc., che dovranno continuare a garantirci: il consumo del 45% di tutta la
carne e pesce del globo - del 58% dell’energia disponibile - del 74% delle
risorse telefoniche - dell’84% di tutta la carta - dell’87% dei mezzi di
trasporto esistenti e l’86% dei beni di consumo in generale. (12) In un mondo
che sta esaurendo le risorse il loro compito è duro, perché noi queste cose
le diamo per scontate ogni giorno, tutti noi, compresi quelli, come me, che
poi lottano contro il Neoliberismo. Le diamo per scontate ogni giorno, a
scapito di miliardi di poveri, eppure sappiamo bene (quasi tutti, ma non
tutti) che per garantircele i nostri governi non si fanno scrupolo di sganciare
qua e là qualche bomba cluster o missile Cruise. Scrive in proposito George
Monbiot, uno dei più rispettati intellettuali ‘antagonisti’ del mondo: "Il
nostro governo (britannico, ndr) sembra aver calcolato che l’unico modo di
ottenere l’energia per permettere agli uomini e alle donne inglesi di
rimanere sulle loro auto
è di assecondare gli Stati Uniti a qualunque
costo
."
Il G8, e la miseria creata nel Sud dalle sue politiche economiche e dalle
sue guerre tese all’approvvigionamento di quanto ho scritto sopra, siamo
noi.
E qui, per essere più specifico, cito l’esempio dell’India attingendo dalle
ricerche di Vandana Shiva. La popolazione di questo Paese ha pagato i seguenti
prezzi per l’applicazione dei nostri dettami economici: 1) sono stati sprecati
1,37 miliardi di rupie nel tentativo di lanciare un’industria nazionale della
floricoltura da esportazione (che ne ha guadagnati solo 0,32) - 2) è stata
ridotta la sicurezza alimentare nazionale del 70% - 3) i laghi per l’allevamento
intensivo di gamberetti da esportazione hanno distrutto aree 200 volte più vaste,
a causa della salinizzazione e dell’inquinamento dei terreni; conseguenza
ne è che per ogni posto di lavoro creato in quel settore, 15 famiglie hanno
perso il sostentamento - 4) nel caso degli allevamenti di bestiame da export,
per ogni dollaro guadagnato dall’India ne sono stati persi 15, pagati dai
contadini che non hanno più il letame da usare come concime e come combustibile
domestico (poiché le vacche vengono macellate dopo pochi mesi), che devono
essere rimpiazzati da concimi chimici e combustibili fossili importati. Ora,
chi li acquista quei fiori, quei gamberetti, quella carne, pagati in India
a prezzi bassissimi? Soprattutto noi occidentali, è la risposta fin troppo
ovvia. (13) Ma veniamo alle guerre, il bersaglio che più accende gli animi
dei Movimentisti.

Oggi, più che in passato, le guerre siamo noi, perché noi le ‘consumiamo’,
proprio come un alimento. Esse, come è noto, inseguono il petrolio, e il
petrolio noi.. ce lo mangiamo. Nessuno può chiamarsi fuori. Infatti, al contrario
di quanto comunemente si immagina, i combustibili fossili disponibili non
vengono risucchiati in prevalenza dal colosso industriale e militare del
mondo tecnologico, che pure ne consuma una porzione, ma piuttosto dalle nostre
bocche. Per produrre ogni singola caloria di cibo (soprattutto grano) che
noi ingurgitiamo occorrono in media da una a dieci calorie di combustibili
fossili. I cereali per arrivare sulla nostra tavola richiedono 4 calorie
fossili per ogni caloria che ci dannno. La carne di manzo ne richiede 35
di calorie fossili per darne una a noi, quella di miale vuole 68 calorie
fossili per ogni caloria alimentare che offre. Ogni innocente verdura che
vediamo in vendita è all’apice di uno spreco incredibile di idrocarburi.
Per lavorare e fertilizzare i campi dello Stato americano dello Iowa occorre
ogni anno l’energia equivalente a quella di 4.000 bombe termonucleari, energia
fornita interamente dal petrolio. Il globo consuma ogni anno 100 miliardi
di Kilowatt, quasi tutti prodotti da combustibili fossili, e il 73% di questa
energia va in agricoltura, luce domestica e trasporti, che tutti noi consumiamo.
Un europeo medio necessita di 2.500 calorie alimentari al giorno, ma poi
consuma 125.000 calorie di petrolio al giorno per vivere. Noi mangiamo e
viviamo soprattutto di petrolio, siamo idrovore di idrocarburi, e lo siamo
tutti, e tutti abbiamo vissuto fino ad oggi di ciò che le guerre ci hanno
garantito. Le guerre ci ‘alimentano’, e noi ingurgitiamo.

Ma la cosa più eclatante è che nonostante il Neoliberismo ("l’Impero")
non garantiscano a tutti noi occidentali lo stesso livello di agio e nonostante
le nefandezze che esso combina per nostro conto, noi (che nessuno si escluda)
lo ‘finanziamo’ da cinquant’anni ogni volta che acquistiamo plastica, carta,
detersivi, caffè, computer, telefonini, ogni volta che usiamo un bancomat,
che andiamo in vacanza, che cerchiamo lavoro, o che investiamo i nostri risparmi,
oppure ogni volta che facciamo il pieno al motorino per andare a una manifestazione.

Alcune prove di ciò che ho appena scritto.

Si è già detto che il Neoliberismo, con il suo bagaglio di
distruzioni umane, ambientali, e militari, e con i suoi portabandiera come
il FMI o il WTO, ci è stato letteralmente imposto (e sovente da noi ben accolto)
da fondazioni e lobbies. Esse hanno stanziato migliaia di miliardi con cui
si sono letteralmente comprate il consenso nelle sfere politiche di tutto
il mondo, con cui hanno allevato schiere di economisti che hanno piazzato
nei posti chiave del potere accademico o politico, lanciando così una inarrestabile
globalizzazione dei mercati con tanto di regole ferree che la cementano nelle
nostre vite, regole volute da loro, addirittura a volte scritte da loro,
e il cui strascico si chiama povertà, devastazione ambientale e talvolta
guerre. (14) (15) Queste lobbies, che sovrastano persino i nostri governi,
hanno nomi precisi: Trans Atlantic Buisness Dialogue (TABD) - European
Services Leaders Group (ESLG) - International Chamber of Commerce (ICC) - Investment
Network (IN) - European Roundtable of Industrialists (ERT) - American Enterprise
Institute - Philip Morris Institute - European Policy Center - Liberalization
of Trade in Servicies (LOTIS)
e altri. Ma chi sono esattamente? Non sono
altro che raggruppamenti di grandi industrie occidentali o dei loro ideologhi, che
noi serenamente foraggiamo con i nostri consumi ogni giorno
. Ed è qui
il punto: i miliardi con cui queste lobbies si sono impadronite del mondo
politico, economico e accademico vengono direttamente dalle nostre borse
della spesa. E dunque esiste veramente un filo diretto che lega lo zucchero
che noi mettiamo nel caffè e la spietata globalizzazione neoliberista del
WTO. Esiste perché Eridania (il gigante italiano dello zucchero) è membro
dell’Investment Network, la potente lobby che si riunisce direttamente dentro
il palazzo della Commissione Europea a Bruxelles, e che consegna alla Commissione
i diktat che essa porterà al tavolo del WTO. Lo stesso filo c’è se acquistiamo
una Panda. Infatti Fiat e Pirelli sono membri dell’Investment Network e dell’European
Roundtable of Industrialists. E se mangiamo pasta? Se facciamo foto? Se compriamo
i cotton fioc? Se ci squilla il telefonino? Se andiamo al cinema? Se facciamo
fotocopie o accendiamo il computer? Ancora peggio, poiché Barilla, Canon
e Kodak, Johnson & Johnson, Motorola, Ericsson e Nokia, Time Warner, Rank
Xerox e Microsoft sono tutti membri dell’International Chamber of Commerce,
che è oggi la più potente lobby del mondo, quella che per esempio chiese
nero su bianco al Cancelliere tedesco Schroder un attacco frontale agli Accordi
Multilaterali sull’Ambiente e alla etichettatura ecologica dei cibi. E se
voliamo verso le nostre ferie in Grecia? E se sverniciamo le nostre persiane?
E lo yogurt, la lavastoviglie, la passione per la Ferrari, Internet, la birra
con gli amici, il Viagra e tutti i farmaci più importanti? Siamo daccapo:
Boeing (che fa anche armi), Dow Chemicals, Danone, Candy, Shell, Microsoft,
Hewlett Packard, IBM, Carlsberg, Glaxo, Bayer, Hoffman La Roche, Pfizer,
Merck sono tutti in prima fila nel Trans Atlantic Buisness Dialogue, nel
European Services Leaders Group e nella International Chamber of Commerce.
Il TABD compila liste di ‘desiderata’ che pretende siano inserite nelle regole
di globalizzazione del WTO; è di fatto l’autore di alcune di quelle regole
ultra neoliberiste contro cui noi scendiamo in piazza. (16) Val la pena che
qui mi ripeta: noi scendiamo in strada a contestare il mondo che hanno creato,
mentre finanziamo quel mondo e le sue spietate regole col nostro stile di
vita. E allora non è forse futile e contraddittorio chiedere giustizia globale
puntando il dito contro i palazzi del potere e non contro noi stessi? Ecco
perché a Genova la strategia vincente sarebbe stata quella di voltare le
spalle al G8 dei capi di Stato e di rivolgersi al G8 vero, quello della gente,
andando per le strade d’Italia, nelle scuole, negli ipermercati, nei parchi,
nelle stazioni ferroviarie a creare consenso.

La riflessione che propongo è che la parete divisoria che amiamo
erigere fra noi e ‘loro’, e cioè fra il popolo delle persone sensibili alla
giustizia globale e i malvagi timonieri del Neoliberismo, è purtroppo un
artificio ingannevole. ‘Loro’ sono anche noi, e noi siamo anche ‘loro’. Non
ammetterlo condannerà Porto Alegre a decenni di manifestazioni, di invettive,
di sforzi, di impegno militante e all’uso di una montagna di energie del
tutto inutili, sprecati poiché diretti contro ‘Loro’, e cioè contro il bersaglio
sbagliato. Il vero bersaglio siamo NOI. Da questo fallimento noi usciremo
al peggio affranti, ma chi sta nella parte sbagliata del mondo ne uscirà affamato
e chi sta dalla parte sbagliata dei cannoni ne uscirà morto,

Dobbiamo subito guardarci allo specchio e chiederci: come possiamo
agire per ottenere coerenza fra il nostro standard di vita e i nostri ideali?
E come convincere altri a fare lo stesso? La risposta che propongo ha un
passaggio obbligato: Il calcolo esatto dei PREZZI che gli umani,
ed in particolare noi occidentali, devono pagare per cambiare il mondo. Le
domande sono: quanto costa l’Altro Mondo in Costruzione? Siamo disposti a
pagarne il prezzo?

Quanto costa un mondo migliore?

Seconda ragione. Di fatto non conosciamo esattamente quali
sono i PREZZI che noi ricchi dovremmo pagare fin da oggi per garantire in
futuro a miliardi di persone i diritti al nutrimento, alla salute, all’istruzione,
alla prosperità. E se non li conosciamo cosa mai cambieremo?. Chiedo: Porto
Alegre ha listato quei prezzi e li ha comunicati agli 800 milioni di consumatori-elettori
benestanti che poco ci conoscono ma che sanno benissimo ciò cui non vogliono
rinunciare? Gridare giustizia globale, rispetto per l’ambiente o stop alla
guerre è bene, ma ciascuno di noi, quando rientra a casa dalle manifestazioni,
si fa carico dei prezzi da pagare? Mi spiego meglio.

Vogliamo costruire un mondo migliore trasformando e/o eliminando
il WTO, il Fondo Monetario, la General Dynamics, i Trips, la BigPhrma, la
Goldman Sachs, la Novartis, un mondo senza l’11 di Settembre e senza Intifada,
senza Bhopal e senza Operazione Condor o Plan Colombia, un mondo senza bambini
schiavi e senza più le foto di Salgado a dirci quanto orrore accade ogni
giorno, un mondo che chiude la School of the Americas e dove John Poindexter
e il suo Information Awareness Office non hanno ragione di esistere, un mondo
dove Amnesty International va in pensione, e dove anche le braccianti di
Haiti possano aprire un rubinetto dell’acqua e farsi il bagno prima di coricarsi.
Un mondo, infine, che non necessiti di camere di tortura in Paesi lontani
per garantire a noi il carburante per il nostro standard di vita.

Ma tutto ciò è gratis per noi? Stiamo coi piedi per terra,
e allora agli economisti di Porto Alegre chiedo: nell’Altro Mondo Costruito
quali saranno le rinunce al consumo che ci toccheranno, e quanto della nostra
vita socio economica dovrà radicalmente mutare? Quanta occupazione dovremo
perdere se vorremo veramente permettere alle economie del Sud di sbarcare
sui nostri mercati? Potrò ancora volare Roma-Londra-San Francisco-New York
per 1.400 euro? Quante volte potrò usare l’anticalcare nella mia doccia?
Quante auto a famiglia e a che costo il carburante? La tuta da calcetto in
puro cotone africano costerà sempre uguale? E la plastica? le tv? i cd? E
il cibo? Noi ricchi potremo ancora spendere 26.000 miliardi all’anno in profumi?
Quanto costerà il mio caffè? Il costo dello smaltimento dei nostri rifiuti
sarà sempre lo stesso quando non potremo più scaricarli in mare o in Nigeria?
E Internet?

Già, Internet. Leggo uno scritto di Naomi Klein sul World Social
Forum di un paio di anni fa, dove la nota portabandiera no-logo scrive di
una nottata in un camping per giovani a Porto Alegre dove un vasto gruppo
riunito attorno a un altoparlante ascoltava una diretta dal World Economic
Forum di New York. La voce era quella di una corrispondente di Indy Media,
e arrivava vibrante e inalterata grazie a Internet. Scrive la Klein: "Per
me quello è stato il momento più rappresentativo dell’intero Forum. Ad un
certo punto il server americano si è disconnesso, ma all’istante un server
italiano ci ha soccorsi!
"

Certamente Naomi Klein si rende conto che il suo "momento
più rappresentativo
" si è materializzato per gentile concessione del
controllore mondiale di Rete che è la Internet Society in Virginia, vale
a dire per gentile concessione dei falchi dei Diritti di Proprietà Intellettuale
come Microsoft, come Hewlett Packard o IBM, per gentile concessione degli
impietosi licenziatori come Nortel & Alcatel (50.000 lavoratori a casa),
come Hitachi (20.000) o come Intel e Lucent (20.000), per gentile concessione
dei vampiri della speculazione finaziaria come la JP Morgan, e infine per
gentile concessione dei venditori di morte come Marconi Corp., come (la
ex) WorldCom, come Motorola Inc, come la Rand e come la Defense Information
Systems Agency. (17)
E allora chiedo: l’entusiasmante tecnologia internet che ha soccorso Naomi
Klein e i giovani di Porto Alegre sarà ancora possibile nell’Altro Mondo
in Costruzione, e cioè in un mondo ripulito dai sopraccitati mascalzoni?
Non si può evadere la risposta.

Altresì, è sicuramente ben accetto un Movimento che chiede
pace e che contesta le nostre interferenze ‘imperialiste’ nel destino politico
di tanti Paesi per assicurarci le loro risorse. Ma questi stessi contestatori,
così giustamente motivati, sapranno poi farsi carico dei prezzi conseguenti
a ciò che chiedono? E potrà farsene carico la società nel suo insieme? Immaginiamo
che il petrolio non sia più un ‘sorvegliato speciale’, per esempio. Perché è un
fatto che "... il costo della protezione delle riserve petrolifere
mediorientali, pagato soprattutto dagli Stati Uniti e senza il quale tutta
l’economia occidentale rimarrebbe paralizzata, è di almeno 25 dollari al
barile.
" (18) Ora, tutti d’accordo per l’uscita dei ‘falchi’ americani
(con conseguente caduta dei loro regimi fantoccio) dal Medioriente, ma chi
li pagherà quei 25 dollari extra per ogni barile estratto? E sappiamo quanto
questo inciderebbe sul costo di ogni azione che noi occidentali, inclusi
i contestatori, compiamo ogni giorno? Sapremo, o meglio, vorremo farcene
carico nella pratica?

L’Altro Mondo in Costruzione vorrà essere più vicino alla natura,
ed è un bene. Ma a quali prezzi? Un piccolo esempio che ha come protagonista
un altro Guru anti globalizzazione, José Bové. Il francese denuncia il sistema
di nutrizione dei vitelli: il latte che essi potrebbero naturalmente bere
dalle vacche gli viene sottratto, poi spedito ad alcune industrie, pastorizzato,
decremato, essiccato, e infine ricostituito, impacchettato e ritrasportato
dai vitelli. La UE finanzia questo processo con miliardi per tenere il prezzo
del prodotto industriale inferiore a quello del latte che i vitelli potrebbero
semplicemente succhiare dalle vacche. Aberrante, siamo d’accordo, ma se vogliamo
abolire questo ciclo ci dobbiamo chiedere: a quali prezzi? quanta economia
e quanto indotto andrebbero perduti? Soprattutto quanti posti di lavoro si
perderebbero? e otterremmo il consenso su questo da chi quel prezzo lo dovrà pagare?

Infatti sembra ormai chiaro che uno dei costi più amari che
noi ricchi dovremmo sostenere per un Altro Mondo in Costruzione è la perdita
di centinaia di migliaia (se non milioni) di nostri posti di lavoro, se veramente
vogliamo permettere al Sud di sbarcare sui nostri mercati ad armi pari o
di ricevere i nostri agognati investimenti nel rispetto dei loro diritti.
Un costo, questo, che sarà assai arduo proporre. Ne è un esempio lampante
ciò che è accaduto nell’aprile del 2000 in seno alla più potente economia
del mondo, gli Usa. Era quello il periodo in cui il governo federale stava
proponendo di concedere alla Cina la clausola del Permanent Normal Trade
Relations, con pieno appoggio all’entrata di Pechino nel WTO. Contro queste
misure, Washington DC vide massicce proteste dei più potenti sindacati americani,
AFL-CIO in testa con John Sweeney, ma anche James Hoffa e i suoi, fianco
a fianco ai falchi della destra nazionalista e ultraprotezionista di Pat
Buchanan. Il motivo di tanto clamore? Il timore, assai fondato, che il regalo
concesso alla Cina significasse massicce perdite di posti di lavoro americani
a favore dei più competitivi lavoratori di quel mondo più povero. Più recente è l’esempio
dell’Outsourcing, la pratica da parte di grandi aziende di affidare
a Paesi terzi un settore di produzione che prima veniva soddisfatto in sede
domestica. Il 30% di tutta l’industria dell’Information Technology americana è oggi ‘outsourced’ in
India, dove il lavoro costa assai meno. Ma in India quelli sono fra i posti
di lavoro più ambiti in assoluto. Dare a quei lavoratori paghe e diritti
di livello superiore - come il Movimento auspica - significa mandarli tutti
sul lastrico in 24 ore. Allora, ci sono qui due contraddizioni: vorremmo
che lavorassero con pieni diritti e paghe piene, ma così gli sottraiamo il ‘competitive
edge’, e cioè l’unica vera risorsa che hanno, la competitività sul lavoro.
Infatti a Doha proprio i Paesi in via di sviluppo hanno accusato i promotori
dei diritti globali di essere l’involontario strumento di un “protezionismo
occidentale di segno contrario”
, che dietro la bella facciata dei diritti
per tutti in realtà mirerebbe a sottrarre al Sud l’unica sua vera risorsa,
la forza lavoro competitiva. La seconda contraddizione è che per permettere
al Sud di avere standard di vita e di lavoro dignitosi ma al contempo di
mantenere gli investimenti dei ‘ricchi’ dovremmo non solo accettare massicce
perdite di impiego domestico ma anche pagare le merci assai di più. Su questi
problemi sono in imbarazzo tutti i sindacati occidentali, che balbettano
slogan come “gobalizzazione dei diritti” per non affrontare il grande nodo.

E noi che risposte diamo?. Si tratta di far accettare all’occidente
prezzi inaccettabili per i nostri contadini, metalmeccanici, operai, impiegati,
trasportatori, con relative famiglie, e per le aziende di tutti quei settori
che verrebbero penalizzati se l’Occidente permettesse ad omologhi del Sud
di veramente competere sui nostri mercati.
Io chiedo agli economisti di Porto Alegre di studiare, calcolare e divulgare
i PREZZI - in termini di MEZZI RICHIESTI PER LA FATTIBILITA’, PREZZI E RINUNCE
AL CONSUMO, MUTAMENTI DI STILI DI VITA, PERDITA DI OCCUPAZIONE E STRATEGIE
PER RICONVERTIRLA, EQUILIBRI POLITICI, CRESCITA ECONOMICA (sia qui che al
Sud) - di ognuno dei punti di lotta listati al termine delle Dichiarazioni
Finali dei World Social Forum, e dei tanti altri slogan dell’Altro Mondo
in Costruzione. Non conoscere quei prezzi, non divulgarli,
non farsene carico e non convincere la gente ad accettarli è precisamente
ciò che condannerà Porto Alegre a parlare al vento, tante belle parole ma
nessun seguito fra la gente. Dunque il fallimento.

Per dare solo un’idea di quanto noi ricchi dovremmo pagare
di tasca nostra per eliminare la sperequazione della ricchezza su scala globale,
cito qui una cifra: un trilione e mezzo di dollari all’anno, ovvero 3 milioni
di miliardi di vecchie lire annui. Chiediamoci: questa montagna di soldi
garantirebbe il benessere a tutto il Terzo Mondo? Neanche per sogno. Eliminerebbe
almeno la povertà? Neppure. Forse ridurrebbe la denutrizione infantile. Purtroppo
no. Tre milioni di miliardi di lire sarebbero appena sufficienti per dare
ai due miliardi di abitanti più disgraziati del pianeta due miseri dollari
di sussistenza al giorno! (19) Vi lascio immaginare cosa ci costerebbe un
mondo assai migliore.

Capita di rendersi conto, seguendo la vita italiana, che tanti
di noi non sono disposti a pagare alcunché. Emblematica è una lettera pubblicata
il 12/11/2002 dal quotidiano il Resto del Carlino, in seno a una iniziativa
di ‘acquista il made in FIAT’ per sostenere la traballante azienda
e i suoi lavoratori. Scrive un cittadino di Chiaravalle: "Aiutare la FIAT
mi sta bene, ma la mia vecchia auto straniera con un litro fa oltre 17 km.
Mi risulta che la Panda è ancora lontana da questi traguardi.
" Tradotto
significa: ‘nel nome di un paio di chilometri in più al litro, per me che
vadano pure in fumo i redditi di migliaia di famiglie italiane’. Ora immaginate
di chiedere a questa persona di far rinunce per i poveri del Sahel! E siamo
in tanti con questa mentalità.

Non ce n’è per tutti, e questo ci fa paura.

Terza ragione. Il fatto è che il Primo Mondo
si sta metaforicamente svenando per continuare a garantire non solo i margini
di profitto delle multinazionali, ma soprattutto il nostro standard di vita.
Porto Alegre dovrà saper convertire almeno la maggioranza di quegli 800 milioni
di persone il cui benessere oggi più che mai è minacciato da ogni parte.
E quelle persone hanno paura. Guardiamo alcuni dati. L’agenzia di rating
Standard & Poor ha calcolato che entro il 2050 il sistema fiscale dei maggiori
paesi industrializzati collasserà, con indebitamenti del 200% sul PIL, e
questo signifca la disintegrazione delle previdenze sia pubbliche che private.
Negli Usa: dal 1973 al 1993 la retribuzione media è crollata dell’11% - in
Virginia, nella culla della New Economy, la lista d’attesa per un posto al
dormitorio è di 70 famiglie al giorno - l’organizzazione Living Wage è nata
per chiedere il salario di sopravvivenza(!) per milioni di famiglie americane - il
numero di coloro che vivono sotto la soglia di povertà è di 33 milioni, mentre
la povertà infantile oggi è superiore a quella di 20 anni fa (13 milioni
di bambini) e questo è dovuto agli stipendi stagnanti e all’alto costo della
vita - il numero di cittadini americani senza copertura sanitaria è cresciuto
nel 2001 di 1.400.000 unità, per un totale di 44 milioni di individui. In
Gran Bretagna: gli ultimi dati sulla povertà parlano ufficialmente di 1 povero
su 4 cittadini, mentre gli esperti della previdenza integrativa britannica
hanno già affermato che neppure i fondi pensione privati potranno garantire
una sopravvivenza decente a milioni di futuri pensionati. Il numero di studenti
inglesi dei ceti medio-bassi che hanno oggi accesso alle ‘Grammar Schools’,
e cioè all’istruzione che più garantisce occupazione, è ai minimi storici.
In Giappone: il 3% delle imprese giapponesi si trova oggi a mantenere a galla
l’87% dell’economia al collasso, il debito nazionale è al 130% del PIL, i
consumi sono alla paralisi, la deflazione è in agguato. La Germania ha toccato
il tetto storico di 4 milioni di disoccupati, perché oggi assumere in Germania
costa il 40% in più che in Olanda o in GB. E anche la ridente Italia si ritrova
con 2.600.000 famiglie ufficialmente povere (l’11%), mentre la Fiat calava
del 10% all’anno nelle vendite, col risultato che si è visto. Nel nostro
Paese negli ultimi due anni i salari degli operai sono aumentati appena dello
0,25 per cento, mentre quelli dei colletti bianchi sarebbero addirittura
diminuiti dell’1,1 per cento (come potere d’acquisto). I fallimenti aziendali
nel Primo mondo sono all’apice, i licenziamenti pure: Ford, Motorola, Consigna,
Fiat, France Telecom, Alcatel, Hitachi, General Motors e Philips hanno in
pochi mesi licenziato un totale di 222.000 lavoratori.
Di fronte alla PAURA che ciò crea in noi, i politici occidentali hanno deciso
di proteggere il nostro standard di vita in una lotta senza esclusione di
colpi e con l’arma del Protezionismo. Un dato: il Protezionismo delle merci
americane voluto da Reagan e da Clinton è stato superiore a quello di tutti
i presidenti americani nei passati 50 anni, George W. Bush mantiene il passo
e l’Europa non fa meglio. E’ in gioco il nostro standard di vita, e lo reclamiamo
senza pietà.(20)
Che il Neoliberismo sia una delle principali cause dei nostri stessi guai
economici è possibile, ma il punto è un altro: Porto Alegre sta dicendo a
questi 800 milioni di impauriti e insicuri, aggrappati alle loro auto, alle
vacanze, ai loro posti di lavoro, ai fondi di investimento, alle offerte
speciali, ai telefonini, ma soprattutto ansiosi di non farcela a mantenersi
a galla, che la soluzione sta in un Altro Mondo in Costruzione, di cui innanzi
tutto non conosciamo il prezzo, ma che soprattutto verrà fra quanto? 50 anni?
150 anni? 500 anni? Ma l’infermiere di Parigi, il commerciante di Positano,
la biologa di Madrid, il meccanico di Livorno, il taxista di Francoforte
o la maestra di San Diego hanno paura oggi, e vogliono oggi soluzioni a breve
termine. Cercano casa, devono curarsi o ripagare i mutui, hanno i figli all’università,
devono comprare un’altra auto o pagare le spese di condominio e hanno PAURA,
paura di non averne abbastanza, di perdere il lavoro, paura dell’immigrazione,
del terrorismo, e di tanto altro.

Soffermiamoci sulla paura. La giusta idea (e tema noto a Porto
Alegre) secondo cui la vera prevenzione dei conflitti sta nella giustizia
sociale ed economica globale non tiene conto di una cosa: che di fronte alla
paura, la parte meno evoluta della natura umana diventa ‘di destra’ e chiede
a gran voce soluzioni semplicistiche a problemi complessi (che è il
classico impianto della mente conservatrice). E’ precisamente per questo
che di fronte all’11 Settembre, che di fronte a Richard Reid con l’esplosivo
nelle scarpe, che di fronte all’orrore della scuola di Beslan, che di fronte
allo spaccio di droga e alla violenza urbana, che di fronte alle convulsioni
dei miliardi di disperati del mondo, il politico che propone tali semplicistiche
soluzioni ottiene ampi consensi. Berlusconi, Blair e Bush l’hanno capito
e in questo sono stati geniali. Porto Alegre è tutto il contrario. E’ moralità,
intelligenza, dedizione, elasticità delle analisi, creatività, e soprattutto
un lungo paziente lavoro per ottenere risultati duraturi a lungo termine.
Ma sapremo comunicare e convincere 800 milioni di persone spesso impaurite
che è meglio la gallina domani piuttosto che l’uovo oggi? E nel frattempo?
Perché anche se magicamente potessimo spegnere oggi stesso i mefitici motori
(che noi alimentiamo) del Fondo Monetario, del WTO, delle bolle speculative,
del Pentagono, della Commissione Europea, del Neoliberismo e dei nostri consumi,
l’abbrivio dell’odio contro di noi che abbiamo creato al Sud e la corsa dei
poveri al materialismo a tutti i costi durerebbe ancora decenni, e ancora
per decenni i benestanti del Nord dovrebbero fare i conti con i Bin Laden,
con i rapimenti, con i fanatismi, con le mafie globali, con tutto quello
da cui ci sentiamo minacciati oggi. E la domanda è: in quei lunghi anni di
attesa saprà Porto Alegre tenere vivo il consenso per le soluzioni intelligenti
e a lungo termine? Sappiamo benissimo che oggi, e in futuro, ogni qual volta
ci sarà un altro Daniel Pearl (21) assassinato dai fanatici o un’altra Beslan,
milioni di persone qui da noi riprecipiteranno nell’ansia e nella vecchia
convinzione che il dialogo non paga. Meglio le bombe. E infatti le macerie
delle Torri Gemelle non erano neppure state rimosse che già Thomas Friedman
scriveva sul New York Times: "Abbiamo ascoltato gli europei e abbiamo
optato per il Dialogo Costruttivo. I nemici dell’America hanno sentito in
ciò puzza di debolezza, e per questo noi abbiamo pagato un prezzo enorme...
Quale è l’alternativa degli europei? Aspettare che Uday Hussein, che è ancor
più psicopatico di suo padre Saddam, possegga armi biologiche per colpire
Parigi? No, Bush sta dicendo a questi Paesi e ai loro terroristi: ’Sappiamo
cosa state ordendo, ma se credete che staremo ad aspettare un altro attacco
vi sbagliate! Siete dei folli? Incontrate Donald Rumsfeld, è ancor più folle
di voi!’ ... L’intenzione di Bush di essere almeno folle come i nostri nemici è ciò che
di giusto sta facendo.
" (22)
Non è la cecità di queste parole che conta qui, quello che conta è che riflettono
il consenso di milioni di occidentali impauriti.
E noi non li ASCOLTIAMO! Non sappiamo ascoltare la paura delle persone comuni,
quelle che così spesso ignoriamo e anzi, che scartiamo con un certo disprezzo
come rappresentanti di una bieca via di comodo, egoista e insensibile ai
drammi dei poveri. Ma che errore. Dovremmo fare il contrario e imparare ad
accoglierli con le loro paure, ascoltandole innanzi tutto, prima di proporgli
ogni altro discorso.
E dovremmo saper rispondere efficacemente a fatti come questo: la Commissione
USA per l’11 Settembre nel suo rapporto finale ha puntato il dito contro
l’Amministrazione Clinton perché nel maggio e nel dicembre 1998 il presidente
americano cancellò due operazioni per catturare Bin Laden in Afghanistan,
per il rischio di vittime civili e per non essere criticato internazionalmente
come ‘aggressore’. L’agente della CIA Mike Scheuer scrisse allora "Ci
pentiremo di non aver agito
" ..
.. Poi ci fu l’11 di Settembre, con la tragedia che è stato in USA e per
tutto il mondo dopo (e con la manna che ha rappresentato per l’establishment
della destra militare). E dunque di fronte a un’opinone pubblica che ora
sa che Bin Laden e la catastrofe globale che ha innescato furono lasciati
essere per ‘qualche scrupolo’ di legalità internazionale, cosa rispondiamo
noi? Forse qualche slogan garantista totalmente inadatto a placare la loro
frustrazione e rabbia, tanto meno a convincerli? Farcela qui sarà durissima.

Porto Alegre tiene conto nelle sue pubbliche manifestazioni
enelle sue strategie comunicative dell’insormontabile muro di insicurezze
e di paure dietro cui sempre più l’Occidente si va barricando?

Quello che ci necessita sono strategie formidabili di comunicazione
e di creazione di consenso
, ma che siano nuove, perché come ho già detto
i fallimenti a catena del passato ci impongono un radicale ripensamento
dei nostri metodi di impegno e di lotta. La domanda è: Porto Alegre sta
comunicando con la gente, sta creando consenso?

Porto Alegre sta comunicando?

Quarta ragione. Come si crea consenso? O forse è meglio
formulare la domanda con maggior precisione: quali sono i metodi migliori
per comunicare con la mira di creare consenso? Se assumiamo come vicina al
vero la descrizione che ho fatto degli 800 milioni di consumatori-elettori
benestanti del Primo mondo, e cioè gente in maggioranza assai restia al cambiamento
del loro standard di vita per il bene comune, la provocatoria risposta che
mi viene di getto è: non i metodi di Luca Casarini.
Casarini è un uomo di grande talento, scrive benissimo, come oratore non è da
meno ed è figura indispensabile nel panorama odierno, per tenacia e per creatività,
guai mancasse. Ma la sua comunicazione è, a mio parere, un disastro.
La sua lotta "all’Impero", ho già scritto, è deviante e fallimentare rispetto
alla realtà, ma ciò che è anche insidioso nella sua ideologia sono il concetto
di ‘disubbidienza’ e il fervore ‘epico’ con cui sia lui che coloro che lo
condividono la mettono in pratica, come se avessero ricevuto una investitura
di paladini di giustizia globale. Mi soffermo brevemente sulla sua retorica.
Scrive Casarini: "Siamo disposti, per cambiare il mondo, a metterci in
gioco fino a questo punto, sfidando la violenza dell’Impero? Questa è la
domanda e il contrasto è fra chi è disposto a combattere pagando prezzi altissimi
e chi invece arriva fino a un certo punto e poi lascia perdere
". (23)
Sottolineo proprio quest’ultima frase perché mi sembra sia arrogante e discriminante
porre un limite ‘virile’ sotto il quale un impegno minore contro le ingiustizie
va considerato con un certo spregio; saremmo fortunati, e ci sarebbe da esserne
grati, se tutte le persone anche solo una volta nella vita facessero con
noi un pezzettino della strada. Ma nel brano che ho citato è soprattutto
evidente la retorica epica con cui Casarini pone sé stesso e chi lo condivide
sulle perigliose barricate della lotta ai malvagi ("..chi è disposto a
combattere pagando prezzi altissimi.."
- sarebbe stato auspicabile qui
un po’ di rispetto sia per i luoghi del mondo dove veramente si pagano prezzi
altissimi nella lotta ‘all’Impero’, sia per coloro che li hanno pagati, da
Bhopal all’Ogoniland). I toni sono da guerra santa, e non abbiamo forse già imparato
dove esse ci portano?
Cosa fa credere a Casarini che ‘disubbidire’ sia ancora oggi la strada più efficace?
La precarietà di questa posizione è presto dimostrata se ci immaginiamo la
stessa ‘disubbidienza’ praticata, con altrettanta fervente convinzione di
essere nel giusto, dalla Destra conservatrice. E infatti essa lo fa: Bush
sta ‘disubbidendo’ ai seguenti trattati internazionali e alle seguenti istituzioni
1) Biological Weapons Convention 2) Anti Ballistic Missile Treaty 3) Small
Arms Treaty 4) International Criminal Court 5) Kyoto Protocol 6) UN Convention
Against Torture 7) Comprehensive Test Ban Treaty 8) Organization for the
Prohibition of Chemical Weapons 9) United Nations Charter (24). Oltre all’Iraq,
i governi di Israele, Turchia, Marocco, Croazia, Armenia, Russia, Sudan,
India, Pakistan, e Indonesia stanno ‘disubbidendo’ a 91 diverse risoluzioni
del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. (25) Di Silvio Berlusconi è superfluo
scrivere. Ma attenzione: tutti costoro sono ferventemente convinti che la
loro ‘disubbidienza’ sia un sacro dovere per il bene delle rispettive comunità o
del mondo intero. Se è legittimo per Casarini disubbidire, lo è per Bush,
poiché non esiste sentenza divina che aprioristicamente legittimi la giustezza
della causa del primo rispetto a quella del secondo; è solo una questione
di individuali convinzioni. E allora va chiesto: ‘disubbidire’ è un diritto
solo se si ‘disubbidisce’ dal basso?
E’ una strada questa che rischia di aggrovigliare il Movimento, più che spianarci
la strada. Fare a pezzi i centri di ‘accoglienza’ temporanea per immigrati,
i Mac Donalds, tentare di penetrare la Zona Rossa di Genova o di incatenare
le saracinesche della Adecco non hanno portato a nessuna efficace comunicazione
con la pubblica opinione, non hanno creato consenso sui temi della fame,
delle guerre o dell’ambiente ecc., e di questo non mancano purtroppo le evidenze.
Ma soprattutto nasce qui il sospetto che al ‘metodo’ Casarini interessi assai
poco penetrare le anime degli 800 milioni di consumatori-elettori benestanti
del nostro mondo; si ha l’impressione che la prima preoccupazione di coloro
che sposano questo metodo sia di soddisfare un proprio bisogno di emozioni
forti, quell’adrenalina che viene dagli slanci di Don Chisciottiana memoria, ‘noi
gli idealisti arrabbiati contro l’Impero del Male..’. Dov’è il canale di
comunicazione e creazione di consenso fra il fervore dei centri sociali e
i consumatori dell’Esselunga o delle Ipercoop, fra le truppe dei ‘disubbidienti’ e
i tifosi di Luna Rossa o i giovani in carriera, fra le tute bianche e i milioni
di italiani che si informano al bar, guardando le reti televisive, o, peggio,
per sentito dire? E si tratta dei commercianti, delle casalinghe, dei giovani
dei call center, dei lavoratori più svariati, degli anziani, milioni di anziani,
che votano, consumano e che certamente ancora non abbiamo informato a sufficienza,
tanto meno convinto. Provate a sparpagliarvi fra loro e a chiedergli chi
sono i ‘no-global’. Io ho sentito riposte da brividi. Ve ne do un esempio
emblematico: alla recente partenza delle Carovane della Pace comboniane a
Limone sul Garda (07/09/04), abbiamo vissuto l’aperto ostruzionismo organizzativo
da parte sia delle autorità locali che del parroco del paese. Perché? Semplice,
erano terrorizzati dall’arrivo dei "no-global che avrebbero sfasciato tutto" (!).
Ecco come abbiamo saputo comunicare chi veramente siamo, noi del Movimento.
Qui la responsabilità è nostra. Punto.
E’ essenziale smettere di parlarci addosso: i nostri convegni, incontri,
dibattiti, vedono riunirsi ormai sempre gli stessi volti, lo stesso ‘popolo’ di
gente già sensibilizzata che parla sostanzialmente a sé a stesso, con rare
eccezioni.

Lo stesso vale per tutte le anime del Movimento, che hanno
il dovere di spingere lo sguardo oltre l’immediata gratificazione del proprio
agire per verificare quanto realmente quelle azioni (marce, occupazioni,
slogan, disubbidienze ecc.) stiano penetrando e convincendo la nostra immensa
quanto statica collettività. Come ho già scritto, finora l’evidenza dei risultati è sconsolante.

Dobbiamo porci due domande: 1) Come tramutare l’ampio consenso
che la società civile occidentale dà al suo benessere - col suo corredo
di ottusità morale, egoismo, diffidenza di ciò che è nuovo, pigrizia mentale,
tendenza conservatrice del gruppo - in un consenso verso l’esatto contrario,
verso l’autocritica, l’altruismo intelligente, il desiderio di sperimentare,
la creatività, e una radicale rivoluzione dell’essere ‘gruppo’, che sono
l’essenza del pensiero di Porto Alegre?
2) E come dialogare con miliardi di esseri umani del Sud del mondo,
che oggi dopo secoli di strazianti privazioni sono in corsa verso un materialismo
che difficilmente ammette mediazioni, affinché non replichino il nostro scempio
economico e interculturale?

Una precisazione è importante.

Comunicare e creare consenso oggi è opera di difficoltà estrema,
soprattutto per un motivo, eccolo: si chiama velocizzazione della vita
di tutti noi
. E’, per il cittadino medio, forse il principale ostacolo
all’adozione di stili di vita sostenibili, equi e solidali, in altre parole
il principale ostacolo all’adozione dei principi di Porto Alegre. I ritmi
di crescita economica desiderati ci tolgono il respiro, l’impegno del lavoro
oggi è una spirale in crescita continua. L’economia britannica vola ben al
di sopra della media europea, ma Londra è esente dal rispetto della Direttiva
Europea sul Tempo di Lavoro e molti inglesi stanno a lavorare più di 48 ore
alla settimana. Tony Blair se ne vanta. Ed Campodonico, giovane rampante
della New Economy di Seattle, lavora 84 ore alla settimana, e il suo ex datore,
la Microsoft, lo portava come modello. (26) Stiamone certi, questo è il futuro
dei nostri giovani, ma anche il presente non ci lascia spazi. Il fatto è che
per aderire al progetto di Costruire un Altro Mondo bisogna 1) informarsi
2) dibatterne 3) partecipare 4) farsi carico dei PREZZI e tanto altro. Le
giornate della nostra vita sono fatte di 24 ore; se togliamo il lavoro, la
famiglia, il sonno, il mangiare, e la fatica di vivere di ciascuno di noi,
non rimane più nulla, anzi, già non è rimasto nulla a metà strada di questo
calcolo.
Come faremo a comunicare con persone che non hanno
lo spazio di vita per ascoltarci? Porto Alegre ha affrontato questo
tema?

Credo che la ‘nuova’ comunicazione per creare consenso debba
accantonare come secondari - nel senso di utilizzabili come seconde scelte
anche se ancora utili in particolari frangenti- gli strumenti che per quarant’anni
abbiamo privilegiato (manifestazioni, marce, sit-in, occupazioni, disubbidienze
ecc.) e che appaiono ormai spuntati, per le ragione che ho spiegato in questo
scritto. Credo fermamente che vada trovato un modo diverso di chiedere alla
gente di sensibilizzarsi verso i mali globali e di assumere comportamenti
che concretamente li combattano. Certamente appellarsi al senso morale, al
rispetto dei diritti dei più deboli va bene, ma abbiamo visto che non basta.
Far leva sull’orrore che suscitano le immagini di bimbi in agonia, di donne
che si cibano di radici, di arti amputati dalle bombe, va bene, ma abbiamo
visto che non basta. Recitare all’infinito le cifre della grottesca sperequazione
della ricchezza nel mondo o dell’ingordigia delle multinazionali va bene,
ma ancora non basta. Tutto ciò è stato fatto alla nausea e siamo a questo
punto.

Trovare nuove arti per comunicare i temi di Porto
Alegre e per creare consenso attorno ad essi, e farlo proprio fra la
maggioranza meno sensibilizzata, è la sfida principale, assolutamente
la più ardua, che tutto il Movimento deve affrontare. Non farlo, e
cioè reiterare i vecchi metodi, condannerà Porto Alegre all’infelice
destino delle rivoluzioni naufragate degli scorsi decenni.

Il ‘nuovo’ lavoro di comunicazione va svolto capillarmente,
casa per casa, scuola dopo scuola, piazza su piazza, in tv, sui giornali,
presso le associazioni professionali o di categoria, ipermercato per ipermercato,
con iniziative pacate, originali, in associazione con chiunque ci porga una
mano. E’ un lavoro poco ‘adrenalinico’, ma darà frutti duraturi, ma soprattutto
offre una speranza di far breccia fra tutti coloro (la maggioranza) che di
fronte ai milioni di appelli alla giustizia e alla solidarietà non hanno
trovato motivi per agire
.

A chi sta storcendo il naso, ricordo che sono quarant’anni
che ci agitiamo nelle piazze, che ci parliamo addosso, ma la pensionata di
Leeds, il camionista di Cuneo, l’avvocato di Brema, la segretaria di Madrid
o il poliziotto di Atene non li abbiamo mai veramente raggiunti, mai convinti,
forse mai veramente considerati. E sono i milioni di consumatori-elettori
che poi spostano il mondo, e il cui potere di conservazione può travolgere
noi e i nostri ideali come l’uragano con la pagliuzza.

Conclusione.
Sulla via per Costruire un Altro Mondo abbiamo dunque ostacoli immensi, forse
insormontabili, forse oggi è troppo tardi per fermare la locomotiva neoliberista.
Ma almeno una certezza io l’ho: dobbiamo 1) Farci carico che il Neoliberismo
("l’Impero") siamo anche noi, tutti noi. 2) Conoscere, divulgare e farci
carico degli esatti COSTI di un mondo migliore, e ottenere consenso su
di essi. 3) Scoprire nuove arti per comunicare e per creare consenso attorno
alle nostre speranze, imparando innanzi tutto ad ascoltare persone sempre
più impaurite, senza giudicarle.

Se non lo faremo, anche Porto Alegre si dissolverà in una inezia
della nostra storia.

Paolo Barnard

dpbarnard@libero.it

Bibliografia.

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    Expenditure.
  2. Global Exchange, 10 Ways to Democratize the Global Economy.
  3. Stime Banca Mondiale, 1999.
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    3. Mark Townsend, The Observer, 18/8/2002.
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  9. Un debito senza Fondo, Report, RAI3, 08/12/1999.
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  15. I Globalizzatori, Report,RAI3, 09/06/2000.
  16. Corporate Europe Observatory, Amsterdam.
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  17. The Federation of American Scientists, Arms Sales Monitoring, 02-2002.
  18. Peter Hain, speech at the Royal United Services Institute London, 17/10/2002.
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  20. Kevin Phillips, The Politics of Rich and Poor.
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    7. IMF World Economic Outlook 2001.
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  21. Giornalista del Wall Street Journal assassinato nel feb. 2002 da un gruppo
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  22. Thomas Friedman, NYT 16/02/2002.
  23. Un altro mondo in costruzione, Baldini & Castoldi, 2002.
  24. George Monbiot, Logic of Empire, 06/08/2002, & The Guardian 02/2002.
  25. Stephan Zunes, Foreign Policy in Focus, 03/10/2002.
  26. Report, E-conomy, 10/2000.

Note:
Paolo Barnard è giornalista, ha lavorato per tutte le maggiori testate italiane
ed è autore di inchieste, fra cui I
Globalizzatori
- Un
Debito senza Fondo
- Little
Pharma Big Pharma
- Perché ci
Odiano
- L’Altro Terrorismo (REPORT,
RAI 3)
, e della pubblicazione Due
pesi due misure, riconoscere il terrorismo dello Stato d’Israele
.

http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_8387.html

Messaggi

  • Ho letto con attenzione l’articolo e vorrei aggiungere alcune cose dal momento che vivo in Brasile e mi trovo spesso, esattamente, a Porto Alegre per motivi di lavoro. Sono pienamente d’accordo con l’idea che siamo tutti colpevoli e responsabili di questo mondo e delle sue prossime future evoluzioni. Vengo dal mondo del volontariato e conosco i poveri e i miserabili. Forse non sapete, ma a Porto Alegre ha vinto l’opposizione e cioè gli anti PT, quelli che sono contro tutto quello che il PT del Rio Grande do Sul (a questo punto è obbligatorio il distinguo) ha fatto e chi ha votato in questa opposizione (che per colmo dell’assurdo si è riunita attorno al PPS che era l’antico partito comunista filosovietico) non è stata la classe media o comunque coloro che hanno unn benessere da difendere, sono stati gli altri quelli che hanno privilegi da difendere e i mezzi per farlo (RBS, Fiergs eccetera in una strana alleanza veneto-ebrea) e i poveri o meglio i miserabili che vivono di illegalità (i venditori ambulanti di cineserie, falsificazioni, droga e medicinali proibiti) che vogliono il benessere facile (mi ricordo dello sciopero dei contrabbandieri a Napoli) e che non hanno possibilità di averlo in altro modo per incapacità, impossibilità o pigrizia. E allora da che parte stiamo?? Vedendo l’operato del PT nazionale nazionalista e vetero-comunista, mi chiedo se davvero non dobbiamo cambiare campo, metterci definitivamente a favore di chi la pensa come noi e abbandonare ogni forma di perbenismo caritatevole che ci fa sentire in colpa verso chi ha meno di noi sia economicamente che intellettualmente. Non sono contro i poveri o i miserabili, ma penso sia giusto, efficace e morale chiedere loro gli stessi diritti e doveri a cui io mi sottometto. Voglio essere e spero che tutti imparino ad essere tolleranti, ma (come sostiene mia moglie che insegna ad alunni della periferia in situazioni inimagginabili per l’Italia) con responsabiltà. Un’ ultima cosa. Vorrei tanto che si imparasse a distinguere cavalieri da cavalli (come si diceva in Italia anni fa), non abbiate nessuna comprensione per le elites dei paesi detti del Terzo Mondo, non la meritano. Non perdonate debiti delle elites, esigeteli e distribuiteli ha chi ne ha bisogno. Queste elites non meritano niente, vivono da secoli sfruttando i miserabili sotto di loro e la compassione delle persone comuni dei paesi europei.