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Archimede, cazzuola e dignità

Publie le lunedì 11 ottobre 2004 par Open-Publishing

Dazibao


Il muratore Archimede Tripiedi il vestito buono non lo mette solo nelle
grandi occasioni. La lezione l’ha imparata da Di Vittorio, così come l’orgoglio
per la sua funzione sociale
Licenziato dopo più di quarant’anni di fatica, un lavoro vissuto sempre con grande
senso di sé. Non è emigrato al Nord con una valigia di cartone perché un lavoratore
non deve mai farsi compatire


di MANUELA CARTOSIO

Il vestito buono, completo grigio scuro di tasmanian, Archimede Tripiedi non
lo mette solo quando l’invitano al Circolo della Stampa a parlare del lavoro
del muratore «ieri e oggi». La serata era organizzata dalla Carovana antimafie
che quest’anno punta i riflettori sui cantieri e, in particolare, sul caporalato.

Come omaggio a don Ciotti, Archimede aveva declamato una sua poesia dove la «dignità» supera di slancio la fatale antinomia tra «libertà» e «giustizia». Perché, per metterla in prosa, «per avere la dignità devi essere libero e deve esserci giustizia sociale». Archimede veste elegante anche di mattina alla Casa del Popolo di Desio, dove l’incontriamo per farci raccontare più diffusamente la sua storia.

Giacca e cravatta

I panni da muratore li ha smessi dal 23 settembre. A tre mesi dalla pensione, la Cooperativa selciatori e posatori per cui lavorava ha pensato bene di licenziarlo. Ma al «presentarsi bene», al «non farsi compatire» Archimede ci ha sempre tenuto. «Noi magut siamo considerati sporchi e ignoranti. Eppure siamo noi che soddisfiamo il secondo bisogno dell’uomo. Il primo è mangiare, il secondo è avere un tetto, un riparo, una casa. Dunque, siamo importanti, abbiamo una cultura». Il suo conterraneo Giuseppe Di Vittorio diceva ai braccianti di «mettersi la cravatta per andare in piazza la domenica». Per dimostrare che «non erano servi». Quella «lezione di dignità» percorre come un filo la vita di Archimede. Quando nel 1962, a 19 anni, per la prima volta «salì» al Nord da Pulsano (in provincia di Taranto) non aveva la valigia di cartone. «La mia era nuova, di stoffa scozzese». Dentro c’era il piccolo «corredo» comprato dalla madre Maria Stella. «Le camicie le ho vendute, ancora nelle buste, a 500 lire l’una per arrivare alla prima paga». Via 8 mila lire anticipate per la camera in pensione a Sesto San Giovanni, via il deca «prestato e mai più rivisto» all’amico che l’aveva convinto a partire e, dopo un giorno, era tornato al paese, «non mi restava niente per mangiare». Il primo lavoro, da manovale, lo trova alla General Montaggi che sta tirando su un capannone alla Falck. Assunto in regola, perché a quei tempi le imprese facevano la fila sotto le pensioni, si contendevano i lavoratori a colpi di «dieci lire in più all’ora». Il caposquadra Brambilla, consegnandogli il primo acconto, pronuncia una frase che urta ancora adesso Archimede: «Tu sei un terrone che sfalsa la razza».

Per il giovane che con la valigia scozzese sbarca alla Stazione centrale la sorpresa più grossa sono «i passeri che camminano tranquilli per strada». Però non è pischello senza uso di mondo. Al suo attivo ha tre «fughe» da altrettanti «collegi» dove la famiglia povera e numerosa - dieci figli - «si illudeva che i preti mi avrebbero convinto a studiare». Prima di finire le elementari scappa, nell’ordine, da Centocelle, Bassano di Sutri, Matelica. Chilometri a piedi, sempre riacciuffato dai carabinieri. Una sorella che abita a Roma fa l’ultimo tentativo per «tenerlo sui libri», lo iscrive alle commerciali. Invano. «Marinavo e percorrevo Roma in lungo e largo». In via Taranto, «scopre» una sezione del Pci. «Avevo paura, le suore dicevano che Stalin era un diavolo con la pipa. Ho preso coraggio, mi sono avvicinato e ho visto che ballavano, si divertivano e non mangiavano i bambini».

Garzone a giornata

Per strada, nei bar, in sezione, Archimede studia a modo suo: «Ascolto, assorbo, imparo». E’ il metodo che usa ancora adesso, «le persone sono i miei libri».Rientrato a Pulsano, fa il garzone muratore «a giornata». Al mattino in piazza i «maestri» facevano la «chiamata», «non c’era bisogno di caporali». Pagavano al sabato, sempre in piazza, «500 lire a giornata, quando i braccianti ne prendevano 400». All’inizio, il lavoro è solo la «fatica» di trasportare a spalla i tufi - «50 centimetri x 30 x 25, pesanti 50 chili, di più se bagnati» - e d’impastare la malta «come duemila anni fa». Il «piacere» arriva dopo, quando «rubando il lavoro ai maestri riesco a fare una volta, un forno, un pozzo». La «gelosia del mestiere» resiste intatta «di generazione in generazione» nei cantieri di oggi. Il servizio militare, «anche lì mi sono ribellato agli attenti-riposo», interrompe la prima esperienza di lavoro al Nord che «non mi insegna niente, salvo scrivere le lettere alla fidanzata, anche a quelle degli altri». Il 68 a Pulsano è «un'eco lontana». In quell'anno Archimede si sposa e «sale» di nuovo al Nord, «un mese in nero in un cantiere a Moncalieri con le urla dei capi nelle orecchie». Ripiega su Desio, dove fino al74 fa il muratore per l’impresa Terreni. «Erano anni di grande subbuglio» e nella vasta offerta a sinistra del Pci Archimede opta per Servire il popolo «di quel carogna di Brandirali che poi si è messo con Formigoni». Lì era tutto comunista: matrimoni, battesimi, divorzi e autotassazione, «versavo all’organizzazione una bella fetta del salario, comunque non mi pento». A Desio c’è l’Autobianchi e Archimede si fa tentare dal «posto sicuro». Fa la tuta blu per qualche anno, se ne va «sulle sue gambe» prima che la fabbrica chiuda. Torna a fare il muratore, ormai di terzo livello, perché «in fabbrica sei solo un numero, giri sempre la stessa vite, in cantiere costruisci una cosa, la senti tua. Quando passo sotto la pretura di Desio so che lì dentro c’è anche il mio lavoro».

La parentesi metalmeccanica, tutto sommato, ha i suoi lati positivi: le 150 ore, l’esperienza come delegato Fiom, un solitario sciopero della fame - «allora non si usava» - contro la nocività. Della fabbrica Archimede rimpiange solo una cosa: «Se cinquanta scioperavano, si bloccava tutto». In cantiere, invece, scioperare è una parola. «Si è divisi per appalti, spesso non sai neppure il nome di chi ti lavora a fianco, hai il fiato sul collo del capo che ti allunga il fuori busta». L’edilizia è il settore con il più alto tasso di sindacalizzazione, eppure è quello dove il sindacato conta meno. I muratori sanno che il sindacato è «l’unica protezione», ma la tengono di riserva «per quando decidono di farla pagare al padrone». Il cantiere è «un porto franco», gente che va e che viene, «governare tutto questo per il sindacato è impossibile».

Negli anni Ottanta Archimede lavora alla Gandolfi, 400 operai, «facevamo tutto noi, senza subappalti, c’era solo qualche cottimista calabrese». Palazzi, ville, ponteggi, ristrutturazioni in grande. I cantieri parlano ancora solo i dialetti del Sud, il bergamasco e il bresciano. Gli extracomunitari arrivano all’inizio dei Novanta, dopo il passaggio di Archimede alla Cooperativa selciatori e posatori che fa strade, rivestimenti, piazze, giardini e «arte povera», posare le selci a coda di pavone o i sassi di colori diversi secondo motivi ornamentali. La cooperativa esiste da cent’anni e, di fatto, funziona come una qualsiasi impresa privata, «il direttore amministrativo conta più del presidente». Archimede si rimette in pista come delegato della Fillea, ottiene «le visite mediche, le tute catarinfrangenti, il quarto livello per chi fa arte povera, il pagamento dell’ora di trasporto dal magazzino al cantiere». Per l’ultimo obiettivo, «siamo andati fino in Cassazione che ci ha dato ragione».

La catena dei subappalti

Anche un delegato che non sonnecchia, può fare poco contro la catena dei subappalti. E la condizione degli extracomunitari è «ben peggiore» di quella degli immigrati meridionali. «Noi potevamo piantare lì tutto e tornare a casa, loro no. Quelli in regola con il permesso di soggiorno, hanno il ricatto del rinnovo. Gli altri, peggio che andar di notte». Il rumeno Ion Cazacu l’hanno bruciato vivo, «siamo nell’era della barbarie». Il caporalato, il lavoro nero, gli infortuni nei cantieri ci sono sempre stati. La differenza è che ora queste cose dilagano nei grandi cantieri. «Perché c’è il liberismo, la deregulation e noi c’abbiamo pure il governo Berlusconi. I padroni vogliono rifarsi». Sugli infortuni Archimede non vuol sentire parlare di «noncuranza» dei lavoratori. E’ l’impresa a dettare tempi e costi. «Se l’operaio mette i guanti in un’ora dà meno cazzuolate che senza. Ma non è lui a decidere». Quanto alla nocività professionale, Archimede è un buon esempio. «Sono quasi sordo e ho un bypass». Ridotte capacità lavorative, secondo il referto della Clinica del lavoro che ha chiesto alla cooperativa di assegnargli mansioni più leggere. La cooperativa ha risposto picche e l’ha licenziato, «come una vacca che non dà più latte». Archimede ha impugnato il licenziamento e aspetta gli eventi.

Un figlio sindacalista

Come «il calzolaio fa le scarpe per gli altri ma non per sé», il nostro muratore abita in affitto in una vecchia casa popolare. Il progetto di costruirsi la casa a Pulsano l’ha accantonato da un pezzo. «La mia vita adesso e qui». Ha tre figli, due maschi e una femmina, e un paio di nipotini. Avrebbe dato metà dei suoi anni perché i figli studiassero. Non hanno voluto «e con i miei precedenti non ho potuto fare la voce grossa». Un figlio l’ha risarcito: fa il sindacalista della Fillea. La moglie, bellissima nella foto del matrimonio sul comò e bella ancora, «detesta» che lui scriva le poesie. Si intuisce che i costi della dignità di Archimede, che si vanta di non aver mai fatto un’ora di straordinario, li ha retti lei. Gli rimprovera di «pensare sempre agli altri». E lui ribatte che «pensando agli altri, penso a me stesso».

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/09-Ottobre-2004/art127.html